lunedì 17 Novembre 2025
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Moda di seconda mano: da trend a servizio del futuro?

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Il mercato globale dei capi di seconda mano è in continua crescita, con un aumento annuo del 10%. Dagli attuali 220 miliardi di fatturato, si stima che possa arrivare a toccare i 360 miliardi nel giro dei prossimi cinque anni. I numeri sono quelli generati da un rapporto di BCG per Vestiaire Collective, piattaforma di rivendita di abiti usati, ma basta buttare un occhio anche su Vinted per capire come questo mercato sia in costante evoluzione. Ed il motivo è semplice: la moda è in una fase di precaria immobilità. I prezzi sono alti (considerati dazi per le esportazioni e gli stipendi medi), la situazione geopolitica attuale alquanto instabile e la minaccia costante del fast fashion stanno mettendo a dura prova l’intero settore. Ma il vero problema, più sottile ma altrettanto insidioso, arriva dalla rottura dell’equazione prezzo/valore. Le persone sono sempre meno disposte a pagare cifre elevate per un valore percepito che appare sempre più sproporzionato rispetto a ciò che effettivamente ricevono. È il segnale palese che i vecchi modelli di business non sono più efficaci, né per le persone né per il pianeta. Ed è in questo contesto che il second hand, da nicchia, sta diventando un’opportunità di crescita anche per quei brand che lo hanno sempre guardato con sospetto.

Mentre i numeri delle piattaforme di rivendita crescono in maniera vertiginosa (di tutte, da Vestiarie a Vinted, ma anche ThredUp, The Real Real, Depop, e Bay), alcuni marchi hanno deciso di intraprendere la strada del second hand e inserirla nella loro strategia. È il caso di Ganni, marchio danese, che in collaborazione con Vestiaire Collective, ha inserito un servizio dedicato dove i clienti possono inviare i loro capi usati direttamente sulla piattaforma; una volta autenticati, ricevono automaticamente una card del valore del prezzo del capo più un 10% (con opzione di ritiro a domicilio in UE e UK). Un’operazione che premia la fedeltà con un credito immediato, rafforzando l’idea di circolarità e senso di appartenenza ad una “community, non spontanea ma direzionata dal marchio stesso. 

Simile ma diverso l’approccio di Calvin Klein e del suo programma di ritiro Re-Calvin. I clienti, aprendo una sezione speciale del sito del marchio, possono stampare un’etichetta ed inviare in maniera gratuita qualsiasi capo di abbigliamento o accessori (incluso intimo e costumi). Da qui i capi possono essere donati, riciclati o convertiti in energia da rifiuti. Gli utenti, grazie ad una mail, ricevono notizie su quale “fine” hanno fatto le loro donazioni.

Questi due esempi, pur con le loro differenze, dimostrano che la circolarità può diventare un servizio che il brand può offrire ai loro clienti senza affidarsi ad enti di gestione esterna, tenendo il cliente all’interno del circuito del marchio; una sorta di servizio post-acquisto che mantiene vivo il legame con il brand stesso (e di questi tempi far affezionare e rendere fedeli i clienti è cosa sempre più difficile). In un sistema con crepe da tutte le parti, aprirsi a nuove opportunità e modelli di business è una via di salvezza, non solo per la propria impresa ma per tutto il settore. La moda, così com’è, sa di vecchio e non risponde alle esigenze attuali né delle persone né tantomeno dell’ambiente.

Approcci similari hanno una valenza multipla, sia in termini di monetizzazione sia in termini di impegno, dove il cliente si sente parte di un proposito più grande mentre il brand “educa” i consumatori alla responsabilità. Non che la sostenibilità sia la spinta motivante principale per i marchi: il problema dei magazzini e degli invenduti esiste da sempre (perché da sempre si producono più capi del necessario per abbattere i costi con le quantità, altra follia del fashion business) e mentre prima erano gli outlet a tirare su il fatturato di molte aziende, adesso le piattaforme online offrono la stessa opportunità senza il peso di importanti costi fissi di gestione.

Dall’altra parte, il rischio principale è che il second hand sovrasti la vendita dei capi nuovi, mangiando una buona parte di profitti. Il secondo punto dolente riguarda la logistica e la gestione del flusso dei capi su larga scala, soprattutto per l’aspetto di verifica dei falsi, imprescindibile per i marchi di lusso. Motivo per cui servono partnership forti con chi sviluppa strumenti tecnologici.

L’ultimo rischio, ma forse è il primo, è quello di trasformare l’acquisto di second hand in acquisti compulsivi di capi di seconda mano: con la smania di velocizzare i metodi di compravendita e la fama in crescita di questo tipo di comportamento, il pericolo è quello di ritrovarci davanti ad un ”fast fashion dell’usato”, dove invece di instillare valori di qualità e durata nel tempo, si continua ad alimentare il ricambio rapido e l’accumulo.

La circolarità come obiettivo e strumento per sviluppare nuovi business va bene, purché venga fatto con consapevolezza e per generare valore e valori, non solo economici.

Pakistan e Afghanistan prolungano la tregua

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Dopo gli scontri di inizio ottobre, Pakistan e Afghanistan hanno concordato di estendere il cessate il fuoco. A dare la notizia è stato il ministero degli Esteri turco, che ha gestito il tavolo delle trattative a Istanbul assieme al Qatar. «Tutte le parti hanno concordato di istituire un meccanismo di monitoraggio e verifica che garantisca il mantenimento della pace e imponga sanzioni alla parte che viola le regole», si legge in un comunicato. Alla dichiarazione turca ha fatto eco quella del portavoce talebano Zabihullah Mujahid. Il 6 novembre si terrà un secondo incontro – sempre a Istanbul – per definire meglio il funzionamento del meccanismo di monitoraggio.

Rapporto ISTAT: in Italia i salari reali sono calati dell’8,8% negli ultimi quattro anni

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Nonostante la crescita delle buste paga, il portafoglio degli italiani pesa meno di quanto non lo facesse quattro anni fa. A certificarlo sono gli ultimi dati dell’Istat sui contratti collettivi e le retribuzioni contrattuali, che prendono in esame il terzo trimestre del 2025. Negli ultimi tre mesi, rimarca l’ufficio italiano di statistica, la crescita tendenziale delle retribuzioni contrattuali ha rallentato rispetto al trimestre precedente, pur mantenendosi al di sopra dell’inflazione; i salari reali, tuttavia, rimangono inferiori dell’8,8% rispetto a quelli di gennaio 2021. L’aumento dei salari nominali rivendicato dal governo Meloni, insomma, è ancora ben lontano da compensare l’incremento dei prezzi degli ultimi anni, che sta lentamente erodendo il potere di acquisto degli italiani.

I dati dell’Istat analizzano la situazione per i lavoratori dipendenti. Secondo l’ufficio, l’indice delle retribuzioni contrattuali lorde a settembre 2025 è rimasto invariato rispetto al mese precedente, ma ha registrato un aumento tendenziale (ossia su settembre 2024) del 2,6%; «l’aumento tendenziale è stato più marcato (3,3%) per i lavoratori della pubblica amministrazione, rispetto a quello dei dipendenti dell’industria (2,3%) e dei servizi privati (2,4%)», precisa l’Istat; il settore specifico a registrare l’aumento tendenziale maggiore è quello dei ministeri, con un aumento del 7,2%, seguito da quello della difesa, con un incremento del 6,9%. Inoltre, la retribuzione oraria media nel periodo gennaio-settembre 2025 è cresciuta del 3,3% rispetto allo stesso periodo del 2024.

Nonostante la situazione positiva in termini tendenziali, l’Istat sottolinea come in questo terzo trimestre del 2025 l’aumento dei salari nominali si sia arrestato rispetto allo scorso trimestre. A ciò si aggiunge il fatto che la ripresa sull’inflazione resta ancora troppo tenue. «Le retribuzioni contrattuali in termini reali», ossia adeguati all’inflazione, «a settembre 2025 restano al di sotto dell’8,8% ai livelli di gennaio 2021», sottolinea infatti l’ufficio di statistica, fotografando una realtà nota ormai da tempo: il potere di acquisto degli italiani va calando da anni. Confrontando il Belpaese con l’Unione Europea, l’Italia figura tredicesima nella graduatoria che confronta i poteri di acquisto degli europei. Secondo il Purchasing power standard (PPS), una moneta artificiale che consente di confrontare i dati sul reddito tra Paesi con diverso costo della vita, il reddito parametrato degli italiani è infatti di 25.145 PPS, contro una media europea di 27.506; in questa particolare classifica, l’Italia risulta l’ultima tra le grandi Nazioni, sotto a Germania, Francia, e Olanda e la prima tra le piccole.

Oltre 2 miliardi di semi conservati in 25 anni: il successo della banca dei semi più grande del mondo

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Millennium Seed Bank

Nella contea del Sussex, a sud dell’Inghilterra, si trova un caveau capace di resistere a incendi, inondazioni e persino a catastrofi globali. Non custodisce oro né opere d’arte, ma qualcosa di altrettanto prezioso: la biodiversità del pianeta. È la Millennium Seed Bank, la più grande banca di semi del mondo, che dal 2000 ad oggi ha raccolto e conservato oltre 2,5 miliardi di semi di circa 40.000 specie selvatiche, provenienti da ogni angolo della Terra.
Le raccolte partono da luoghi remoti, Madagascar, Thailandia, fino all’Artico svedese, dove botanici e ricercatori individuano piante autocto...

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Il governo italiano si è schierato con Israele per diffamare Francesca Albanese all’ONU

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«Il rapporto presentato oggi dalla Relatrice Specialle Albanese è del tutto privo di credibilità e imparzialità. Come Italia, non siamo sorpresi». Sono queste le parole con cui il rappresentante permanente per l’Italia all’ONU, Maurizio Massari, ha iniziato il suo discorso al Palazzo di Vetro di New York, in occasione della presentazione dell’ultimo rapporto della Relatrice Speciale per la Palestina Francesca Albanese. Il rapporto, dal titolo “Il genocidio a Gaza: un crimine collettivo”, denuncia la complicità degli Stati nel genocidio perpetrato da Israele sul popolo palestinese; in prima fila nella lista dei Paesi complici dei crimini israeliani, c’è proprio l’Italia. Massari ha criticato aspramente Albanese facendo eco all’intervento dell’omologo israeliano Danny Danon che ha definito la Relatrice una «strega fallita e malvagia». Le autorità italiane, insomma, confermano la loro linea nei confronti della Relatrice, già oggetto di sanzioni da parte degli Stati Uniti per le quali il governo ha preferito non esprimersi.

L’intervento di Maurizio Massari è arrivato in occasione della presentazione del rapporto di Francesca Albanese presso la sede delle Nazioni Unite di New York. Massari ha criticato Albanese giudicando il suo documento «parziale e poco credibile». Il motivo per cui – secondo Massari – mancherebbe di imparzialità non è dato saperlo, come ha affermato egli stesso: «Di fronte a un documento poco credibile, soprattutto sul piano dell’imparzialità, abbiamo scelto di non commentare la relazione. Non lo faremo nemmeno oggi». Nel suo intervento, Massari ha fatto allusione alle varie teorie sulla Relatrice che circolano online, senza menzionarne nessuna in maniera diretta; Albanese, secondo queste teorie, sarebbe finanziata da Hamas, tesi che non è mai stata supportata da nessuna prova. Il rappresentante italiano, inoltre, ha citato un recente caso di cronaca, in cui la Relatrice Speciale «sembrava addirittura mettere in dubbio la dichiarazione del sindaco locale che chiedeva il rilascio degli ostaggi israeliani».

In questo ultimo passaggio, Massari si riferiva alla cerimonia tenutasi a Reggio Emilia lo scorso 1° ottobre, in cui il sindaco della città ha consegnato alla Relatrice il primo tricolore, massima onorificenza cittadina. Durante il suo discorso, il primo cittadino si è augurato che «la fine del genocidio e la liberazione degli ostaggi siano condizioni necessarie per avviare un processo di pace», scatenando l’indignazione dei presenti. Albanese è intervenuta poco dopo, affermando che non dovrebbero esistere “condizioni necessarie” per avviare il processo di pace, e «perdonando» il sindaco per le sue parole; si è successivamente scusata per i modi con cui ha espresso la propria posizione, reiterando comunque il concetto. Albanese, insomma, non ha messo in discussione il rilascio degli ostaggi israeliani, ma affermato che Israele avrebbe dovuto smettere di massacrare i palestinesi a prescindere dalla questione degli ostaggi e che a rientrare a casa dovrebbero essere tutti gli ostaggi, israeliani e palestinesi.

Il discorso di Massari è seguito a quello di Danon, ben più piccato nei toni: l’ambasciatore israeliano ha accusato Albanese di provare a «maledire» Israele con «falsità e libelli», fallendo in ogni suo tentativo. Ha poi proseguito con l’analogia della stregoneria: «Signora Albanese, Lei è una strega; e questo rapporto è un’altra pagina del suo grimorio. Ha provato a maledire Israele con menzogne e odio, ma il Suo veleno ha fallito: ogni pagina di questo rapporto è una vuota magia; ogni accusa è una stregoneria inefficace, perché Lei è una strega fallita». Danon ha affermato che quelli che egli identifica con tentativi di affossare Israele da parte di Albanese sarebbero tutti finiti per ritorcerlesi contro: «Il 3 luglio ha chiesto sanzioni contro aziende di tutto il mondo, alcune tra le quali grandi imprese statunitensi; sei giorni dopo è stata sanzionata Lei».

Su quest’ultimo punto, Danon non ha tutti i torti: gli Stati – specialmente quelli del cosiddetto “blocco Occidentale” – hanno provato in ogni modo a divincolarsi dalle richieste di Albanese e a evitare di prendere contromisure nei confronti di Israele; la Relatrice, di contro, è stata sanzionata dagli Stati Uniti, che hanno preso una serie di misure che – come ha spiegato ella stessa – stanno avendo pesanti ripercussioni sul suo lavoro come esperta delle Nazioni Unite. In questo, la posizione espressa da Massari non si discosta dalla linea che il governo italiano ha assunto nei confronti della Relatrice: dopo l’emanazione delle sanzioni da parte degli USA, ha infatti sorvolato l’argomento, affermando – come sostiene il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani – che l’Italia non potrebbe fare niente, perché le sanzioni «non sono contro una cittadina italiana in quanto cittadina italiana» e sono unilaterali. Per assurdo, le stesse ragioni per cui Tajani sostiene che l’Italia non può fare nulla contro le sanzioni sono quelle per cui dovrebbe muoversi: le sanzioni ad Albanese violano infatti l’immunità funzionale della giurista garantita dall’incarico che ricopre.

Raid israeliano nel sud del Libano: ucciso un impiegato municipale

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Le truppe israeliane hanno effettuato un’incursione nella città di Blida, nel Libano del Sud, uccidendo un impiegato municipale. I media libanesi riportano che il raid è avvenuto nella notte, quando le truppe israeliane sono entrate nel Paese accompagnate da droni e veicoli blindati, prendendo d’assalto l’edificio del municipio. Il presidente del Paese, Joseph Aoun, ha condannato l’attacco israeliano, incaricando il comandante dell’esercito libanese di contrastare attivamente le incursioni israeliane nel Libano meridionale. Nelle ultime settimane, Israele sta intensificando i propri attacchi nel Libano del sud, dove, tuttavia, è in vigore un cessate il fuoco dallo scorso novembre.

Bill Gates fa retromarcia sul clima: “troppi sforzi nella riduzione delle emissioni”

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«Sebbene il cambiamento climatico abbia gravi conseguenze, in particolare per le popolazioni dei Paesi più poveri, non porterà all’estinzione dell’umanità». Dopo aver promosso tecnologie pulite e finanziato startup per l’idrogeno e per la decarbonizzazione, Bill Gates – che solo quattro anni fa aveva pubblicato un libro dal titolo Clima. Come evitare un disastroridimensiona l’emergenza climatica: la priorità non sarebbe più la drastica riduzione delle emissioni, ma il miglioramento delle condizioni umane nei Paesi più poveri. La sua svolta sul clima più che un cambio di visione somiglia a un adattamento strategico, che sposta il dibattito sul terreno che domina, quello della tecnologia privata e dell’innovazione finanziata dal capitale. Così, Gates rafforza la propria influenza globale e, attenuando l’allarmismo, punta ad accreditarsi come mediatore ideale, tra pragmatismo politico e sostenibilità economica nell’era Trump.

In un lungo articolo su Gates Notes, il fondatore di Microsoft invoca la retromarcia: «C’è una visione apocalittica del cambiamento climatico che recita così: “Tra pochi decenni, un cambiamento climatico catastrofico decimerà la civiltà. Le prove sono ovunque: basta guardare le ondate di calore e le tempeste causate dall’aumento delle temperature globali. Nulla è più importante che limitare l’aumento della temperatura”. Fortunatamente per tutti noi, questa visione è sbagliata». Negli ultimi anni, Gates ha costruito un impero verde, orientando parte delle sue risorse verso startup e fondi che puntano a innovazioni “green”. I suoi investimenti spaziano da soluzioni per l’accumulo di energia, al nucleare di nuova generazione, passando per l’idrogeno e altre tecnologie pulite. La sua iniziativa Breakthrough Energy è diventata veicolo finanziario per tecnologie fotovoltaiche, nucleari di nuova generazione e idrogeno pulito, mentre la startup Koloma sostenuta da Gates ha raccolto 245,7 milioni di dollari per la trivellazione di idrogeno «bianco», estratto da giacimenti naturali, con lo scopo dichiarato di ridurre le emissioni di CO₂.

Oggi, il filantrocapitalista più famoso al mondo imbocca la strada contraria e se la prende con gli allarmisti del clima – che lui stesso aveva ispirato – mettendo in discussione anche il metodo principale adottato per invertire la rotta del surriscaldamento globale: tagliare le emissioni di CO2. Nel novembre prossimo, alla conferenza internazionale sul clima COP30, Gates esorta a un «pivot strategico»: non più solo tagli delle emissioni, ma adattamento, rafforzamento dei sistemi sanitari, accesso all’elettricità pulita e alleviamento della povertà. Gates non nega la crisi climatica, ma ne ridimensiona la portata e accusa le istituzioni internazionali – «spinte da ricchi azionisti» – di aver imposto una guerra ai combustibili fossili che ha peggiorato le condizioni di vita nei Paesi poveri. La temperatura globale «non è il modo migliore per misurare i nostri progressi» e il successo climatico, scrive, si valuta dall’impatto sul benessere umano più che sulla colonnina di mercurio. Un cambio di paradigma che riecheggia la tesi del libro False alarm dell’economista Bjørn Lomborg, secondo cui «L’allarmismo ci rende difficile pensare in modo intelligente a soluzioni climatiche efficaci» e «sposta l’attenzione da altri problemi globali altrettanto importanti».

La solta di Gates arriva in perfetta corrispondenza con il riallineamento dell’élite capitalistica all’era di Donald Trump, una inversione di 180 gradi già compiuta anche dalle big tech statunitensi.

Il “nuovo realismo climatico” di Bill Gates rivela la consueta logica del filantrocapitalismo, quella fusione di profitto e altruismo di facciata che, come spiega Linsey McGoey in No Such Thing as a Free Gift, trasforma la filosofia del dono in un investimento e in uno strumento di pressione. La Gates Foundation, tra i maggiori finanziatori dell’OMS, influenza le agende pubbliche globali, senza rispondere a criteri democratici. Lo stesso schema si ripete su green: miliardi investiti in startup e brevetti producono rendimenti e controllo tecnologico più che un vero e proprio progresso ambientale. McGoey parla di «vincere il paradiso economicamente»: apparire benefattori sul palcoscenico mediatico, mentre si consolidano posizioni dominanti. La svolta climatica di Gates serve così ad allinearsi al nuovo corso energetico, in modo da tutelare i suoi stessi interessi industriali, mantenendo influenza politica e vantaggi economici.

Elezioni in Olanda: risultati sul filo tra nazionalisti e centro-sinistra liberale

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Tra ieri sera e oggi, in Olanda, è successo di tutto: le elezioni più al cardiopalma della storia di un paese, dove per decenni il processo elettorale è stato una corsa tra i soliti due o tre partiti, si sono concluse senza che si definisse nulla. Per tutta la notte, i Paesi Bassi sono tornati a essere un partner rispettato dall’establishment europeo, grazie alla vittoria del D66, il partito pro-UE per eccellenza. Non solo ha compiuto una rimonta clamorosa, passando da 9 a 26 seggi, ma ha anche imposto l’agenda al mondo progressista, fermando la sinistra rosso-verde ad appena 20 seggi.

A mezzanotte, quando lo spoglio era appena iniziato, il leader Rob Jetten, 38 anni, volto pulito e incaricato di cancellare due anni di governo di estrema destra, parlava già da premier, mentre gli opinionisti ipotizzavano le possibili coalizioni: liberali più sinistra e liberal-conservatori? Oppure centristi che guardano a destra, con il redivivo partito cristiano democratico CDA che ha quadruplicato i voti, con l’aggiunta dell’estrema destra “presentabile” di JA21, che ha fatto un vero boom passando da 1 a 9 seggi?

Poi, all’alba, con le prime proiezioni, tutto è cambiato: rilevare con precisione il PVV è da sempre un’impresa. Per ora i due partiti finiscono quasi pari: D66 e PVV potrebbero ricevere 26 seggi ciascuno, separati da pochi voti di differenza. Al momento, Wilders ha 1.984 voti in più. Chi ha vinto, insomma?

Il partito con più voti potrà recarsi dal sovrano per ottenere l’incarico di formare il governo, ma probabilmente il risultato definitivo non sarà noto prima di lunedì. Devono ancora essere scrutinate alcune sezioni del voto estero, mancano centinaia di voti da Amsterdam e Almere, e problemi tecnici – compreso un incendio in un seggio – rendono impossibile fornire una risposta immediata.

Inoltre, è necessario distinguere tra piano tecnico e piano politico. Seguendo la legge, se il PVV rimanesse il primo partito, Wilders potrà recarsi dal re per reclamare il diritto di formare la prossima coalizione. Sul piano politico, però, la situazione è diversa: contro il PVV è stato sollevato un vero “cordone sanitario” dopo che il partito aveva fatto cadere il governo. Non si tratta di un accordo formale come in Belgio, dove l’estrema destra è esclusa dagli esecutivi, ma di fatto nessun partito è disposto a entrare in coalizione con Wilders.

Con l’eccezione di alcune formazioni estreme, che complessivamente contano 45-50 seggi su 150, a Wilders manca il cosiddetto “partner junior”: un partito di medie dimensioni che affianchi il vincitore. Il parlamento disegnato dal risultato delle urne, infatti, è composto da cinque partiti di medie dimensioni, ciascuno con meno di 25 seggi, troppo pochi per evitare la necessità di una grande coalizione e senza alcun reale alleato per Wilders. A quel punto, la scelta ricadrebbe sul secondo e la formazione di Jetten non solo può già contare su diverse combinazioni possibili ma il partito liberal-progressista ha una lunga esperienza di governo. Rob Jetten si è mostrato molto più freddo e politico di Sigrid Kaag, la sua predecessora, con una vita all’ONU e un forte idealismo per la causa palestinese e i migranti. Jetten non ha posto paletti, dichiarandosi favorevole a qualche forma di limitazione dell’immigrazione, e ha scelto i temi più gettonati: a destra (stop ai migranti) e a sinistra (case popolari e affitti per la fascia media), unendo a tutto ciò una posizione europeista senza compromessi e un atteggiamento militarista convinto.

Le tensioni sociali del momento, a quanto pare, hanno aperto ampi spazi per i partiti centristi e per proposte pragmatiche e non ideologiche: in un sistema rigidamente proporzionale come quello olandese, quello di ieri si è delineato come un referendum di fatto su Wilders. E il ruolo di antagonista, vista la scarsa incisività di Pvda-GL, lista unica laburisti-verdi con appena 20 seggi e un leader ormai consumato come Timmermans – e della destra liberale VVD, con la successora di Mark Rutte, Dilan Yeşilgöz-Zegerius, poco convincente,   è toccato  a un politico giovane, moderno e pragmatico. Rob Jetten si propone come un nuovo Mark Rutte: liberale, ragionevole e cinico al punto giusto da abbracciare una sorta di nazionalismo – prima vero tabù per il D66 – e da ammorbidire anche quei pochi principi su cui il partito, membro di Renew Europe al Parlamento Europeo, non aveva mai fatto passi indietro, come le porte aperte a migranti e richiedenti asilo.

La BCE ha mantenuto invariati i tassi di interesse

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La Banca Centrale Europea ha mantenuto invariati i tassi di interesse per la terza volta di fila dopo otto riduzioni consecutive. I tassi di interesse sui depositi presso la banca centrale, sulle operazioni di rifinanziamento principali e sulle operazioni di rifinanziamento marginale rimarranno fissi al 2,00%, 2,15% e 2,40%, si legge in un comunicato della BCE. La notizia arriva il giorno dopo l’annuncio Federal Reserve degli Stati Uniti, l’omologo istituto finanziario della BCE negli USA, che ha tagliato i tassi statunitensi di 25 punti base.

Camerun in rivolta: migliaia nelle strade, la polizia arresta e uccide

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Il 27 ottobre il Consiglio Costituzionale del Camerun ha annunciato i risultati definitivi delle elezioni presidenziali, che hanno decretato il 92enne e presidente del Camerun dal 1982 Paul Biya, ancora una volta vincitore delle elezioni con il 53,6% dei voti. Il risultato, dall’esito quasi scontato, ha scatenato la rabbia dei cittadini camerunensi che, già prima dell’annuncio ufficiale, si sono riversati nelle piazze delle principali città per denunciare i brogli e contestare il governo del vecchissimo presidente. La risposta delle forze di polizia nei confronti dei manifestanti è stata spietata: lacrimogeni ad altezza d’uomo, proiettili di gomma, ma anche proiettili veri. Un bilancio conclusivo degli effetti della repressione non è possibile ma, secondo quanto riportato dal movimento Stand up for Cameroon, sarebbero almeno 23 i dimostranti uccisi dagli agenti.

Secondo il governo le vittime erano tra i manifestanti che hanno attaccato una brigata di gendarmeria e stazioni di polizia in due distretti. Ma la repressione del Governo era già in atto, prima del fine settimana, con il divieto di assembramento e l’inizio di arresti arbitrari, fino al fermo di venerdì sera di Anicet Ekane e Djeukam Tchameni, due figure di spicco della piattaforma politica dell’Unione per il Cambiamento che ha appoggiato il candidato Issa Tchiroma Bakary. Nelle settimane precedenti sono stati diversi gli arresti tra chi protestava contro la rielezione di Biya. A dirlo è lo stesso Ministro per l’Amministrazione Territoriale, Paul Atanga Nji, che ha dichiarato sabato ai giornalisti che il governo ha arrestato diverse persone perché sospettate di aver pianificato attacchi violenti con il pretesto delle proteste, senza però dare ulteriori informazioni. Dopo la riconferma di Biya annunciata lunedì, il nuovo e vecchio Presidente ha dichiarato su X che «i miei primi pensieri vanno a tutti coloro che hanno perso la vita inutilmente, così come alle loro famiglie, a causa della violenza post-elettorale».

Parole che, se pronunciate da un quarantennale dittatore, sembrano più lacrime di coccodrillo. In sette mandati presidenziali la costante è stata la repressione nei confronti del dissenso e l’uso della violenza come risoluzione dei problemi. Ne è un esempio il modo in cui viene affrontata una delle questioni più importanti del Camerun e cioè la situazione delle minoranze anglofone del nordovest e sudovest.

Una questione che ha le radici nel periodo coloniale, durante il quale, dopo la Prima Guerra Mondiale, il Camerun fu diviso tra francesi e inglesi. Raggiunta l’indipendenza nel 1960, l’anno successivo venne instaurata la Repubblica Federale del Camerun. Fino al 1972 le differenze e le spinte secessioniste non si fecero sentire, anche perché fu lasciata un discreta autonomia alle minoranze anglofone, ma tutto cambiò quando vennero scoperti diversi giacimenti di petrolio proprio al largo delle coste camerunensi. Dopo che un referendum aveva abolito la Repubblica Federale per concentrare i poteri nel governo centrale la pressione e la discriminazione sulle minoranze anglofone iniziò a farsi sentire come mai prima. Così, dal 2016 si combatte una sanguinosa guerra tra i gruppi secessionisti anglofoni e le Forze Armate Camerunensi. In questi anni la repressione delle forze governative ha portato a migliaia di morti, centinaia di villaggi rasi al suolo e più di un milione di sfollati.

L’ esercito è accusato di esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari, sparizioni, prigionia illegale, tortura, nonché distruzione di case, scuole e centri sanitari. Su questa questione e sulla guerra aperta ai gruppi jihadisti nel nord est del Paese, sulle sponde del lago Ciad, si è giocata molta della campagna elettorale. Ma sia da una parte che dall’altra Biya nei suoi più di 40 anni di governo non ha trovato soluzioni se non repressive e di censura, un punto che ha spinto in piazza la giovane popolazione del Camerun, che vede l’età media dei suoi cittadini attestarsi a 24 anni, non più rappresentata da un presidente 68 anni più vecchio. Come se non bastasse, il 37% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 23% in povertà assoluta. I camerunensi lamentano una corruzione dilagante e una gestione clientelare delle importanti e redditizie risorse del Paese, come petrolio e cacao, affiancate a un tasso di disoccupazione anche al 13,7% tra i giovani delle grandi città.

Issa Tchiroma Bakary, insieme alla maggior parte dei candidati perdenti hanno denunciato elezioni fraudolente e rigettato il risultato elettorale. Il governo però ha negato le accuse definendole «infondate e provocatorie» e dichiarando che più di 5.000 osservatori internazionali e nazionali hanno monitorato le elezioni. Se da una parte l’Unione Europea, tramite un suo portavoce, si dice «profondamente preoccupata della violenta repressione delle piazze», dall’altra accetta senza riserve il risultato elettorale. L’Unione Africana (UA)  invece, per voce del Presidente della Commissione, Mahmoud Ali Youssouf, si congratula con Biya, mentre gli osservatori dell’UA hanno affermato che le elezioni sono state «condotte in larga parte in conformità con gli standard regionali, continentali e internazionali». 

Ad oggi, la tensione rimane elevata. Le strade riprendono lentamente una certa normalità, ma l’atmosfera resta carica di sfiducia. Le forze di sicurezza continuano a pattugliare i punti-critici mentre i giovani delusi da decenni di governo unico chiedono un cambiamento. Questo ottavo mandato del 92enne Biya dovrà rispondere alle istanze di un futuro possibile per i giovani. Se questo non succederà, le proteste appena iniziate potrebbero segnare solo l’anticamera di rivolte generalizzate.