ChatGPT, il chatbot di intelligenza artificiale più noto al grande pubblico, compie un ulteriore passo verso la facilità d’uso integrando direttamente nella sua interfaccia principale la voice mode. Questo aggiornamento rende ancora più immediato l’invio di prompt vocali: gli utenti possono avviare una “conversazione” senza essere reindirizzati in aree terze dell’app, basta toccare l’icona dedicata e la propria voce viene convertita in testo, mentre le risposte del sistema possono apparire sullo schermo anche sotto forma di testo, mappe, immagini o altri elementi visivi.
Secondo quanto riportato nell’annuncio di martedì 25 novembre, la novità rende l’interazione più naturale, eliminando le interruzioni nel flusso comunicativo e favorendo una migliore integrazione tra audio e contenuti visivi. Chi preferisce la modalità “classica” può comunque ripristinare la vecchia interfaccia: nelle impostazioni dell’app mobile è stata introdotta l’opzione Separate mode.
Non è difficile comprendere come sia giustificata questa evoluzione. In passato il CEO di OpenAI, Sam Altman, ha espresso più volte il suo apprezzamento per il film distopico Lei, assumendolo come punto di riferimento cardine per orientare lo sviluppo tecnologico dell’azienda. Il tacito scopo di questo passo avanti sembra quindi quello di simulare con maggior efficacia un confronto “umano” con il chatbot, senza però compromettere le sue capacità multimodali né la possibilità di soddisfare esigenze pratiche e aspettative degli utenti.
Parallelamente, l’attenzione crescente in questa direzione evidenzia un trend più ampio: le imprese che operano nell’intelligenza artificiale mirano a trasformare questi strumenti in assistenti vocali capaci di sollecitare l’empatia dei consumatori. Una tendenza che può portare gli utenti ad abbassare la guardia, condividendo informazioni intime che finiscono registrate sui server, o affidandosi con eccessiva fiducia a suggerimenti potenzialmente fuorvianti, con il rischio di nuove forme di dipendenza o psicosi.
Relazioni parasociali di questo tipo sono infatti al centro di un numero crescente di nuove app e servizi. Ha suscitato clamore, per esempio, Friend, un dispositivo da indossare come una collana che permette di interagire verbalmente con un’app dedicata sullo smartphone. Inizialmente concepito come Tab, un agente di IA pensato per ottimizzare il lavoro, il progetto è stato riorientato dal suo giovane creatore, Avi Schiffmann, verso un prodotto che fa leva esplicitamente sul desiderio umano di avere compagnia — o almeno un surrogato convincente.
Friend ha però ricevuto riscontri estremamente negativi, sia per le sue campagne pubblicitarie provocatorie, sia per l’elevato costo a fronte di funzionalità limitate. Eppure, lo stesso spirito imprenditoriale è riscontrabile altrove. X, ad esempio, ha introdotto chatbot dotati di avatar con cui è possibile, in modo non dissimile da un videogioco, sviluppare livelli di amicizia e persino relazioni sentimentali o erotiche. Intanto continuano a moltiplicarsi le app secondarie che simulano relazioni affettive di vario tipo.
Nel presentare l’IA al mondo, le aziende hanno spesso sostenuto che le criticità attuali — inquinamento, consumi elettrici, aumento dei costi dei device — siano ampiamente compensate dal potenziale di annientare ogni malattia, risolvere il cambiamento climatico e liberare l’umanità dal giogo del lavoro. Tuttavia, i manager che hanno promosso queste visioni ambiziose sembrano, almeno per il momento, più interessati a costruire prodotti capaci di instaurare una condizione per cui i consumatori si legano emozionalmente al prodotto, piuttosto che a realizzare i grandi obiettivi promessi.
Matteo Renzi entra ufficialmente nel Consiglio di amministrazione di Enlivex Therapeutics, società biotecnologica israeliana quotata al Nasdaq e alla Borsa di Tel Aviv. Il senatore e leader di Italia Viva assume un incarico strategico all’interno di un’azienda che intreccia ricerca medica, finanza digitale e tecnologie predittive basate su blockchain. L’ingresso dell’ex presidente del Consiglio nel board coincide con l’avvio di una strategia ambiziosa: un aumento di capitale da 212 milioni di dollari destinato in gran parte a finanziare un progetto basato su criptovalute e mercati predittivi.
Enlivex, nota per lo sviluppo di terapie sperimentali, ha deciso di affiancare all’attività scientifica una svolta radicale: puntare su criptovalute e “prediction market”. In particolare, l’azienda lancerà una strategia di tesoreria basata su asset digitali, utilizzando il token RAIN come elemento centrale di un portafoglio che si affida a mercati predittivi decentralizzati. L’idea, secondo i vertici dell’azienda, è trasformare il valore futuro delle previsioni (su eventi economici, politici o di mercato) in un asset digitale, in un’ottica che unisce finanza, tecnologia e innovazione. L’operazione prevede che la raccolta dei 212 milioni di dollari possa avvenire anche attraverso stablecoin (USDT) e non solo valuta tradizionale, segno che Enlivex punta sull’ibridazione tra biotech e finanza decentralizzata, cercando di dare vita a una “bio-fintech” ibrida.
Secondo la nota ufficiale di Enlivex, l’ingresso di Matteo Renzi nel board ha l’obiettivo di «creare valore per gli azionisti» grazie alla sua esperienza politica e di leadership. Renzi stesso ha definito l’operazione come un’opportunità per guardare al futuro: «Vedo un potenziale reale nelle tecnologie blockchain e nei modelli predittivi», ha dichiarato, sottolineando che l’innovazione deve essere «responsabile e mirata». L’incarico di Renzi in Enlivex sarà gratuito, diversamente dai precedenti contratti milionari stipulati nel mondo arabo, in linea con le norme più restrittive sugli affari privati dei parlamentari, che gli consentono solo collaborazioni non retribuite o con aziende europee. Resta, però, per il leader di Italia Viva il vantaggio strategico di accedere a reti di potere e mercati ad alto valore. Nel progetto compare come senior strategy advisor di Rain Treasury anche Ofer Malka, imprenditore israeliano già vicino a Renzi, citato ben 104 volte in una relazione della Guardia di Finanza che la Procura di Firenze inviò al Parlamento nel 2022, quando il Copasir voleva capire se qualcosa degli incarichi privati di Renzi avesse rilevanza per la sicurezza nazionale. In quel dossier, si delineavano diversi rapporti tra il “Giglio magico” e Israele, tramite un intricato intreccio che ruotava attorno allo storico amico e finanziatore di Renzi, Marco Carrai, che gestisce diverse società, tra cui la Wadi Ventures Management Company con sede a Tel Aviv. Malka, ex socio di Carrai nella società di cybersicurezza Cys4, aveva tentato in passato di coinvolgere Renzi in iniziative imprenditoriali, tra cui una società cripto che gli aveva offerto la presidenza, poi ufficialmente rifiutata. In aprile, Malka aveva lanciato la società di criptovalute Elio Capital, offrendo proprio a Renzi, tramite Carrai, la presidenza, poi rifiutata. Oggi i due tornano a incrociarsi all’interno dell’ecosistema che unisce biotecnologie, criptovalute e blockchain.
L’impatto mediatico e finanziario non si è fatto attendere. Dopo l’annuncio, il prezzo del token RAIN è schizzato – con un rialzo oltre il 120% nelle 24 ore successive – e le azioni di Enlivex hanno registrato un incremento sensibile, anche se su valori inferiori al +40%. La reazione dei mercati rivela la curiosità degli investitori, anche se l’intreccio tra ricerca sanitaria e logiche speculative legate ai mercati predittivi appare tutt’altro che lineare. La scelta di inserire un politico italiano in carica nel consiglio di amministrazione di una società straniera apre interrogativi che vanno oltre la mera opportunità, toccando il tema della trasparenza e mettendo in discussione l’equilibrio tra ruolo pubblico, interessi privati e responsabilità istituzionale. Nel board di Enlivex, Renzi si ritrova accanto a figure legate a percorsi istituzionali e reti di potere , che rafforzano l’idea di una continuità non più confinata alla cerchia fiorentina del fu “Giglio magico”, ma ormai proiettata su scala internazionale. Un sistema che, nato a Firenze, sembra oggi essersi spostato e ampliato verso Tel Aviv, trasformando un circuito di relazioni locali in una struttura transnazionale dove politica, finanza e influenza si intrecciano fuori dal perimetro del controllo democratico.
Le diete per il dimagrimento sono però varie, anche se negli ultimi anni quelle che hanno preso il sopravvento – anche per meriti scientifici e dati a loro favore emersi dalla sperimentazione clinica in tutto il mondo – sono quelle che prevedono il taglio o una forte riduzione nell’apporto di carboidrati (e di zuccheri, a maggior ragione ovviamente). In questo contesto, può essre utile quali siano gli alimenti che contengono carboidrati a lento assorbimento, spesso più salutari e che garantiscono un maggior senso di soddisfazione durante la giornata.
Attuare una perdita di peso (o meglio di grasso corporeo) attraverso una dieta che toglie o riduce al lumicino i carboidrati è una strategia efficace e molto veloce per dimagrire, dal momento che l’organismo in questo modo è costretto (forzato cioè da un punto di vista metabolico) ad utilizzare quasi esclusivamente i grassi di riserva per ricavare l’energia necessaria al suo funzionamento. Fintanto che, invece, si continua a fornire quotidianamente una dose importante di carboidrati e zuccheri, l’organismo utilizzerà in via preferenziale soltanto i carboidrati come fonte di cibo da cui ricavare energia, dal momento che si tratta di un “carburante” di più rapido utilizzo per l’organismo. I tempi di digestione di carboidrati e zuccheri sono infatti più brevi di quelli di grassi e proteine. In questo modo, i grassi accumulati come riserve adipose nel corpo non verranno mai intaccati, a meno che non si faccia tanta attività sportiva su base quotidiana (come avviene per gli sportivi professionisti). Da questo se ne deduce che tutti i regimi alimentari che impostano una riduzione corposa delle quantità di carboidrati e zuccheri hanno effetti sicuri ed efficaci sulla perdita di peso.
Ma anche altre strade sono possibili per dimagrire, e in particolare si può perdere peso continuando ad assumere una certa quota di carboidrati ogni giorno. Tuttavia bisogna avere una conoscenza ben precisa di quali e quanti carboidrati si possono assumere senza ricadere nella spirale dell’aumento di peso o del raggiungimento del plateau, cioè di quella situazione metabolica per la quale si va in stallo e non si riesce a perdere peso, pur non aumentando i chili sulla bilancia. Anche per dimagrire, dunque, il punto è ancora una volta trovare il giusto equilibrio nella dieta, personalizzandola ai propri fabbisogni individuali specifici (sempre diversi da persona a persona) e scegliere le giuste tipologie e quantità di carboidrati.
Carboidrati a lento assorbimento
Le castagne sono un esempio di carboidrati a lento assorbimento
Quando pensiamo ai carboidrati, immaginiamo subito il pane e la pasta, ma in realtà i veri carboidrati a lento assorbimento sono quelli dei legumi. Ceci, fagioli, piselli, lupini e lenticchie non sono “proteine” alternative alla carne, come spesso si sente dire, ma alimenti con una netta prevalenza di carboidrati al loro interno e solo una piccola quota di proteine. I legumi contengono infatti amido, lo stesso che troviamo nel pane e nella pasta. Ma al contrario di questi ultimi, sono un cibo molto più ricco di nutrienti, in quanto possiedono quantitativi minori di amido e dosi maggiori di fibra, vitamine, minerali e sostanze antiossidanti. I cereali in chicco, invece, si avvicinano al profilo dei legumi, pur mantenendo un quantitativo più elevato di amido e quindi di carboidrati. Le farine di cereali e i cibi da esse ricavati come il pane e la pasta, sono più poveri di nutrienti rispetto al cereale in chicco da cui la farina deriva, a causa dei processi di lavorazione e raffinazione del chicco, e questo vale anche per le farine integrali. Un altro esempio di carboidrati a lento assorbimento sono le castagne.
In sostanza, esistono carboidrati che il nostro corpo assorbe più rapidamente (come gli zuccheri e gli amidi delle farine) e carboidrati che necessitano di più tempo per trasformarsi in energia (come quelli dei legumi). Quelli lenti sono i migliori per il nostro organismo, quelli veloci invece entrano in circolo rapidamente e possono portare a sovrappeso e obesità, specie se costituiscono la base della nostra alimentazione (ovvero un 50-70% dei nostri pasti nella dieta giornaliera) e specialmente se sono assunti in quantitativi eccessivi. Quando se ne consumano troppi, tipicamente non associati oppure associati male a fibre e proteine, c’è il rischio che la glicemia si alzi troppo, affaticando il pancreas e mandando il tilt il metabolismo del glucosio. Questo predispone a sviluppare diabete di tipo 2 e infiammazioni ed espone a continui cali energetici, irritabilità, fame nervosa e comparsa di adipe addominale. Quando invece assumiamo cibi più completi come i legumi, il “carburante” dei carboidrati si diffonde nel sangue lentamente e in modo equilibrato. Ci sentiamo piacevolmente sazi e pieni di energie più a lungo (ciò evita anche la necessità di fare spuntini e merende tra i pasti).
Altri carboidrati di qualità e a lento assorbimento sono quelli contenuti in latte e yogurt. Ne contengono solo una piccola quantità (4 grammi su 100g) e sono miscelati a proteine e grassi, che ne garantiscono un rilascio graduale nel sangue. Infine anche la frutta secca a guscio (mandorle, noci, nocciole) contiene una piccola dose di carboidrati (molto piccola) combinata a fibre, proteine e grassi, il mix perfetto della Natura in pratica, che non sbaglia mai. E anche in questo caso è difficile ingrassare se si includono questo genere di carboidrati al posto di quelli delle farine e dei derivati come la pasta e il pane. Anzi, solitamente una dieta a basso apporto di farine e derivati porta inesorabilmente ad una perdita del grasso adiposo in eccesso.
Oltre a pane e pasta, altre fonti di carboidrati “ingrassanti” sono anche fette biscottate, gallette, focacce, pizzette, grissini e crackers. Un altro carboidrato favorevole con cui si può tranquillamente dimagrire sono le banane e le patate, ma un po’ tutta la frutta in genere, mentre i succhi di frutta hanno un effetto opposto tendente all’aumento repentino della glicemia e dell’insulina nel sangue. La frutta fresca non è ingrassante, a meno che non si assuma una dose eccessiva ovviamente. Due o tre frutti al giorno sono perfettamente in equilibrio all’interno di una dieta sana, e andrebbero mangiati da tutti in sostituzione di altri alimenti ingrassanti come crackers o biscotti. Volendo allargare il discorso ad altri “carboidrati” buoni vi sono fonti eccellenti come la zucca o il topinambur, ma si tratta di alimenti più stagionali e quindi utili solo in alcuni periodi dell’anno. Inutile sottolineare che fonti di carboidrati e zuccheri come biscotti, budini, gelati, succhi e bevande zuccherate, bevande alcoliche, marmellate, sono cibi che se assunti su base quotidiana non possono favorire il dimagrimento ma semmai all’opposto farci ingrassare.
La patata dolce
Le patate dolci sono tuberi commestibili della pianta Ipomoea batatas, che si distinguono dalle patate comuni per il sapore più zuccherino
Infine come fonte di carboidrati molto sani è consigliabile anche la patata dolce (o batata), perché ha delle caratteristiche diverse dalla patata tradizionale che viene coltivata in Italia. Originarie del Centro America, le patate dolci sono tuberi commestibili della pianta Ipomoea batatas, che si distinguono dalle patate comuni per il sapore più zuccherino e per non appartenere alla stessa famiglia botanica. Al contrario di quello che il suo nome potrebbe suggerire, non è un cibo troppo zuccherino, ma è ricco di una fibra solubile chiamata lignina, contenuta in dose doppia rispetto alla patata comune. Sono inoltre ricche di nutrienti come vitamina C, potassio, fibre e betacarotene. Questo è il suo primo “superpotere”, infatti i carboidrati con molta fibra come la patata dolce sono migliori rispetto ad altri perché svolgono una azione di pulizia intestinale, ci saziano e ci aiutano a non introdurre calorie in eccesso. Queste fibre vanno a nutrire i batteri buoni dell’intestino, il famoso microbiota, contribuendo alla salute del sistema immunitario. E anche l’indice glicemico della batata è inferiore rispetto a quello delle patate comuni, proprio perché sono composte da carboidrati a lento rilascio e più fibra. Oggi la batata si trova in commercio in tutti i supermercati.
L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha esaurito ogni via di ricorso: la sua condanna a 27 anni di carcere per il tentato colpo di Stato è ora definitiva. La Corte Suprema del Brasile ha disposto l’esecuzione della pena: Bolsonaro si trova in detenzione cautelare da sabato scorso, dopo che la polizia federale ha accertato un suo tentativo di liberarsi del braccialetto elettronico che monitorava i domiciliari concessi la scorsa estate. Anche gli ex ministri coinvolti nel complotto, Anderson Torres e Alexandre Ramagem, hanno visto confermate le loro condanne.
Israele ha deciso di prorogare ancora una volta il divieto di accesso per i giornalisti internazionali alla Striscia di Gaza. La decisione arriva dopo che la Corte Suprema israeliana ha rinviato a lunedì prossimo, 4 dicembre, la decisione sul permesso d’ingresso libero alla stampa. Da oltre un anno la Fpa, Foreign Press Association, che rappresenta circa 400 testate, ha presentato una petizione all’Alta corte di Gerusalemme per ottenere l’accesso indipendente dei media internazionali a Gaza. Di fatto, la Striscia resta ancora inaccessibile ai media indipendenti. L’unico accesso consentito resta quello “embedded”, cioè a giornalisti accompagnati dalle forze dell’IDF nelle zone di confine, una modalità che limita fortemente l’autonomia giornalistica.
Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo, a Torino, è stato oggetto di un decreto di espulsione e rinchiuso in un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR) per aver affermato che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre furono un atto di resistenza dovuto ad anni di occupazione e decine di guerre. A sollecitarne l’espulsione, nel corso di un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Piantedosi, è stata la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli. Non appena trapelata la notizia, a Torino è iniziata una mobilitazione spontanea che fino a sera ha riempito le strade del centro e di San Salvario, quartiere dove ha sede la moschea di Shahin. I movimenti per la Palestina accusano il governo di aver colpito Shahin per essersi pubblicamente esposto e aver dato voce a un’idea condivisa dalle piazze che da due anni chiedono la fine della guerra.
«Il 7 ottobre è il risultato di un’occupazione di 80 anni, di 11 guerre che sono successe prima del 7 ottobre»: queste sarebbero le dichiarazioni incriminate, che hanno valso a Mohamed Shahin un decreto di espulsione. Queste posizioni sono state esposte apertamente nel corso di numerose manifestazioni e ribadite alla stampa durante un corteo del 9 ottobre scorso, durante il quale aveva aggiunto che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre sono stati un tentativo, da parte dei palestinesi, di «svegliare il mondo perchè prestasse attenzione alla loro causa». Per questo, Shahin si è visto revocate il permesso di soggiorno e recapitare un decreto di espulsione. Dopo essere stato detenuto in un primo momento nel CPR di Torino, Shahin è stato trasportato in quello di Caltanissetta e da qui verrà rimandato nel suo Paese d’origine, l’Egitto. Il suo rimpatrio potrebbe comportare per lui la detenzione, se non anche la morte, dal momento che in patria è considerato un dissidente per la sua aperta opposizione al regime di Al Sisi. Recentemente, l’Italia ha inserito l’Egitto nella lista dei Paesi sicuri, nonostante nel Paese sia in vigore un regime violento e la stessa Corte di Giustizia UE si sia detta contraria a tale designazione.
L’arresto di Shahin ha sollevato un’immediata ondata di rabbia e solidarietà in città: l’uomo è infatti una figura centrale nell’ambito delle mobilitazioni per la Palestina, nonchè un riferimento per la comunità musulmana del quartiere di San Salvario. Da oltre vent’anni Shahin vive in Italia insieme alla moglie e ai figli. Subito dopo la notizia del suo arresto è nato il coordinamento Free Mohamed Shahin, che in un comunicato ha sottolineato come ciò che ha portato all’arresto dell’imam sia l’aver sostenuto una posizione condivisa dalle piazze per la Palestina. Il coordinamento ha accusato il governo di star tentando di creare divisioni e fermare «l’incredibile sollevazione mondiale per la Palestina». Per i movimenti, Shahin sarebbe stato preso di mira in quanto «ricattabile», in ragione del suo permesso di soggiorno. Nella serata di ieri, 25 novembre, decine di persone erano in piazza per chiedere la sua liberazione e sono previste mobilitazioni anche per oggi, alle ore 18, nei pressi delle prefetture.
Non è la prima volta che soggetti di origine araba e palestinese, anche di alto profilo, vengono perseguiti in Italia per via delle loro idee politiche dopo il 7 ottobre 2023. Solamente un anno fa, l’imam di Bologna Zulfiqar Khan era stato espulso dal Paese con un analogo decreto del ministro Piantedosi e rimandato in Pakistan, suo Paese d’origine, nonostante vivesse in Italia da trent’anni. Il suo decreto di espulsione, giunto a seguito della presa di posizione netta, da parte dell’imam, a favore della Palestina, citava una «propensione a posizioni radicali». Un mese fa, poi, il Comune di Milano aveva notificato al presidente dell’Associazione Palestinesi d’Italia, Mohamed Hannoun, un foglio di via dalla città, accusandolo di istigazione alla violenza. Nel corso di un corteo svoltosi il 18 ottobre scorso, infatti, Hannoun aveva così commentato le esecuzioni pubbliche che sarebbero state portate a termine da Hamas: «Tutte le rivoluzioni del mondo hanno le loro leggi. Chi uccide va ucciso, i collaborazionisti vanno uccisi. Oggi l’Occidente piange questi criminali, dicono che i palestinesi hanno ucciso poveri ragazzi. Ma chi lo dice che sono poveri ragazzi?». Vi è poi il caso di Ahmad Salem, profugo palestinese da sei mesi detenuto nel carcere di Rossano Calabro per aver promosso e appoggiato la mobilitazione contro il genocidio a Gaza. Vi è poi il caso dei tre palestinesi sotto processo a L’Aquila (Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh), accusati di associazione con finalità di terrorismo per aver, secondo le accuse formulate da Israele, finanziato la Brigata Tulkarem, un gruppo di autodifesa armato attivo nella resistenza contro Israele nella Cisgiordania occupata dall’esercito sionista dal 1967. Sul loro caso, verrà emessa una sentenza il 19 dicembre prossimo.
Nelle profondità dell’oceano, a oltre 600 metri sotto il livello del mare, gli scienziati australiani hanno identificato una nuova specie di pesce bioluminescente: uno squalo lanterna, rilevato per la prima volta nelle acque del Gascoyne Marine Park, al largo della costa occidentale dell’Australia. È una scoperta che arricchisce la conoscenza di un mondo ancora in gran parte invisibile, dove la vita si è adattata in modi sorprendenti all’assenza di luce, alla pressione estrema e alle temperature costanti.
Sebbene si tratti di uno squalo, l’animale è in realtà di piccole dimensioni: il più gran...
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Sono almeno 1.697 le persone – uomini e donne, bambini e anziani – che sono morti nel Mediterraneo cercando di giungere alle coste europee nel solo 2025. I dati del Missing Migrants Projects (MMP), il progetto dell’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) che si occupa di tenere conto dei migranti morti o scomparsi nel mondo, traccia anche quest’anno la rotta di un fenomeno che, seppure in diminuzione rispetto allo scorso anno, rimane allarmante. Di queste persone si sa che 125 erano di sesso femminile, 545 di sesso maschile, 93 erano bambini. Per i restanti 1.027 l’identità è indeterminata. Il bacino mediterraneo si conferma così, ancora una volta, il luogo più mortale al mondo per i migranti in fuga dai propri Paesi d’origine.
In generale, la tendenza a livello globale è di una leggera diminuzione dei decessi, anche se va tenuto in conto che l’anno non è ancora concluso e che questi aumenteranno ancora priam della fine dell’anno. Nel solo 2025 sono 1.521 i morti lungo la tratta asiatica, cui si sommano gli 822 nell’Asia occidentale. Altri 973 sono morti in Africa, 89 all’interno dell’Europa (lungo il canale della Manica o ai confini di Polonia e Bielorussia), 384 in Sudamerica. All’interno del bacino mediterraneo, la rotta del Mediterraneo centrale si conferma come la più mortale al mondo, con 568 migranti morti solamente in questo tratto e altri 619 scomparsi. Dal 2014, ovvero da quando esiste il progetto MMP, delle 33.172morti avvenute nel Mediterraneo, ben 25.772 si collocano nel tratto centrale.
Ad influire su questi numeri vi sono vari fattori, uno su tutti la criminalizzazione della migrazione e delle organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio dei migranti da parte delle istituzioni europee e dei governi, quello italiano in primis. Con il decreto Flussiapprovato all’inizio dell’anno dal governo Meloni, per esempio, il governo ha introdotto sanzioni più severe nei confronti delle imbarcazioni che operano in mare, disponendo fermi amministrativi più lunghi, multe più salate e confisca dei mezzi. Tutto questo ha conseguenze dirette sul numero di persone portate in salvo dai naufragi, oltre che dalle violenze delle guardie costiere che rastrellano le navi dei migranti nel Mediterraneo, quali quella libica e quella turca. Con entrambe i governi, l’UE e l’Italia hanno però strettoaccordi e patti bilaterali, proprio per delegare a questi Paesi il controllo delle migrazioni e fermare i migranti prima ancora che questi partano. D’altronde, Libia e Tunisia sono i Paesi dai quali provengono la quasi totalità dei migranti che attraversano il Mediterraneo centrale. Il ruolo dei due Paesi e delle rispettive guardie costiere nelle opere di massacro, tortura e persecuzione dei migranti è noto ormai da tempo, confermato da inchieste giornalistiche, rapporti di ONG e report ufficiali. Realtà sulle quali Italia e UE hanno scelto di voltarsi dall’altra parte – come dimostra, d’altronde, il mancato arresto da parte di Roma del “torturatore” libico Almasri, poi arrestato dalle stesse autorità libiche proprio per i crimini commessi nei centri di detenzione per migranti. Proprio grazie al decreto flussi, tra l’altro, sarà impossibile conoscere l’entità dei finanziamenti che l’Italia erogherà alle autorità libiche per bloccare le partenze.
Le morti in mare solo una parte di quelle causate indirettamente dalle politiche europee e italiane, volte sempre più alla chiusura totale delle frontiere e alla loro esternalizzazione. Alarmphone, ONG impegnata nella segnalazione di situazioni critiche nel Mar Mediterraneo, riferisce come in Tunisia il razzismo delle istituzioni operi in modo sistematico e come i migranti riportati indietro dalle imbarcazioni della Guardia Costiera vengano poi deportati nel deserto e abbandonati, con l’effetto di andare incontro a morte certa. Una situazione analoga è stata descritta da molti migranti anche per quanto riguarda l’Algeria.
Eppure, come sempre capitato nel corso della storia, politiche più restrittive non fermano le migrazioni. Anzi, gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero dell’Interno raccontano che, al 25 novembre 2025, il numero di migranti sbarcati sulle coste italiane era già superiore a quello del 2024 – 63.260 persone, contro le 60.845 dell’anno scorso. L’ennesima conferma che politiche restrittive aumentano le morti, ma non fermano le persone.
La Camera dei Deputati ha approvato con consenso bipartisan il ddl femminicidio, che introduce l’omonimo reato nel codice penale. Il reato, introdotto con l’articolo 577-bis, prevede l’ergastolo per chi uccide una donna per discriminazione, odio o prevaricazione o mediante atti di controllo, possesso o dominio. Il provvedimento era già approvato dal Senato e diventerà legge.
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) ha ridotto i finanziamenti del Pnrr destinati alle Comunità energetiche rinnovabili da 2,2 miliardi a 795,5 milioni, con un taglio del 64%. È quanto ricostruito dal portale specializzato Punto CER, che lancia l’allarme in merito alle potenziali ripercussioni sull’intero settore strategico per la transizione energetica italiana. La mossa, annunciata il 21 novembre, mette infatti in grave difficoltà centinaia di aziende che avevano investito risorse, formato personale specializzato e costruito competenze specifiche basandosi sulle promesse governative.
La decisione è stata comunicata attraverso un post su LinkedIn del presidente del Gse, Paolo Arrigoni, che ha rilanciato il comunicato del Mase definendo «raggiunta e superata» la milestone degli 1.730 MW, essendo pervenute richieste per 1.759,7 MW pari a 772,5 milioni di euro. Una modalità di comunicazione che ha generato sconcerto tra gli operatori, come ha denunciato Giovanni Montagnani, presidente di Cer Vergante Rinnovabile: «A 10 giorni dalla scadenza del bando (30 novembre), non esce un decreto, ma un post su LinkedIn del Presidente del GSE che annuncia il taglio di 2/3 dei fondi. Le regole cambiano a partita finita, bruciando i business plan di migliaia di aziende».
La misura, nata per spingere la partecipazione di cittadini, enti locali e imprese alla transizione, è stata in molti casi il punto di riferimento per scelte industriali e occupazionali. Negli ultimi due anni aziende e studi tecnici hanno assunto personale, formato tecnici e costruito reparti dedicati alle CER partendo da un quadro normativo che, seppur complesso, appariva stabile. Il taglio improvviso mette ora a rischio piani industriali e posti di lavoro, trasformando investimenti strategici in costi sommersi. Il governo sostiene che si tratta di adeguamenti necessari per rispettare vincoli europei e parla di «fattori esogeni» che avrebbero giustificato la scelta; tuttavia il conto ricade su imprese e territori. Con 772,5 milioni di euro già richiesti (dato aggiornato a fine novembre) e una dotazione totale di 795,5 milioni, il margine per finanziare progetti già valutati è quasi inesistente.
Le conseguenze del taglio si estendono ben oltre gli aspetti finanziari. Il modello delle comunità energetiche, che mette i cittadini al centro della transizione energetica trasformandoli in protagonisti attivi, rischia infatti di vedere drasticamente ridotte le sue potenzialità di sviluppo. A complicare ulteriormente il quadro si aggiungono difficoltà operative concrete. Sono infatti state segnalate pratiche approvate già da febbraio che attendono ancora i pagamenti, apparentemente bloccate dall’assenza del portale necessario per erogare i fondi. Contemporaneamente, la scadenza di giugno per la realizzazione degli impianti rimane ferma, costringendo le imprese a lavorare in condizioni di forte pressione temporale. A questo si aggiungono i rischi per la sicurezza dei lavoratori: «La scadenza per i lavori resta ferrea: i mesi persi da loro per valutare le pratiche diventano tempo sottratto ai cantieri. Per stare nei tempi, gli installatori dovranno correre», ha evidenziato Montagnani.
In questo momento, le imprese si trovano dunque di fronte a scelte drammatiche: mantenere i team formati sperando in «eventuali integrazioni finanziarie future» – una speranza, appunto, non una certezza – oppure ridimensionare drasticamente l’organico, disperdendo competenze faticosamente acquisite. Il MASE rassicura che i progetti valutati positivamente ma non finanziabili «saranno comunque considerati idonei ai fini di eventuali scorrimenti», ma si tratta solo di una magra consolazione che non paga stipendi e non ammortizza investimenti.
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