Per il secondo anno di fila, cresce il numero delle donne che sono state accolte nei centri antiviolenza D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza). Nello specifico, si tratta del 14% di persone in più rispetto al 2023. Esaminando i dati inerenti i primi 10 mesi dell’anno corrente, dalla rilevazione sul 97% delle strutture in questione emerge che ben 21.842 donne si sono rivolte ai centri. Se si guarda alla media su base mensile, nel 2024 i centri antiviolenza hanno accolto 2.184 donne, contro le 1.924 del 2023.
Mandato della CPI contro Netanyahu: quali sono le possibili conseguenze?
Sono passate poche ore da quando la Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale ha deciso di emettere mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, ma sono già arrivate le prime reazioni. Da Israele, partendo dal governo e passando per l’opposizione, piovono le accuse di antisemitismo contro la CPI e contro il procuratore Karim Khan. A Bruxelles, l’Alto Commissario per gli Affari Esteri uscente, Josep Borrell, ha ricordato ai Paesi membri dell’UE che gli ordini della CPI sono vincolanti, e che in ogni Paese firmatario vige l’obbligo di arrestare gli accusati nel caso in cui si trovassero su suolo nazionale. Negli USA, invece, uno dei primi a esprimersi è stato il futuro consigliere per la Sicurezza Interna, Mike Waltz, che ha mostrato pieno sostegno a Netanyahu, così come la stessa Casa Bianca. Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: quali sono, fuori dalle dichiarazioni, le possibili conseguenze di tale decisione? Dalle questioni giuridiche a quelle di natura politica, i potenziali scenari sono molteplici e gli effetti dei mandati meno scontati di quanto appaiano.
Mandati di arresto della CPI: accuse e reazioni
I mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant sono stati richiesti dal procuratore della CPI, Karim Khan, lo scorso 20 maggio. Nei loro confronti sono state formulate accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, commessi «sul territorio dello Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dall’8 ottobre 2023». Tra questi vi sono l’affamare la popolazione come strategia di guerra, il «causare intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute», l’«uccisione intenzionale» e gli «attacchi intenzionalmente diretti contro la popolazione civile», lo sterminio, la persecuzione e altri «atti inumani». Tutte le accuse lanciate da Khan sono state accolte, ed è stato analogamente riconosciuto l’intento “punitivo” verso i civili che secondo il procuratore si cela dietro i vari crimini di Israele.
Le prime reazioni ai mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant sono arrivate poco dopo l’annuncio della CPI. Il primo a esporsi è stato il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, che ha condannato fermamente la decisione della Corte. Qualche ora dopo è arrivata la risposta di Netanyahu, che si è scagliato contro il procuratore Karim Khan: «La decisione di emettere un mandato di arresto contro il Primo Ministro è stata presa da un procuratore capo corrotto che sta cercando di salvarsi dalle accuse di molestie sessuali e da giudici prevenuti, motivati dall’odio antisemita verso Israele». Una delle prime reazioni internazionali, invece, è arrivata dal Ministero degli esteri olandese, che ha comunicato che se Netanyahu o Gallant dovessero trovarsi su suolo nederlandese, verranno arrestati. In Italia il primo a esprimersi è stato Antonio Tajani, che ha parlato con quella particolare opacità mascherata da moderatezza che contraddistingue il linguaggio della politica: «Noi sosteniamo la CPI ricordando sempre che la Corte deve svolgere un ruolo giuridico e non politico. Valuteremo insieme ai nostri alleati cosa fare e come interpretare questa decisione e come comportarci insieme su questa vicenda». La Casa Bianca, infine, ha espresso piena condanna verso la decisione della CPI.
Conseguenze giudiziarie
Le conseguenze più dirette del mandato di arresto sono certamente quelle di natura giuridica. Malgrado le dichiarazioni di Tajani, dopo l’emanazione di un mandato d’arresto da parte della CPI c’è poco da «valutare» o «interpretare»: si deve semplicemente rispondere ai propri doveri. Le decisioni della Corte Penale, infatti, sono vincolanti e i Paesi firmatari hanno l’obbligo di rispettarli. I mandati di cattura, di preciso, stabiliscono che i Paesi arrestino le persone coinvolte nel caso in cui esse mettano piede nel loro territorio, per poi consegnarle al Tribunale. Gli stessi Stati Uniti hanno ricordato spesso questi doveri ai firmatari, specialmente nel caso dei mandati contro Putin. L’ultima volta risale giusto allo scorso settembre, quando Putin è volato in Mongolia nel suo primo viaggio in un Paese firmatario dello Statuto di Roma da quando è sotto ordine di cattura internazionale. Come prevedibile, la Mongolia non lo ha arrestato.
La CPI, dopo tutto, si fonda sul principio di cooperazione degli Stati e non è dotata di alcun organo esecutivo che renda efficaci le proprie decisioni. Tra i firmatari, tra l’altro, vi è un’importante lista di grandi assenti, tra cui si annoverano Stati Uniti, Russia, Cina, e la stessa Israele. Va comunque fatto un distinguo: uno dei principi fondativi dell’Italia e di quasi tutti i Paesi europei è quello della separazione dei poteri. Nel caso in cui Netanyahu dovesse atterrare in Italia, a prendersi carico dell’onere sarebbe l’autorità giudiziaria; risulta insomma improbabile che egli non venga arrestato nel caso arrivasse in un Paese comunitario. Le conseguenze giudiziarie dei mandati di arresto, tuttavia, sono facilmente evitabili: Gallant è stato licenziato, mentre Netanyahu può farsi rappresentare in Europa dai suoi alleati, e intanto continuare a viaggiare indisturbato negli USA. Se poi la crisi interna in Israele dovesse farsi tanto forte da costringerlo a dimettersi, il nuovo capo del governo non sarebbe soggetto ad alcun mandato di cattura, e potrebbe continuare indisturbato il genocidio del popolo palestinese.
Conseguenze politiche e contro la CPI
I possibili effetti politici risultano invece più incerti. Da Israele e Stati Uniti non ci si aspetta rovesciamenti di fronte, ma è molto probabile che essi si muovano contro la stessa CPI. Dopo tutto non sarebbe la prima volta che gli USA minacciano i funzionari della Corte per avere svolto il proprio lavoro, tra cui lo stesso Khan. Era già successo nel 2020 nei confronti di due membri della Corte che avevano aperto delle indagini sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi dagli USA in Afghanistan. A giugno, poi, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una bolla proposta dai repubblicani che prevede l’applicazione di sanzioni e misure restrittive contro i giudici della Corte Penale Internazionale “impegnati in qualsiasi tentativo di indagare, arrestare, detenere o perseguire qualsiasi” politico statunitense o “persona protetta” dal Paese che come gli USA non riconosca la CPI. I riferimenti a Khan, Israele e Netanyahu non risultano casuali, e sono inseriti in maniera esplicita. A tal proposito, Israele è già a lavoro per formulare raccomandazioni e proposte su come punire la CPI, che presenterà all’amministrazione Trump.
Che dire invece dei leader europei? Continueranno a mandare armi a uno Stato il cui Presidente è accusato di crimini di guerra e contro l’umanità? Lo proteggeranno in sede internazionale? Proveranno a incontrarlo volando a Tel Aviv? Gli scenari possibili sono molteplici, e indubbiamente l’emissione del mandato della CPI ha una sua rilevanza dal punto di vista politico. Tuttavia, è difficile che esso faccia scaturire una reazione nell’immediato da chi, come l’Italia, è sempre rimasto, nel migliore dei casi nella comoda zona d’ombra dell’astensionismo. Con ogni probabilità, invece, potrebbe rilanciare le cause spagnola e irlandese, che in Europa sono i due Paesi che più si sono spesi a favore di un riconoscimento della Palestina e di un embargo contro lo Stato ebraico. In generale, il mandato potrebbe spingere Madrid e Dublino ad aumentare la pressione a livello internazionale – e in prima istanza tra le mura dei palazzi di Bruxelles – perché gli Stati si coordinino per fare qualcosa di concreto che scongiuri le azioni di Israele in Palestina.
Le reazioni possibili sono diverse, ma è difficile dire con certezza cosa succederà. Probabilmente i più eviteranno di esporsi troppo dal punto di vista politico, e aspetteranno di vedere come la presidenza Trump gestirà la cosa. Focale, a tal proposito, potrebbe risultare l’eventuale cambio di politica commerciale degli USA che, in caso di eccessiva rottura con l’UE, potrebbe spingere alcuni Paesi comunitari a riconsiderare il proprio rapporto con Washington e di conseguenza anche le altre relazioni internazionali.
[di Dario Lucisano]
Biden non si ferma più: concesso all’Ucraina anche l’uso delle mine antiuomo
Dopo il recente via libera all’utilizzo di missili a lunga gittata in territorio russo, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha deciso di concedere all’Ucraina anche l’impiego di mine antiuomo. A dare la notizia è il segretario della Difesa Lloyd Austin, che ha spiegato che il loro scopo è quello di rallentare l’avanzata russa, che si sta facendo sempre più forte e difficile da contenere. «Ce le hanno chieste e penso sia una buona idea», ha commentato il vertice del Pentagono, senza menzionare il fatto che l’Ucraina sia uno dei firmatari della convenzione di Ottawa del 1997, che vieta l’uso, lo sviluppo, la produzione, l’acquisizione, lo stoccaggio e il trasferimento di tale apparecchiatura. Essa è stata ratificata da oltre 160 Paesi, con lo scopo di porre fine alle sofferenze e alle vittime causate dalle mine antiuomo. Tale armamento, infatti, causa danni devastanti su civili e territorio, anche in tempi non di guerra, ed è ancora oggi responsabile di migliaia di morti all’anno.
L’annuncio di Austin è arrivato ieri, mercoledì 20 novembre, e segue di qualche giorno l’autorizzazione a utilizzare i missili a lungo raggio ATACMS per colpire il territorio russo rilasciata da Biden a Kiev. Lo scopo delle mine è quello di contrastare la sempre più dirompente avanzata russa: invece di avanzare con un’avanguardia di carri armati e veicoli blindati, spiega Austin, le truppe di Mosca ora combattono con squadroni più piccoli e sparsi. L’esercito ucraino «ha bisogno di equipaggiamento che possa aiutare a rallentare questo sforzo», tra cui proprio le mine antiuomo. Non si sa ancora, tuttavia, quando queste verranno consegnate. Giusto due giorni fa, mercoledì 19 novembre, è stato annunciato un pacchetto di aiuti da 275 milioni di dollari in equipaggiamento militare, ma, vista la lista degli armamenti inclusi nel pacchetto recentemente pubblicata dalla Casa Bianca, non sembra che le mine verranno spedite a questa tornata.
Austin ha rassicurato i giornalisti dicendo loro che le mine che verranno utilizzate dall’Ucraina, essendo a batteria, avrebbero un limitato periodo di vita, e possono essere attivate a distanza. Questo, tuttavia, denunciano numerose associazioni come Human Rights Watch, non giustifica l’invio e l’utilizzo di simili armamenti: le mine antiuomo, infatti, sono tecnologie dal devastante impatto distruttivo, di cui il mondo sta ancora cercando di liberarsi. Il percorso per rendere illegali le mine non è stato privo di ostacoli e ancora oggi c’è chi sostiene che questi esplosivi siano indispensabili per difendere le nazioni da invasioni e attacchi terroristici. Tra coloro che non condannano l’uso delle mine antiuomo figurano tra le altre la Russia, l’India, il Pakistan, la Siria, il Marocco, ma anche Israele, la Corea del Sud e gli Stati Uniti. Una posizione diversa è stata assunta da 164 nazioni, le quali hanno aderito alla Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione, un accordo che, a partire dal 1997, ha posto un freno alla diffusione di questo esplosivo: esso è meglio conosciuto come “trattato di Ottawa”.
Nonostante siano passati oltre 27 anni dalla convenzione di Ottawa, le mine antiuomo non hanno cessato di essere un problema. Secondo il report 2024 del Landmine Monitor, nel solo 2022 le mine antiuomo hanno ucciso e ferito almeno 5.757 persone, mentre dal 1999 a oggi le vittime sono state 114.228, di cui 91.011 civili. A proposito di mine antiuomo, un caso paradigmatico è costituito dai Paesi balcanici, prima fra tutti la Bosnia Erzegovina. Secondo i diversi programmi di contrasto a tale armamento, già nel 2019 non vi sarebbero più dovuti essere esplosivi nel Paese; nel 2020 ve ne erano più di 79.000, e a oggi più di 100 chilometri quadrati del Paese sono coperti da mine. Come in Bosnia, anche in altri Paesi firmatari il territorio coperto da mine supera il centinaio di chilometri quadrati. Essi sono Afghanistan, Cambogia, Etiopia, Iraq e Turchia. L’Azerbaijan, invece, è uno dei Paesi non firmatari di Ottawa in cui il problema delle mine risulta più critico: a oggi si parla di 30.753 mine antiuomo, 18.531 mine anticarro e 60.268 proiettili inesplosi per un totale di oltre 111.207 ettari di territorio. Si tratta, in totale, di una porzione pari a circa l’1,28% dell’intero Paese. Oltre a uccidere migliaia di civili anni dopo la fine dei conflitti, infatti, le mine antiuomo causano grossi problemi al territorio, che diventa inutilizzabile sia dal punto di vista agricolo che da quello edilizio, causando danni ambientali e socio-economici.
La stessa Ucraina risulta uno dei Paesi più minati al mondo, e tanto Mosca quanto Kiev sono state accusate di avere impiegato mine antiuomo nel corso della guerra. Human Rights Watch ritiene di avere le prove che la Russia abbia ricoperto i territori ucraini conquistati di mine, e di avere il sospetto che anche l’Ucraina abbia già fatto ricorso a tali armamenti. L’autorizzazione di Biden non fa che complicare ancora di più la situazione del territorio ucraino, aumentando i futuri pericoli – e costi – che il Paese dovrà affrontare al termine dell’attuale conflitto.
[di Dario Lucisano]
Finlandia, inizia l’esercitazione della NATO Dynamic Front
L’esercitazione della NATO Dynamic Front è approdata in Finlandia, che così ospiterà per la prima volta nella sua storia un addestramento dell’Alleanza Atlantica. Dynamic Front è iniziata lo scorso 4 novembre e finirà domenica 24 novembre. Alle esercitazioni stanno prendendo parte 3.600 soldati provenienti da 24 diversi Paesi, che in questo momento si trovano proprio nel Paese scandinavo recentemente entrato a far parte della NATO e si stanno addestrando a soli 100 chilometri dal confine con la Russia. Scopo delle esercitazioni è quello di addestrare l’interoperabilità in condizioni di freddo estremo, in un poligono di tiro dall’area di 1.200 chilometri quadrati. Altre sedi dell’esercitazione sono Estonia, Germania, Polonia e Romania.
Immagini satellitari svelano il sito archeologico di una battaglia che cambiò la storia
È stato identificato il sito archeologico della battaglia di al-Qadisiyyah, il quale si trova in Iraq ed è stato scovato attraverso un metodo tutt’altro che scontato, ovvero confrontando i resoconti storici con le immagini declassificate dei satelliti spia statunitensi. A rivelarlo sono i ricercatori della Durham University nel Regno Unito e dell’Università di Al-Qadisiyah in Iraq, i quali hanno dettagliato la loro scoperta in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Antiquity. La battaglia, avvenuta nel 637 d.C e di cui l’ubicazione precisa non era in precedenza nota, vide vincere un piccolo esercito arabo musulmano contro una forza molto più numerosa proveniente dall’impero sasanide e rappresentò «un momento cruciale nella loro storia» secondo i ricercatori, i quali hanno in programma di continuare a mappare mappare ciò che resta e di effettuare le indagini archeologiche.
Nei primi decenni del settimo secolo dopo Cristo, l’impero arabo musulmano stava espandendo i suoi confini, confrontandosi con i potenti imperi vicini. Tra questi vi era l’Impero sasanide, il quale governava su gran parte della Persia e possedeva una forza militare considerevole. La battaglia di al-Qadisiyyah fu uno degli scontri più decisivi, segnando la fine dell’egemonia sasanide e aprendo la strada all’espansione araba in Mesopotamia e oltre. Gli arabi musulmani, pur numericamente inferiori, prevalsero grazie a una combinazione di coraggio e strategia brillante, come spiegato da Mustafa Baig, docente all’Università di Exeter non coinvolto nella ricerca. Quella vittoria determinò l’espansione del territorio musulmano in Persia e oltre, ma nonostante la sua importanza storica, la localizzazione precisa del campo di battaglia è rimasta un mistero fino ad oggi: gli scienziati stavano inizialmente mappando il percorso di pellegrinaggio di Darb Zubaydah – un antico cammino che univa Kufa, in Iraq, alla Mecca – e, utilizzando immagini satellitari spia degli anni ’70, i sono accorti che le stesse potevano essere usate per localizzare il sito della battaglia. Dopo aver tracciato le distanze descritte nei resoconti storici e sovrapponendole alle immagini ottenute, sono stati identificati un forte ed una doppia cinta muraria, poi confermate dagli stessi documenti storici. «Non potevo crederci», ha dichiarato il coautore William Deadman.
Il sito si trova a circa 30 chilometri a sud di Kufa, nella regione di Najaf, oggi zona agricola. Sebbene gran parte dei resti murari – tra cui una lunga fortificazione di circa 6 miglia – sia stata distrutta o incorporata nei terreni per la coltivazione, i ricercatori sperano di poter mappare ciò che resta e proseguire con indagini sul campo, anche se le difficoltà politiche relative alle tensioni in Medio Oriente hanno sospeso i piani per una visita diretta. Nonostante ciò, gli storici ritengono che la scoperta rappresenti una svolta nella conoscenza delle battaglie storiche e nella comprensione del periodo di espansione dell’Islam. L’individuazione del sito, inoltre, non solo arricchirebbe la storia militare, ma aprirà probabilmente nuove opportunità per il turismo secondo Baig, che prevede un grande interesse per il sito tra i turisti, religiosi o meno, una volta che il luogo sarà accessibile.
[di Roberto Demaio]
La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per Netanyahu
La Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nel farlo, l’organismo internazionale ha respinto i ricorsi dello Stato di Israele e accolto le richieste avanzate dal Procuratore della medesima istituzione, Karim Khan. Oltre a Netanyahu, la CPI ha emesso analoghi mandati anche per l’ex ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, e per il comandante delle Brigate Al-Qassam, il braccio armato di Hamas, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri. Netanyahu e Gallant, nello specifico, sono accusati di “crimini contro l’umanità e crimini di guerra” commessi nella Striscia di Gaza tra l’8 ottobre 2023 e “almeno il 20 maggio 2024”. Ora, secondo le leggi dello Statuto di Roma, il documento che sancisce la nascita della Corte, se il premier israeliano dovesse viaggiare in un Paese firmatario, dovrebbe essere arrestato.
Le decisioni della Camera preliminare I della Corte penale internazionale nella sua composizione per la situazione nello Stato di Palestina sono state prese all’unanimità oggi, giovedì 21 novembre. Le accuse a Netanyahu e Gallant sono quelle di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Tra i crimini di guerra figura l’aver “privato intenzionalmente e consapevolmente la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sua sopravvivenza, compresi cibo, acqua, medicinali e forniture mediche, nonché carburante ed elettricità”. Tra i crimini contro l’umanità, invece, vengono citati “omicidi, persecuzioni e altri atti disumani”, oltre alle già menzionate privazioni intenzionali e calcolate di cibo, acqua e assistenza umanitaria ai danni della popolazione civile. A tal proposito, la Camera ha ritenuto che Netanyahu e Gallant “abbiano ciascuno responsabilità penale in quanto superiori civili per il crimine di guerra di aver diretto intenzionalmente un attacco contro la popolazione civile”. Il tribunale, inoltre, ritiene che i crimini contro l’umanità di cui accusa Gallant e Netanyahu siano “parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza”. I mandati di arresto della CPI hanno valore vincolante. Ora, i Paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma hanno l’obbligo di arrestare Gallant o Netanyahu nel caso in cui essi arrivino sul loro territorio. La lista di Stati che hanno firmato lo Statuto è lunga, e include la maggior parte dei Paesi europei. Esclusi, tra gli altri, USA, Cina, e Russia, oltre allo stesso Stato di Israele.
[di Dario Lucisano]
Pakistan, attacco a veicoli passeggeri: almeno 38 morti
Come le nostre città sono diventate invivibili (Monthly Report)
Le nostre città stanno cambiando, e lo stanno facendo a una velocità tale che forse nemmeno ce ne rendiamo conto. I centri urbani si stanno progressivamente trasformando in aziende, luoghi a misura di consumatore, dove ogni dettaglio è funzionale ad attrarre nuovi turisti, nuovi capitali, e nuovi cittadini-consumatori transitori (ed economicamente benestanti). Le dinamiche di questo mutamento accomunano pressoché la totalità dei centri urbani italiani e occidentali. Non si tratta affatto di fenomeni casuali, ma del risultato di dinamiche in atto, mai discusse pubblicamente e portate avanti sulla pelle dei residenti.
Negli anni, la maggiore autonomia delle amministrazioni locali è stata accompagnata da tagli al bilancio, costringendo i Comuni a cercare nuove entrate e strategie per mantenere i conti in ordine. Così, servizi di base per i cittadini – come trasporti, sanità e impianti sportivi – sono stati progressivamente ridotti in favore di iniziative destinate a promuovere l’immagine della città come vetrina di attrattive appetibili sul piano internazionale. In questo senso, le dinamiche di cambiamento che attraversano le città non sono altro che la ripercussione locale del sistema neoliberista. Se lette in questa cornice, la dissoluzione dei servizi, l’aumento dei prezzi degli affitti e la progressiva trasformazione dei centri storici in infinite distese di tavolini non appaiono più come fenomeni a sé stanti, ma come fattori concorrenti di un unico processo, che in sociologia viene definito “gentrificazione” o “turistificazione”.
In questo nuovo numero del Monthly Report, il mensile d’inchiesta e approfondimento de L’Indipendente, ci confrontiamo con un tema che interessa direttamente la vita di tanti cittadini, in particolare di coloro che vivono in centri abitati di medie o grandi dimensioni. Come di consueto, lo facciamo attraverso inchieste e approfondimenti che mirano a comprendere a fondo il fenomeno e a spiegarlo, proponendo un’intervista illuminante a una delle maggiori esperte italiane del fenomeno della “turistificazione” e dando spazio ai movimenti di opposizione che, in molte città, stanno crescendo, oltre a esplorare le alternative possibili.
L’indice del nuovo numero:
- Senza darci il tempo di accorgendo le nostre città stanno irrimediabilmente cambiando
- Prima i cittadini, poi la città
- Il paradigma dietro al cambiamento delle città: Intervista a Lucia Tozzi
- Urbanistica del transito e del consumo: la città come non-luogo
- Mutualismo e movimenti sociali: il fronte della resistenza contro la città neoliberista
- Il re è nudo: come Airbnb soffoca il mercato italiano con il turismo di massa
- I movimenti popolari spagnoli guidano le proteste per il diritto alla città
- “Dagliele all’occupante”: l’emergenza abitativa nel racconto distorto dei media dominanti
- Autorecupero degli immobili inutilizzati: un progetto che, tra mille difficoltà, esiste solo a Roma
- “Come un vecchio sul letto di morte”: Il turismo di massa a Venezia
- Qui intorno è tutto una friggitoria: perché dobbiamo salvare Napoli dai turisti
- Smart city o città della sorveglianza? Il caso di Trento
Il mensile, in formato PDF, può essere acquistato (o scaricato dagli abbonati) a questo link: lindipendente.online/monthly-report/
Via libera alla Commissione UE: Meloni entra di fatto nella maggioranza von der Leyen
Dopo settimane di stallo, è stato trovato l’accordo per approvare i membri della prossima Commissione Europea. Sono dunque stati sciolti i nodi politici attorno alle varie candidature giudicate controverse, prima fra tutte quella sulla nomina avanzata dal governo italiano, Raffaele Fitto. All’elezione di Fitto si opponeva principalmente il gruppo di centrosinistra dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) in una serie di veti incrociati con il PPE che interessavano anche la nomina spagnola di Teresa Ribera. L’accordo, alla fine, dipinge il migliore degli scenari per Meloni ed ECR (Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei), di cui la premier italiana è la leader più influente: Fitto ha ottenuto non solo il posto da Commissario, ma anche quello da Vicepresidente, nonché deleghe importanti per gli obiettivi della destra italiana. Malgrado la conditio sine qua non per l’approvazione della nomina italiana sia stata l’esclusione di ECR dalla maggioranza europea, di fatto Meloni sta cementificando sempre di più il proprio rapporto con von der Leyen, che ora potrà cercare appoggio a destra laddove si vede negato quello di verdi o liberali.
L’accordo tra gli esponenti della maggioranza europea sulla prossima Commissione è arrivato ieri sera, dopo ore di discussione. Le audizioni dei candidati in Parlamento si sono svolte tra il 4 e il 12 novembre, ma sono state sin da subito bloccate da uno stallo politico. Tra i più importanti punti critici da risolvere c’erano quelli relativi alla finlandese Henna Virkkunen (per la nomina a Commissario della Sovranità tecnologica), alla spagnola Teresa Ribera (per il posto all’Ambiente) e, in particolare, a Raffaele Fitto (per l’ufficio di Coesione e Riforme). L’accordo è stato discusso dalla commissione Sviluppo regionale del Parlamento europeo, che ha valutato la nomina dei vari candidati per giorni, avviando le trattative. La candidatura di Fitto era appoggiata dal Partito Popolare Europeo (PPE, a cui in Italia aderisce Forza Italia), storicamente il più grande eurogruppo assieme a S&D (a cui in Italia aderisce il PD), principale oppositore della sua nomina. I motivi dietro lo stallo erano di natura prettamente politica: nel corso dell’ultima legislatura, Meloni ha virato verso posizioni più moderate in seno alle istituzioni europee, e von der Leyen si è sempre più avvicinata a lei e a ECR. Questa progressiva normalizzazione dei rapporti tra von der Leyen e Meloni non ha fatto piacere a S&D, che si è messa di traverso contro la nomina di Fitto a Commissario e Vicepresidente.
A sciogliere il nodo Fitto ha contribuito in maniera attiva la risoluzione di un altro veto, questa volta posto dal PPE: quello sulla spagnola Teresa Ribera, ministra della Transizione ecologica spagnola. Ribera, esponente di S&D, era osteggiata dai popolari spagnoli per le sue presunte mancanze nella gestione delle recenti alluvioni a Valencia. Alla base del blocco delle nomine, insomma, c’era una serie di veti incrociati di natura esclusivamente politica: da una parte S&D si opponeva a Fitto, e dall’altra il PPE si opponeva a Ribera. I partiti di maggioranza hanno ritirato i propri reciproci osteggiamenti a patto che i due commissari firmassero un accordo non vincolante: Ribera si impegna a dimettersi nel caso in cui venga coinvolta nelle indagini sui fatti di Valencia, mentre Fitto promette di fare gli interessi europei e di non rispondere al governo italiano, da cui deve rimanere «pienamente indipendente»: «Riconosciamo le sfide poste dalla situazione geopolitica, dal divario di competitività dell’Europa, dalle questioni di sicurezza, dalla migrazione, dalla crisi climatica e dalle disuguaglianze socioeconomiche. Ribadiamo pertanto il nostro impegno a collaborare con un approccio costruttivo per portare avanti un’agenda di riforme basata sugli Orientamenti politici del 18 luglio 2024 del Presidente della Commissione europea, nell’interesse dei cittadini europei».
L’accordo, in teoria, non prevede un allargamento della maggioranza europea a ECR. Nei fatti, tuttavia, esso crea quanto meno una breccia all’interno del cordone sanitario che si era formato durante lo scorso esecutivo von der Leyen attorno alla destra europea. ECR conta 78 dei 720 seggi nel Parlamento europeo, 24 dei quali forniti da Fratelli d’Italia. Se a questi si aggiungessero i 118 della destra considerata più “estrema” (86 di Patrioti per l’Europa e 25 di Europa delle Nazioni Sovrane) e i 188 del PPE, si formerebbe una maggioranza assoluta (di 377 seggi) composta da tutta l’ala destra dell’Europarlamento. Sarebbe questa la cosiddetta “maggioranza Venezuela”, palesatasi in occasione di un voto con il quale si chiedeva che l’UE riconoscesse Edmundo González Urrutia come legittimo presidente del Venezuela. Certo è che una maggioranza tanto differenziata non può stare alla base di tutte le politiche dell’esecutivo, generalmente orientate verso posizioni più liberali. L’appoggio di ECR, il partito di destra meno a destra, tuttavia, può cambiare le carte in tavola in tutte quelle situazioni in cui l’esecutivo non ottenga l’appoggio di Renew Europe (in Italia vi avrebbero aderito Azione e Italia Viva, che tuttavia non sono entrati in Parlamento) e dei Verdi. Gli stessi Verdi hanno annunciato che alle votazioni ufficiali, che si terranno il prossimo 27 novembre, si opporranno all’elezione di Fitto.
La nomina di Fitto, insomma, lascia presagire un cambio nelle politiche europee. La maggioranza Ursula tiene, ma apre la porta alle contaminazioni di destra da parte di ECR, rendendo di fatto l’esecutivo più plastico. Il nuovo esecutivo, oltre a Fitto, Ribera, e Virkkunen vedrà altri quattro vicepresidenti: l’estone Kaja Kallas agli Esteri, il francese Stéphane Séjourné a Industria e Imprenditoria, e la romena Roxana Mînzatu all’Istruzione.
[di Dario Lucisano]