Nel mondo, quasi nove bambini su dieci frequentano la scuola primaria. È un risultato che, solo pochi decenni fa, sembrava impossibile. Secondo i dati dell’UNESCO, l’87% dei minori tra i 6 e gli 11 anni è regolarmente iscritto a scuola. Una soglia che segna una delle più ampie estensioni del diritto all’istruzione nella storia dell’umanità. A cambiare radicalmente è anche la situazione tra bambine e bambini. Il divario di genere si è pressoché azzerato nei cicli dell’istruzione obbligatoria: oggi, in media, la differenza tra maschi e femmine iscritti a scuola è di appena un punto percentuale. ...
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Durante i lavori della COP30 che è in corso a Belém, in Brasile, presentata dagli organizzatori come “la COP della foresta”, un gruppo di indigeni ha fatto irruzione nel palazzo sede del forum, al grido di “la nostra terra non è in vendita e “tassate i milionari”, scontrandosi con guardie e servizio di sicurezza. Secondo le accuse dei membri dei popoli originari, infatti, la retorica della salvaguardia adottata dai partecipanti all’evento nasconde i giochi di governi e multinazionali, che non hanno altro interesse se non preservare potere e profitti.
La presenza di lobbisti delle multinazionali fossili è infatti molto forte anche in questa edizione della Conferenza delle Parti e il loro peso è di certo superiore a quello dei rappresentanti delle comunità indigene. Per questo motivo, un gruppo di membri dei popoli nativi ha fatto irruzione nella sede dove la Conferenza si stava svolgendo nella giornata di ieri, 12 novembre, scontrandosi con le forze dell’ordine. Nei giorni scorsi, decine di membri di queste popolazioni hanno raggiunto il luogo della Conferenza, dove intendono far sentire anche la propria voce. Vi è ad esempio la missione Yaku Mama (letteralmente “madre delle acque”), una flotta indigena salpata circa un mese fa dalle Ande ecuadoregne che ha viaggiato per più di 3mila chilometri e alla quale hanno preso parte leader nativi colombiani, ecuadoregni, guatemaltechi, messicani, panamensi, cileni, peruviani, boliviani e indonesiani. La lotta panindigena, frutto della chiamata degli indigeni brasiliani, ha come slogan della propria rivendicazione “La risposta siamo noi”, che dà il nome alla campagna della lotta nativa. I popoli originari chiedono infatti diritti territoriali (che dovrebbero già essere garantiti), la fine della deforestazione, lo stop all’utilizzo dei combustibili fossili e all’estrazione neiterritori indigeni. Inoltre, rivendicano le proprie tradizioni e il proprio stile di vita. Chiedono accesso diretto ai finanziamenti per il clima, senza intermediari. Ultimo, ma non meno importante, chiedono di avere un potere reale all’interno dei consessi internazionali, al pari di ogni altra nazione del mondo, e di non voler partecipare come mere comparse di scena.
Il cuore della polemica è la crescente enfasi su progetti di compensazione basata sulla natura.Governi, grandi aziende e perfino alcune ONG per la conservazione spingono per monetizzare le foreste, permettendo alle multinazionali di acquistare “crediti di carbonio” per raggiungere la loro presunta “neutralità”. La pratica è stata denunciata come puro atto di greenwashing, dal momento che permette alle aziende di continuare a inquinare altrove, senza dover affrontare la radice del problema: il consumo eccessivo e il capitalismo estrattivo. La creazione o l’espansione di Aree Protette per generare crediti porta regolarmente a sfratti forzati delle comunità indigene. Si registrano arresti arbitrari, violenze e, in casi documentati in Asia e Africa, persino uccisioni per mano di guardaparco e forze di sicurezza.
Come spiega Survival International, organizzazione per la protezione delle popolazioni native, nonostante le foreste siano la fonte del profitto, la maggior parte dei ricavi dai crediti di carbonio viene intercettata da una rete di intermediari: sviluppatori, ONG e società di certificazione e consulenza. I popoli indigeni, i più efficaci nella protezione ambientale, ricevono una frazione irrisoria del valore generato. Progetti come quelli in Kenya e Tanzania stanno costringendo i popoli pastorali ad abbandonare i loro sistemi di pascolo tradizionali e le leggi consuetudinarie, minando la loro resilienza e sicurezza alimentare di fronte ai cambiamenti climatici. La titolarità dei diritti sul carbonio è spesso legalmente ambigua e, cosa ancor più grave, molti progetti vengono avviati senza il Consenso Libero, Previo e Informato (FPIC) delle comunità coinvolte.
Il quotidiano Il Domani, diretto da Emiliano Fittipaldi, ha ufficializzato un cambio di proprietà e una ricostituzione del capitale dopo mesi di conti in affanno: il controllo è passato dalle società Romed e Romed International di Carlo De Benedetti alla Fondazione Editoriale Domani. Quest’ultima, con un versamento di un milione di euro effettuato a fine settembre, ha ricostituito il capitale sociale eroso dalle perdite. Alla base dell’operazione ci sono numeri che parlano chiaro — perdite accumulate, ricorso al capitale e alla cassa del fondatore — e una modifica statutaria che apre la porta alla possibilità di richiedere contributi pubblici destinati all’editoria, trasformando così la strategia di sopravvivenza del giornale.
La trasformazione proprietaria è stata formalizzata dopo che le quote sono passate dalle società personali al nuovo ente: la Fondazione Editoriale Domani, nata per «per garantire al giornale un futuro autonomo e indipendente», diventa unico azionista. Il fondatore della testata, l’ingegner Carlo De Benedetti, aveva da tempo annunciato l’intenzione di trasferire la testata a una fondazione, ribadendo quel progetto: «La mia idea da sempre era che, quando il giornale fosse stato in equilibrio economico, l’avrei passato a una fondazione».
I dettagli finanziari emersi dalle ultime assemblee dipingono un quadro assai problematico. Il bilancio chiuso al 31 dicembre 2024 ha registrato un fatturato in calo a 5,35 milioni di euro, con le perdite che sono scese da 1,901 a 1,483 milioni di euro grazie a un’opera di contenimento dei costi. Tuttavia, la situazione patrimoniale aggiornata al 31 agosto 2025 mostra una perdita del periodo di 1.051.099 euro, a cui si sommano piccole perdite precedenti. Un rosso leggermente superiore a quello dello stesso periodo dell’anno precedente. Per coprire questi disavanzi è stato utilizzato il capitale sociale, poi ricostituito dalla neonata Fondazione con un bonifico da un milione di euro.
Nel corso dell’assemblea è stata inoltre approvata una modifica dello statuto che contiene un passaggio tecnico ma strategico: «È fatto divieto alla società di procedere alla distribuzione di utili provenienti dall’esercizio dell’anno di riscossione dei contributi all’editoria di cui al D.Lgs. 15 maggio 2017 n. 70 e negli otto anni successivi». L’inserimento di questa clausola indica la volontà della nuova proprietà di rendere la testata compatibile con i requisiti per accedere ai contributi diretti previsti dalla legge, uno strumento che potrebbe trasformare i conti della testata.
Oggi circa 130 testate percepiscono contributi diretti in valori che vanno da poche decine di migliaia a milioni di euro; confrontando soglie e importi erogati a testate comparabili, l’importo potenziale per una realtà come Il Domani potrebbe aggirarsi intorno ai due milioni annui, una cifra sufficiente a compensare ampiamente le perdite registrate negli ultimi esercizi; si tratta però di una proiezione che dipende da graduatorie e stanziamenti. Sul fronte operativo, la direzione punta a rinforzare il digitale e gli abbonamenti mirati — in particolare tramite newsletter verticali — per centrare il pareggio entro un orizzonte annuale, confidando nelle strategie di audience e nelle scelte di gestione già avviate.
Per raccontare la crisi in atto dell’editoria italiana è emblematico il caso del gruppo GEDI. Dopo anni di cure dimagranti, John Elkann, patron di Stellantis e della holding Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, è infatti pronto a lasciare gli ultimi pezzi editoriali pregiati: le testate La Repubblica e La Stampa. Le trattative sono ben vive, con potenziali compratori già allo studio. Per La Stampa, la cui vendita appare in fase più avanzata, è in piedi da tempo una trattativa con il Gruppo Nem guidato da Enrico Marchi. Per Repubblica, invece, è allo studio una proposta greco-saudita del gruppo guidato da Kyriakos Kyriakou, ma è spuntato anche il nome di Leonardo Maria Del Vecchio, uno degli eredi del gruppo Luxottica. A spingere verso la cessione sono i conti in rosso: le perdite accumulate ammontano a quasi mezzo miliardo.
La Commissione UE ha reso noto di avere accettato la richiesta di revisione per il Piano nazionale ripresa resilienza dell’Italia. La revisione include l’aggiornamento di 173 misure e ne introduce altre dieci di nuove. L’Italia aveva chiesto una revisione del piano lo scorso 10 ottobre e la sua richiesta è stata approvata lo scorso 4 novembre e ufficializzata oggi, 13 novembre.
La Pianura Padana è una delle zone più inquinate d’Europa. È la pianura più grande d’Italia, ospita il 30% degli abitanti del nostro Paese e il problema della qualità dell’aria non sembra trovare soluzioni. È una condizione dovuta a molteplici fattori come le condizioni metereologiche, l’altissima industrializzazione e antropizzazione del territorio, e il traffico che scaturisce dall’elevata concentrazione di abitanti e aziende. Un mix potenzialmente devastante a cui si aggiunge la particolare conformazione territoriale: è chiusa a nord e a ovest dalle Alpi e a sud dagli Appennini, lasciando l’est come unico sbocco libero. Inoltre, nei mesi invernali, è frequente il fenomeno dell’inversione termica, dove uno strato di aria fredda e pesante rimane intrappolato vicino al suolo sotto uno strato di aria più calda. Questa condizione stabilizza l’atmosfera e favorisce l’accumulo di inquinanti, venendo spesso accompagnata dalla nebbia persistente.
La mappa delle concentrazione di polveri sottili PM 2,5 registrate in questi giorni in Italia
L’ultimo allarme arriva dal Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), il servizio del programma europeo dedicato al monitoraggio della qualità dell’aria e dell’atmosfera a livello globale. CAMS fornisce dati, analisi e previsioni sulla composizione dell’atmosfera, combinando dati provenienti dai satelliti Sentinel, reti di monitoraggio a terra, palloni sonda e aerei e modelli numerici avanzati sviluppati da ECMWF (European Centre for Medium-Range Weather Forecasts). Secondo i loro dati nella giornata di ieri ci sono state concentrazioni elevate di particolato fine (PM2.5), sulla Pianura Padana, con i picchi più marcati dove i valori superano i 75 µg/m³. Si tratta di concentrazioni fino a 5 volte superiori al limite giornaliero raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, pari a 15 µg/m³. Va però ricordato che la normativa italiana prevede limiti giornalieri e annuali per il PM10 (valore limite annuale di 40 µg/m³, valore limite giornaliero di 50 µg/m³, con un massimo di 35 superamenti all’anno) e solo annuali per il più pericoloso PM2.5, con un valore limite annuale di 25 µg/m³.
Guardando i dati di Arpa Lombardia, che ha centraline fisse per registrare i livelli di inquinamento, il 9 novembre il limite dei 25 µg/m³ per il PM2.5, è stato superato in 28 centraline su 83 totali. Dall’11 novembre sono ad esempio partite le restrizioni in provincia di Pavia, dopo che le concentrazioni medie hanno superato i 53 µg/m³ per 3 giorni consecutivi. La delibera regionale prevede il divieto di utilizzo degli impianti termici alimentati a biomassa legnosa fino a 3 stelle comprese, il divieto di spandimento dei liquami zootecnici, la riduzione di 1° C delle temperature massime nelle abitazioni e il divieto di qualsiasi tipo di combustione all’aperto. Ma sono interventi che possono migliorare la situazione nel breve termine, e non intervengono sul lungo periodo.
«La fase critica sta per terminare, perché adesso arriverà il brutto tempo», spiega il dottor Paolo Valisa, direttore del Centro Geofisico Prealpino di Varese. «Erano diversi giorni che avevamo concentrazioni molto alte di polveri sottili, oltre la soglia. Accade sempre quando abbiamo dei periodi di tempo stabile come questo, il problema è chenon se ne parla più, si fa finta di niente, come se purtroppo ci fossimo abituati. Una volta si interveniva in modo tempestivo e si ragionava su possibili soluzioni, oggi, come accade per altri temi ambientali, non si affronta il problema».
Ora le perturbazioni mitigheranno il problema per qualche giorno, fino alla prossima finestra di tempo stabile, e quindi alla nuova emergenza. L’alternativa sarebbe mettere in campo delle soluzioni a medio e lungo termine per affrontare il problema. «L’unica vera soluzione, sarebbe quella di ridurre la produzione di polveri sottili», sostiene Valisa. Come? «Incentivando la mobilità elettrica, la conversione dei riscaldamenti, la riduzione del traffico utilizzando più mezzi pubblici. Le soluzioni sarebbero sempre le stesse perché dal punto di vista atmosferico non possiamo farci nulla: la Pianura Padana è questa: un catino in cui in inverno abbiamo aria stagnante».
L’inquinamento atmosferico, in Europa, è considerato come una causa rilevante di morte. Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente sulla qualità dell’aria, più del 96% degli abitanti delle città europee respira livelli di particolato fine PM2,5 superiori alle soglie considerate sicure. L’esposizione prolungata a queste particelle, stando alle stime dell’EEA, nel 2022 avrebbe causato circa 239mila morti premature in Europa, di cui oltre 48mila solamente in Italia. A queste si aggiungono le morti attribuibili a concentrazioni elevate di altri inquinanti: circa 48mila per il biossido di azoto e circa 70mila per l’ozono.
L’inquinamento atmosferico rappresenta uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza di patologie croniche e continua a incidere in modo rilevante sulla salute della popolazione europea, in particolare nelle aree urbane. I gruppi più esposti agli effetti negativi della scarsa qualità dell’aria sono quelli socialmente più fragili, insieme a anziani, bambini e persone con problemi di salute preesistenti.
Bruxelles rilancia la sua offensiva contro la “disinformazione”, annunciando la creazione di un nuovo centro di contrasto alle fake news, pilastro dello “Scudo europeo per la democrazia”. Presentata come risposta alle interferenze straniere e alla proliferazione di contenuti falsi o alterati, l’iniziativa ha l’obiettivo dichiarato di «rafforzare, proteggere e promuovere democrazie forti e resilienti» nel Vecchio Continente. Al centro di questo piano a tutela delle istituzioni e dell’integrità del dibattito pubblico ci sono le accuse mosse alla Russia, accusata di aver condotto campagne di destabilizzazione online in tutta Europa.
Nel documento di trenta pagine, Bruxelles parla di un’infrastruttura necessaria per difendere la democrazia, proteggere elezioni, istituzioni e cittadini. «La democrazia liberale è sotto attacco. Assistiamo a campagne – anche da parte della Russia – specificamente concepite per polarizzare i nostri cittadini, minare la fiducia nelle nostre istituzioni e inquinare la politica nei nostri Paesi», ha spiegato l’Alta rappresentante UE, Kaja Kallas. L’iniziativa approda in un contesto segnato da una crescente centralizzazione del controllo informativo: tra newsroom finanziate, reti di fact-checking integrate e programmi che indirizzano l’agenda editoriale, l’UE ha già costruito un’architettura che orienta in profondità il dibattito pubblico. Il nuovo centro rischia di completare un sistema in cui la lotta alla disinformazione diventa strumento di gestione del consenso più che di tutela democratica. Lo Scudo europeo per la democrazia prevede un organismo dotato di tecnologie avanzate e competenze analitiche per individuare minacce narrative, campagne coordinate e presunte manipolazioni online. Per quanto i dettagli siano ancora nebulosi, la Commissione intende creare una cabina di regia permanente in grado di cooperare con governi, piattaforme digitali e redazioni, segnalando contenuti “a rischio” e allertando gli Stati membri. La componente più concreta dello scudo sarà, infatti, un nuovo Centro Europeo per la Resilienza Democratica, al quale gli Stati membri potranno aderire su base volontaria. Opererà come un hub dedicato allo scambio tra le istituzioni UE e i 27, collegando strutture esistenti che si occupano delle minacce nello spazio informativo. A coadiuvarne i lavori, una piattaforma che riunirà ong, think tank, ricercatori e fact-checker, inclusi l’Osservatorio europeo dei media digitali (EDMO) e la creazione di una rete europea indipendente di fact-checkers, gestita nell’ambito del Centro. La novità è la natura centralizzata della struttura: non più una rete di iniziative sparse, ma un polo unico. Bruxelles insiste sul carattere difensivo dell’operazione, ma la scelta di affiancare al centro una strategia di “prebunking” – anticipare e neutralizzare narrazioni considerate nocive prima che circolino – apre interrogativi sulla linea di confine tra prevenzione e censura preventiva.
Il nuovo centro si inserisce in una filiera comunicativa costruita negli ultimi anni, in cui si profila il rischio che il contrasto alle fake news diventi lo strumento perfetto per allineare ulteriormente il discorso pubblico e marginalizzare il dissenso. L’approccio tende, infatti, a privilegiare la modalità della sorveglianza e del controllo sull’informazione, più che la promozione del pluralismo. Come evidenziato dal dossier realizzato da Thomas Fazi, l’UE ha investito un miliardo e mezzo di euro in dieci anni per finanziare media, agenzie e progetti giornalistici. Programmi come Journalism Partnerships spingono verso un’informazione transnazionale “coerente” con l’agenda comunitaria, mentre l’European Newsroom – sostenuta da fondi UE – coordina 24 agenzie di stampa e produce contenuti condivisi che vengono ripresi dalle principali testate nazionali. Parallelamente, EDMO, la rete europea dei fact-checker, riceve fondi comunitari pur essendo composta in buona parte dalle stesse agenzie coinvolte in campagne di comunicazione pro-UE. Il risultato è un ecosistema in cui chi promuove la narrazione ufficiale è anche chiamato a validarne la verità, con un evidente rischio di conflitto d’interessi. In questo scenario, la creazione di un centro anti-fakenews appare come un ulteriore livello di filtraggio istituzionale, destinato a rafforzare l’allineamento già esistente. La logica dello Scudo rischia di consolidare un modello tecnocratico in cui l’UE definisce quali contenuti sono legittimi e quali devono essere segnalati, attenuati o rimossi, normalizzando il controllo del dissenso. Un meccanismo che, unito alla dipendenza economica dei media dai fondi comunitari, potrebbe ridurre ulteriormente la pluralità dell’informazione.
Il Venezuela ha lanciato una ingente esercitazione militare coinvolgendo quasi 200.000 soldati in tutto il territorio nazionale. A dare la notizia è il ministro della difesa Vladimir Padrino López, che ha precisato che tale dispiegamento non toglierà risorse «all’impegno quotidiano del Comando Operativo Strategico, che combatte con ogni mezzo tutte le altre minacce». Padrino López non ha fatto diretto riferimento agli Stati Uniti, ma l’esercitazione arriva in un momento di tensione con gli USA, che continuano a portare avanti la loro campagna di «contrasto al narcotraffico» bombardando presunte imbarcazioni di commercio illegale nel Pacifico. Proprio ieri, gli USA hanno deciso di inviare la portaerei Uss Gerald R. Ford in America Latina.
A Gaza sono le stesse vittime a documentare la propria sofferenza. Un sacrificio che ci chiama in causa. Qualche mese fa, durante una pausa caffè, mi sono fermata a chiacchierare con un cameriere di vent’anni. Mi ha chiesto cosa facessi nella vita. Gli ho parlato del mio lavoro a Still I Rise, nato dalla lotta per i diritti dei migranti in Europa e poi esteso ad altri contesti dimenticati.
Sono stata sintetica. Un po’ perché tendo a dilungarmi su ciò che mi appassiona, un po’ perché avevo capito che fosse una domanda di circostanza. Invece, con estrema apertura e onestà, mi stupì rispondendomi: «Brava, complimenti. Io sto facendo davvero fatica. Apro i social e vedo bambini morti, bombe che esplodono. Poi un balletto. Poi il calcio. Poi di nuovo bambini morti. Mi sento in colpa a passare oltre. Ma anche a guardarli fino in fondo. Mi sento così impotente di fronte a tutto questo orrore». Credo sia un sentimento molto diffuso, forse per alcuni un po’ mitigato dalla possibilità di trasformare l’indignazione personale in azione collettiva, come successo con le manifestazioni e gli scioperi di ottobre.
Sto scrivendo queste righe nel giorno in cui sono stati rilasciati ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Donald Trump è in visita a Tel Aviv, celebrato come “costruttore di pace”. Non ho la pretesa di fare previsioni, ma mi chiedo: tra un mese parleremo ancora di Palestina, o la nostra attenzione sarà stata risucchiata da altro?
Chi lavora nel settore umanitario lo sa bene: l’attenzione dell’opinione pubblica è volatile. L’informazione vive di emergenze e ogni finestra si chiude in fretta. Lo abbiamo visto, ad esempio, con la presa dei talebani di Kabul nel 2021 o con il terremoto in Siria e Turchia nel 2023. Emozione intensa per qualche settimana, poi silenzio. Figuriamoci per i conflitti protratti nel tempo, come quello in Siria (14 anni, oltre 650.000 morti) o in Yemen (più di 350.000 morti), tuttora in corso ma ormai fuori dai radar mediatici.
La Palestina è un’eccezione. Sicuramente a momenti alterni e con diversa intensità, ma per gli ultimi due anni è stata al centro dell’attenzione e del dibattito mondiale. Certo, verrebbe da pensare che sia una reazione normale. Scene impensabili sono diventate routine sui nostri schermi: fame, bombardamenti, corpi smembrati. Come potrebbe non scuotere le coscienze? Ecco, le coscienze sono state scosse grazie soprattutto a queste immagini. Crude e immediate, che non ci arrivano grazie al lavoro di giornalisti stranieri (a cui non è permesso l’accesso a Gaza), ma grazie ai civili e giornalisti palestinesi, che sono stati costretti a diventare cronisti del proprio massacro.
People connect with people
Nonostante la tregua Israele continua a commettere crimini nei confronti dei palestinesi a Gaza
È diverso leggere un bollettino di vittime e vedere un padre che corre tra le macerie e trova il corpo dei figli. O una madre che stringe un bambino scheletrico. O gli occhi vuoti e traumatizzati di chi è sopravvissuto. Quelle immagini ci attraversano. Ci restano addosso.
Per gli ultimi due anni sono state le stesse vittime a farsi reporter. Con una consapevolezza impressionante: filmare l’orrore, anche quello più intimo, nella speranza che mostrarlo al mondo serva a ottenere giustizia. Pensiamoci un attimo: non filmeremmo mai un padre che corre verso il corpo senza vita del figlio dopo un incidente. Sarebbe considerato un atto di violenza, di voyeurismo. Figuriamoci postarlo online. Invece i palestinesi lo fanno, e lo fanno per noi, per farci vedere. Rinunciando al proprio dolore intimo, al proprio lutto, nella speranza che possa servire a qualcosa.
Non dovrebbe mai spettare alle vittime il compito di dimostrare la propria umanità. Eppure, è esattamente ciò che i palestinesi di Gaza sono stati costretti a fare: mostrare il proprio dolore, filmarlo, divulgarlo. Non per esibizionismo, ma perché sanno che, senza immagini, il mondo non ascolta.
E, oggettivamente, ha funzionato. Hanno sacrificato l’intimità del lutto, la dignità della morte, la possibilità di vivere in privato il trauma per smuovere le nostre coscienze. Questo indicibile sacrificio deve esserci d’insegnamento, e lasciarci una responsabilità semplice e spietata: combattere la disumanizzazione dell’altro.
La disumanizzazione è ciò che rende possibili le guerre, le frontiere, i muri. Combatterla è un dovere: significa rifiutare le narrazioni che dividono tra “noi” e “loro”, scegliere l’empatia come forma di azione, pensare a cosa ci unisce come esseri umani prima di ciò che ci divide.
Informarsi, sostenere chi racconta dal campo, mobilitarsi quando serve. Restituire umanità dove viene negata. È così che, anche da lontano, si smette di essere spettatori.
Forse non possiamo cambiare tutto, ma possiamo scegliere da che parte stare.
Dal 15 novembre i lavoratori dell’ex Ilva a entrare in cassa integrazione saranno 5.700. Un numero destinato ad aumentare e a raggiungere le 6.000 unità a gennaio. È quanto emerso dal confronto tra i sindacati e il Ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, avvenuto in occasione del vertice alla presidenza del Consiglio fra governo e organizzazioni sindacali. I sindacati hanno definito la proposta del governo un «effettivo piano di chiusura», promettendo battaglia. La mossa è stata giustificata dal fermo dei lavori delle cokerie in nome della decarbonizzazione; i sindacati, tuttavia, sostengono che manchi «il sostegno finanziario al rilancio e alla decarbonizzazione».
Il caso Epstein torna a deflagrare sulla scena politica americana. Tre e-mail diffuse ieri dai democratici della House Oversight Committee chiamano nuovamente in causa il presidente americano Donald Trump, citato come presenza interna al circuito di festini e frequentazioni d’élite che orbitava attorno al finanziere pedofilo, morto in circostanze mai chiarite nel 2019. Il materiale trapelato è sufficiente a incrinare la versione del presidente americano di totale estraneità ai fatti e a scatenare la reazione della Casa Bianca, che torna a parlare di “bufale” e della pubblicazione di un “leak selettivo” che non prova «assolutamente nulla». Le nuove carte si intrecciano con il memoir postumo di Virginia Giuffre, con i dubbi di Mark Epstein sul presunto suicidio del fratello e con le accuse dello scrittore Michael Wolff, che descrive Trump ed Epstein “come fratelli”.
Le mail pubblicate provengono da un lotto di oltre 23.000 documenti forniti dall’eredità di Epstein al Comitato di Sorveglianza della Camera, in risposta a una citazione in giudizio e ricostruiscono contatti indiretti, scambi logistici e riferimenti a eventi mondani. Nulla che provi reati diretti, ma abbastanza per riaprire il capitolo controverso del rapporto di amicizia intercorso tra Trump ed Epstein, soprattutto in un momento in cui l’FBI ha archiviato il caso – sostenendo che non esistono liste clienti né prove di ricatti sistematici ai danni di politici e imprenditori di alto livello – generando l’ira della basa MAGA. Il primo messaggio del 2011, indirizzato a Ghislaine Maxwell, contiene un riferimento esplicito a Trump, indicato come «il cane che non ha abbaiato», sostenendo che Virginia Giuffre – allora minorenne – aveva trascorso “ore” con l’allora magnate senza che il suo nome fosse mai stato menzionato. Giuffre, però, nelle sue deposizioni e nel memoir postumo, ha sempre insistito che Trump non era tra gli uomini che l’avevano vittimizzata, descrivendolo come «estremamente amichevole» durante un incontro al Mar-a-Lago. Anche membri dello staff di Epstein hanno confermato le visite di Trump, ma senza comportamenti sospetti. In una seconda mail del 2019, indirizzata allo scrittore Michael Wolff, Epstein sostiene che Trump «ovviamente sapeva delle ragazze» e che avesse chiesto a Maxwell di “fermare” alcune frequentazioni, riferendosi indirettamente al divieto d’ingresso imposto a Epstein a Mar-a-Lago. Trump sul suo social Truth bolla la vicenda come una “bufala” riesumata dai democratici per distogliere l’attenzione dalla fine dello shutdown e da altri dossier politici. Ai nuovi sviluppi si intrecciano le irregolarità mai chiarite della notte tra il 9 e il 10 agosto 2019, quando Epstein fu trovato senza vita nella cella del Metropolitan Correctional Center. Le autorità federali hanno chiuso il caso parlando di suicidio, ma il quadro registrato è tutt’altro che lineare: telecamere fuori uso, controlli saltati per ore, trasferimento del compagno di cella poco prima della morte e totale assenza di immagini del corpo all’interno della cella. A queste anomalie si aggiunge la voce del fratello, Mark Epstein, che accusa Trump di mentire e parla apertamente di omicidio e di insabbiamento della verità.
Per Trump, l’uscita delle mail è un problema più politico che giudiziario, che arriva con un tempismo chirurgico, nel momento in cui stava incassando consenso per lo scandalo BBC e la fine dello shutdown. Da mesi, il tycoon ha adottato toni da offensiva: attacca i democratici, li accusa di orchestrare una manovra per destabilizzare la sua amministrazione. Da paladino della “verità” contro le élite corrotte del Deep State, a presidente che ora liquida la vicenda come un «argomento noioso» che non dovrebbe «interessare a nessuno», Trump ha compiuto l’ennesima giravolta che ha spaccato la base MAGA. Ora, chiamato in causa, quel terreno rischia di incrinarsi: il caso Epstein si è trasformato, infatti, da cavallo di battaglia della campagna elettorale a una bomba a orologeria. Le mail non lo incriminano di un reato, ma tirano in ballo la sua presenza in un ecosistema di potere trasversale: politici, banchieri, dirigenti di multinazionali, membri di famiglie reali, apparati dell’intelligence. È una rete internazionale mai esposta del tutto, che rende ancora “radioattivo” il caso Epstein. Le nuove carte diffuse non sono l’ultima parola: sembrano piuttosto l’inizio di un regolamento di conti trasversale che può colpire non solo Trump, ma tutto l’establishment che ha intessuto relazioni con Epstein e Maxwell. In questa partita, la posta in gioco non è solo la presidenza, quanto la credibilità del potere.
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