mercoledì 19 Novembre 2025
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Shutdown USA: caos negli aeroporti per mancanza di controllori di volo

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Lo shutdown del governo federale americano ha mandato in tilt il traffico aereo negli Stati Uniti. La carenza di controllori di volo, molti dei quali assenti o non retribuiti, ha costretto la Federal Aviation Administration a ridurre le operazioni in numerosi scali. A New York, Los Angeles e Orlando decine di voli sono stati cancellati o hanno accumulato ritardi di oltre due ore. La situazione, aggravata dalla pressione sui turni e dalla mancanza di fondi, rischia di paralizzare il sistema in vista delle festività, mentre le compagnie invitano i passeggeri a verificare lo stato dei voli prima di partire.

Valanga sull’Ortles, trovati morti i due dispersi

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Sono stati ritrovati senza vita i due dispersi sulla Cima Vertana, nel gruppo dell’Ortles, in Alto Adige. Si tratta di due turisti tedeschi, padre e figlia di 17 anni. Il bilancio della valanga di ieri sale così a cinque vittime. La slavina, precipitata sul versante nord della montagna, aveva travolto un gruppo di escursionisti. Le ricerche, ostacolate da nebbia e maltempo, sono proseguite per ore: gli elicotteri hanno elitrasportato in quota i soccorritori fino a 2.600 metri, da dove le squadre hanno proseguito a piedi. Ieri erano già stati recuperati i corpi di altri tre turisti tedeschi, due uomini e una donna, travolti mentre risalivano un canalino con piccozze e ramponi.

La rivolta della Generazione Z

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Un’ondata di rivolte ha colpito le istituzioni politiche ed economiche di vari Paesi sparsi per il globo, dal Nepal alla Mongolia. Tutte hanno un tratto in comune: coloro che vi hanno preso parte sono per la maggior parte appartenenti alla cosiddetta Generazione Z, ovvero quella dei nati tra il 1997 e il 2012. Le analisi condotte dai media hanno bollato questi eventi come proteste contro la corruzione o la repressione poliziesca, senza sforzarsi di comprendere a fondo il fenomeno e tracciare le similitudini. Molte di queste lotte sono infatti animate da una coscienza politica profonda e vedono tra i promotori movimenti che contestano apertamente le disparità economico-sociali, puntando il dito contro un modello di sviluppo che permette condizioni sempre più agiate a una ristretta élite, in molti casi figlia della stessa classe dirigente, in netto contrasto con l’abbandono infrastrutturale e la diffusa povertà della maggior parte della popolazione. Questi manifestanti non chiedono una generica riforma della politica, ma pretendono il cambio di un sistema incentrato su privilegi per pochi e precarietà di vita per tutti gli altri. 

Nepal, da Discord alla caduta del governo

Giovani manifestanti a Katmandu, Nepal

Tra le proteste che negli ultimi due anni hanno imperversato tra l’Asia meridionale e il Sud Est Asiatico, le manifestazioni in Nepal sono state tra quelle maggiormente coperte dai mezzi di comunicazione occidentali. 

Dopo secoli di monarchia, nonostante l’ottenimento della democrazia, durante gli ultimi vent’anni la situazione in Nepal non ha portato ai miglioramenti sperati dalla popolazione. L’attuazione di un modello capitalista fondato su una scarsa industrializzazione e sul turismo ha ingrossato le casse delle caste più elevate, a discapito della maggior parte della popolazione nepalese. Il tasso di povertà assoluta che supera il 20% e la disoccupazione giovanile al 21% si scontrano con le condizioni economiche delle famiglie al potere, le quali, in molti casi, fanno sfoggio dei propri agi sui social network. Dopo una prima ondata di manifestazioni, represse duramente dalla polizia, l’8 settembre sono riesplose le proteste, quando il governo ha deciso di bloccare temporaneamente l’accesso a più di venti social network. Rapidamente le proteste, organizzate su piattaforme come Discord, sono divenute violente e si sono abbattute sulle principali strutture del potere nepalese a Kathmandu. 

I manifestanti hanno preso d’assalto il Parlamento, la Corte Suprema, oltre che le residenze del presidente e le sedi del Partito Comunista del Nepal. Nei giorni seguenti il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli ha rassegnato le dimissioni e il testimone è passato nelle mani di Sushila Karki, giurista nota per la sua lotta alla corruzione e segnalata dai manifestanti come unica figura in grado di poter traghettare il Paese alle prossime elezioni.

Indonesia, il dissenso contro la militarizzazione

Proteste a Makassar, in Indonesia

Tra le proteste imperversate tra i Paesi del Sud Est asiatico, l’Indonesia ha raggiunto livelli di violenza e repressione militare eccezionalmente alti e allarmanti. In pochi giorni le attività della polizia hanno portato a 3000 arresti, venti persone risultano scomparse e l’utilizzo della violenza da parte delle autorità militari ha causato almeno otto morti accertati. Il fuoco della protesta è deflagrato il 25 agosto del 2025, quando i giovani, appoggiati dai sindacati, sono scesi per le strade di Jakarta e in particolare di fronte al Parlamento a manifestare contro l’approvazione di una legge che prevedeva l’aumento di benefici economici per i parlamentari del Paese. Gli stipendi di queste figure politiche superano i 100 milioni di rupie indonesiane (più di 5000 euro), di cui una parte è costituita da un bonus per l’alloggio. Queste cifre entrano in netto contrasto con le politiche attuate dal presidente indonesiano Prabowo Subianto che, in carica dall’ottobre del 2024, ha dato il via a una serie di misure di austerity finalizzate a contrastare l’aumento dell’inflazione attraverso profondi tagli a settori come la sanità e l’istruzione.  

Se da un lato i progetti economici di Prabowo hanno già deluso le aspettative, dall’altro la società indonesiana sta vivendo sulla propria pelle un aumento drastico della militarizzazione del Paese. È bene sottolineare che la figura del presidente è storicamente legata agli anni della dittatura in Indonesia, quando, sotto l’autorità di Suharto, Prabowo ricopriva il ruolo di comandante delle forze speciali indonesiane. Difatti, l’approvazione di alcune misure in ambito militare ha rapidamente attirato l’attenzione di coloro i quali hanno vissuto gli anni della dittatura. Nel marzo del 2025, Prabowo ha rimaneggiato l’articolo 47 della Costituzione, applicando un aumento dell’età pensionabile per il personale militare e l’accesso agli incarichi civili da parte delle forze militari. Tra questi ruoli spiccano lasegreteria di Stato, la procuratoria generale e l’antiterrorismo. Se la prima ondata di proteste è stata repressa con violenza dalle autorità, l’approvazione di una nuova misura che raddoppia l’indennità dei parlamentari per le vacanze sta innalzando nuovamente il livello di tensione tra i manifestanti.  

Mongolia, si dimettono due presidenti

Proteste di fronte al palazzo del governo a Ulaanbaatar, in Mongolia

Tra le manifestazioni contro la corruzione che hanno animato i giovani di vari Paesi dell’Asia, sicuramente le proteste in Mongolia hanno trovato poco spazio nella stampa generalista italiana. Anche in questo caso, la popolazione è scesa in piazza in seguito a scandali di corruzione legati alla classe politica a capo del Paese. Nel maggio del 2025 sono state organizzate altre manifestazioni in occasione di scandali emersi attraverso i social network della famiglia presidenziale. Il casus belli riguarderebbe alcuni regali di lusso fatti dal figlio del presidente Oyun-Erdene Luvsannamsrai alla propria fidanzata, elemento che metterebbe in evidenza le ricchezze della famiglia al governo e sottolineerebbe così le profonde disuguaglianze tra le élite del Paese e il resto della popolazione. Eletto nel 2024, Luvsannamsrai raggiunse la presidenza grazie a un’alleanza tra il suo Partito Popolare e il Partito Democratico, avversario durante le elezioni.

Le proteste, che si sono svolte in maniera prevalentemente pacifica, hanno raccolto il plauso di alcuni deputati democratici: proprio questo elemento ha portato all’esclusione del partito dalla coalizione di governo e, di conseguenza, alla proposta di una mozione di fiducia nei confronti del presidente Luvsannamsrai. Nonostante il capo del governo abbia negato ogni coinvolgimento con i casi di corruzione, il 3 giugno scorso si è visto costretto a rassegnare le dimissioni in seguito all’insuccesso della mozione di fiducia. 

Dopo soltanto quattro mesi, il 10 ottobre del 2025, anche il neopresidente Gombojav Zandanshatar è stato sfiduciato dal parlamento con l’accusa di aver nominato unilateralmente il nuovo ministro della Giustizia e degli Affari Interni, contravvenendo alla Costituzione. 

Marocco: più ospedali, meno stadi

Le proteste dei giovani marocchini contro le politiche di Rabat

Anche i giovani marocchini stanno scendendo in piazza da settimane per protestare contro il sistema. Tutto ha avuto inizio a fine settembre del 2025, quando, dopo la diffusione di una notizia riguardante le morti di otto partorienti nell’ospedale Hassan II di Agadir, migliaia di giovani si sono radunati nelle piazze principali delle più grandi città marocchine per manifestare contro le politiche di Rabat. Le immagini delle condizioni in cui versano molti degli ospedali pubblici hanno acceso un sentimento di profonda ingiustizia in una popolazione che denuncia gravi lacune in ambito sanitario, profonde disuguaglianze economiche, un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 37% e una condizione di totale abbandono delle aree più periferiche del Paese. 

A questo si aggiunge l’organizzazione della Coppa d’Africa del 2025 e dei Mondiali di calcio del 2030, che, come reclamato dai giovani manifestanti, sta mettendo in evidenza l’interesse da parte del governo di concentrarsi su tematiche futili, invece di intervenire sulle condizioni critiche in cui versano i principali settori pubblici del Paese. Come in Nepal, le proteste sono state organizzate su piattaforme social come Discord e Instagram, sotto il nome di GenZ212 e Moroccan Youth Voices. Le manifestazioni sono rapidamente dilagate in tutto il territorio e, come denunciato da vari collettivi impegnati nella tutela dei diritti umani, le forze di polizia hanno represso fin da subito ogni forma di dissenso, attaccando con violenza sproporzionata i giovani manifestanti e uccidendo tre persone. Gli arresti sarebbero oltre duemila, novecento le accuse di crimini di vario genere. Nonostante le proteste, il multimiliardario primo ministro e sindaco di Agadir Aziz Akhannouch ha sorvolato sulle ragioni delle manifestazioni, mentre il re Mohammed VI ha invitato il governo ad approvare riforme sociali, senza però mai accennare all’eventualità di dimissioni per il presidente Akhannouch. 

Perù, la repressione infiamma le proteste

Anche nel caso del Perù, le proteste si sono concentrate dopo l’approvazione, da parte del governo di Dina Boluarte, di una legge legata al sistema pensionistico del Paese. Secondo quanto previsto da questa misura, tra le altre cose, i pensionati di età inferiore ai 40 anni non avrebbero potuto più accedere al 95,5% dei fondi accumulati fino al momento. Spontaneamente, dal 13 settembre, vari manifestanti, ispirati dalle immagini provenienti dal Nepal e dall’Indonesia, hanno iniziato a riunirsi nelle vie del centro della capitale Lima e, nei giorni successivi, le proteste si sono diffuse in varie città del Paese, interessando specialmente i giovani. Fin da subito la polizia ha attaccato con violenza i manifestanti, ferendo anche vari giornalisti, ma la repressione non ha fatto altro che innalzare il livello della tensione sociale. 

Il 9 ottobre il Congresso della Repubblica ha destituito Dina Boluarte, per poi trasferire l’incarico al conservatore José Jerí, accusato, tra le altre cose, di aggressione sessuale e arricchimento illecito. L’assunzione dell’incarico da parte del nuovo presidente non ha fatto che aizzare le proteste, che il 15 di ottobre si sono svolte simultaneamente in più di quindici città peruviane. Anche in questo caso la polizia ha represso brutalmente i manifestanti, ferendone a decine, mentre a Lima un agente di polizia avrebbe ucciso il musicista Mauricio Ruíz, noto con il nome d’arte Trvko. L’uccisione di Ruíz ha innescato una spirale di rabbia tra i manifestanti, che la stessa sera si sono radunati davanti alla sede del Congresso della Repubblica e del Palazzo del Potere giudiziale e hanno iniziato a lanciare sassi contro le rispettive sedi del potere peruviano. 

Il termine «Gen Z» per celare la lotta di classe

Sebbene sia indubbio che i principali fautori di questa nuova ondata di proteste siano i giovani appartenenti alla generazione nata a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, è interessante notare come la stampa occidentale abbia rapidamente etichettato le proteste attraverso la dicitura «Gen Z», senza sottolineare che nella quasi totalità dei casi si tratta di manifestazioni indette dalle fasce più colpite dalle disuguaglianze sociali e dalla disoccupazione. Come affermato da Wlliam Shoky, redattore della rivista online Africa is a Country, l’attenzione rivolta dai media sull’età dei manifestanti sembra avere il fine di depoliticizzare delle proteste che invece denunciano le nefandezze di sistemi politici ed economici chiaramente definiti.  

Proteste per la Palestina a Roma

Se da un lato i media generalisti scelgono di soffermarsi sulla presenza tra i manifestanti di bandiere con il Jolly Roger, il teschio tratto dal fumetto giapponese One Piece, con l’intenzione di trasformare le proteste in elementi di costume giovanile, dall’altro sembra essere messa in atto dalla stessa stampa un’operazione di profonda delegittimazione del movimento, che, nella sua essenza, vuole soppiantare un sistema ereditato da politiche messe a punto dalle generazioni precedenti. Se si vuole tracciare un filo rosso tra queste manifestazioni, è necessario, chiaramente, includere anche le proteste che si stanno verificando in Italia e in molte città europee contro il genocidio in Palestina, perché fondate sull’ingiustizia sofferta davanti all’impunità di cui gode Israele. La rabbia che sta animando simultaneamente migliaia di giovani in varie parti del mondo è il risultato di un sistema politico ormai fallito. Queste proteste stanno dimostrando la forza di una popolazione schiacciata da decenni di disuguaglianze istituzionali; limitarle alla dicitura «Generazione Z» potrebbe essere fin troppo riduttivo. 

Gb: accoltellamento su treno nel Cambridgeshire, due arresti

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Una violenta aggressione a bordo di un treno diretto a Huntingdon, nel Cambridgeshire, ha provocato almeno dieci feriti. L’allarme è scattato alle 19:39, quando la British Transport Police ha ricevuto la segnalazione di un’aggressione a bordo del convoglio. Due persone sono state arrestate dalla polizia ferroviaria britannica, intervenuta con oltre trenta agenti armati e numerosi mezzi di soccorso. Il premier Keir Starmer ha definito l’attacco “scioccante e inaccettabile”, assicurando il pieno sostegno alle forze dell’ordine e alle vittime.

Il Cairo, inaugurato il più grande museo egizio al mondo

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Oggi al Cairo è stato inaugurato, dopo oltre vent’anni di lavori, il più grande museo egizio al mondo. La nuova struttura, che mette insieme decine di migliaia di reperti dell’antica civiltà egizia, è costata un miliardo di dollari e si estende su circa 500mila metri quadri, con una vista panoramica sulle piramidi. La cerimonia d’apertura, alla presenza di decine di delegati provenienti da tutto il mondo, si è tenuta in una Cairo blindata e semideserta.

 

 

Tanzania: enormi proteste contro il governo, l’esercito fa centinaia di morti

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In Tanzania la presidente Samia Suluhu Hassan, al potere dal 2021, ha vinto le elezioni con il 98% dei voti. Il processo che ha portato al suo secondo mandato è stato accompagnato da accuse di brogli e repressione, con un bilancio di vittime ancora incerto, complice il blocco di internet che si è abbattuto sul Paese africano. Le opposizioni — i cui leader sono stati esclusi dalla corsa elettorale — denunciano almeno 700 morti causati dall’esercito, chiamato a sedare i disordini scoppiati in Tanzania contro la presidente Samia Suluhu Hassan. La stima è confermata anche da altri fonti, mentre il governo minimizza e parla di «poche sacche isolate di incidenti» gestite dalle forze di sicurezza.

Mercoledì era giorno di elezioni in Tanzania. Alle urne si presentava Samia Suluhu Hassan — presidente e leader del Chama Cha Mapinduzi (CCM), il partito che guida il Paese dal 1977 — affrontata da una serie di avversari minori, dal momento che gli sfidanti principali (Tundu Lissu e Luhaga Mpina) erano stati esclusi dalla corsa elettorale. In diverse città, inclusa la capitale Dodoma, gruppi di manifestanti hanno protestato contro la presidente, denunciando brogli e repressione. Cortei, autobus incendiati, seggi assaltati: la mobilitazione guidata dai giovani è stata soffocata dalle forze di sicurezza. Alla protesta si è unita anche la comunità Maasai (non nuova alle manifestazioni antigovernative), schieratasi contro i piani del governo consistenti nella svendita delle loro terre ancestrali a investitori privati.

Una prima stima dell’ONU parlava di almeno una decina di vittime, ma il passare delle ore e il moltiplicarsi delle fonti — nonostante il blocco di internet e il coprifuoco imposti dal governo — lascia presagire un bilancio più sanguinoso, di centinaia di morti. «Le autorità hanno la responsabilità costituzionale di rispettare i diritti umani di tutti, prima, durante e dopo le elezioni», ha dichiarato Tigere Chagutah, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale. Chagutah ha poi esortato la Tanzania a «condurre un’indagine approfondita e indipendente sull’uso illegale della forza contro i manifestanti». Gli ha fatto ecco il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, invitando tutte le parti alla calma per evitare una nuova ondata di violenza.

Gas, le scorte in Italia arrivano al 95%

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Le scorte di gas crescono in Europa, grazie alle temperature più miti rispetto alle medie che consentono di rifornire i depositi. L’Italia primeggia con stoccaggi pari quasi al 95%, per una capacità di 192,49 TWh. A livello europeo, le scorte hanno raggiunto l’82,82% del totale, per una capacità complessiva di 1.092 TWh. Il prezzo del gas è in linea con le rilevazioni di febbraio 2024 (30,58 euro al MWh).

Dal 12 novembre per entrare nei siti porno bisognerà dimostrare di essere maggiorenni

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Dal 12 novembre scatterà l’obbligo di identificazione per l’accesso ai siti porno, al fine di dimostrare la maggiore età. A disciplinare il nuovo obbligo è una delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), attuativa del decreto Caivano, che tra le altre cose ha introdotto il divieto per i minori di accedere a contenuti pornografici. L’AGCOM ha così individuato 48 siti — a partire dai più famosi, come PornHub, Youporn e Xvideos — che entro il 12 novembre dovranno dotarsi di un sistema di controllo, affidato ad aziende esterne, per verificare l’età dei visitatori. Di fronte al rischio della violazione della privacy, l’AGCOM ha provato a tranquillizzare gli italiani ricorrendo al principio del “doppio anonimato”, un meccanismo che punta a minimizzare i dati raccolti e a limitarne le finalità, non azzerando però il rischio insito nel ricorso alle tecnologie di controllo.

Il 12 novembre si chiuderà il cerchio aperto dal governo Meloni con l’approvazione del decreto Caivano, che nel 2023 ha introdotto il divieto per i minori di accedere a contenuti pornografici, in quanto minano “il rispetto della loro dignità e compromette il loro benessere fisico e mentale, costituendo un problema di salute pubblica“, come scritto nell’articolo 13-bis del decreto-legge. Ad attuare questo punto è stata una delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), approvata in primavera con una scadenza di adeguamento — pena sanzioni progressive fino al blocco dell’accesso in Italia — fissata appunto al 12 novembre. Da quella data, i visitatori di siti vietati a minori (oltre a quelli pornografici la stretta riguarderà anche i siti di scommesse e di vendita di alcolici o sigarette) dovranno identificarsi su un’app o un portale attraverso la scansione di un documento, la quale genererà l’autorizzazione necessaria ad accedere. Questo processo seguirà, nelle intenzioni dell’AGCOM, il meccanismo del “doppio anonimato”, con l’obiettivo di limitare i dati raccolti dalle aziende di controllo alla sola età dell’utente, “dimenticando” le altre informazioni. In questo modo, il sito pornografico non dovrebbe conoscere l’identità del visitatore e l’app di controllo non dovrebbe essere in grado di risalire alla sua attività di ricerca. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che i rischi legati alla profilazione e alla violazione della privacy non sono nulli. Sul sistema che vieta di conservare le copie dei documenti forniti e incrociare dati, suscettibile di essere manomesso, veglieranno l’AGCOM e il Garante per la protezione dei dati personali.

Quella della sorveglianza non è l’unica questione sul tavolo. Come successo altrove per casi analoghi, la misura dovrebbe infatti essere aggirabile con una semplice Rete Privata Virtuale (VPN), il cui utilizzo è sempre più diffuso tra i giovani, gli stessi su cui si è abbattuto il controllo voluto dal governo Meloni. Non a caso nelle ultime ore, le ricerche con oggetto VPN, 12 novembre e AGCOM hanno visto un’impennata, come dimostrano i dati disponibili su Google Trends.

I super-ricchi emettono quattromila volte la Co2 del 10% più povero del mondo

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Ogni super-ricco emette quattromila volta l’anidride carbonica di una persona che fa parte della fascia meno abbiente della popolazione, è quanto emerge dall’ultimo rapporto Oxfam, che dimostra come le diseguaglianze economiche abbiano grandi conseguenze anche dal punto di vista ambientale. Così, mentre la politica spesso si concentra nel colpire le auto vecchie di chi non può permettersi di cambiarla o le stufe a legna, scopriamo che il principale problema per le emissioni sono i jet privati dei paperoni, che solcano liberamente i cieli sopra alle teste delle persone normali.

Nello specifico, l’analisi di Oxfam rivela che il 10% più abbiente della popolazione mondiale è responsabile del 48% delle emissioni globali di CO₂, mentre la metà più povera dell’umanità ne produce appena l’8%. Ma sono i vertici della piramide a inquinare in modo sproporzionato: una persona appartenente all’1% più ricco emette in media 75 tonnellate di CO₂ all’anno, contro le 0,2 tonnellate di una persona nel 10% più povero. Questo significa che i più ricchi emettono 375 volte di più dei più poveri. E lo 0,1% superiore, con 298 tonnellate pro capite, arriva a emettere quasi quattromila volte tanto.

La differenza è ancor più smaccata se si considera l’uso del cosiddetto “carbon budget”, la quantità di CO₂ che, secondo gli studi, ogni abitante del pianeta avrebbe a disposizione per rispettare i limiti stabiliti dai Trattati per il clima. Dal 1990, l’1% più ricco ha consumato da solo il 15% di questo budget globale. Le emissioni dirette, però, sono solo la punta dell’iceberg. I super-ricchi possiedono, controllano e investono nelle corporation più inquinanti. Oxfam ha calcolato che nel 2024 le emissioni legate agli investimenti di 308 miliardari – derivanti dalle società di cui possiedono almeno il 10% – hanno totalizzato 586 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, più delle emissioni combinate di 118 paesi. Se fossero una nazione, si classificherebbero come il quindicesimo paese più inquinante al mondo. In media, le emissioni di investimento pro capite annuali di un miliardario sono 1,9 milioni di tonnellate di CO₂e, che è 346mila volte superiore a quelle della persona media. Quasi il 60% dei loro investimenti è in settori ad alto impatto climatico, come i combustibili fossili.

Questo potere economico si traduce in un’influenza politica schiacciante. Le grandi multinazionali inquinanti spendono miliardi in attività di lobbismo per indebolire le politiche che vorrebbero imporre un tetto alle loro emissioni. Alla COP29, spiega il rapporto, «1.773 lobbisti del carbone, del petrolio e del gas hanno avuto accesso», un numero superiore a tutte le delegazioni nazionali tranne tre. Inoltre, meccanismi opachi come l’ISDS permettono alle aziende di citare in giudizio gli Stati che introducono normative ambientali, con cause che spesso colpiscono i paesi più poveri.

Sottolineando che il futuro del pianeta dipende dalla capacità di fermare il «saccheggio climatico» di una piccola élite, Oxfam avanza raccomandazioni chiare per invertire tale pericolosa rotta: tassare la ricchezza e i redditi elevati, imporre tributi sulle attività e i beni di lusso ad alto impatto (yacht, jet privati), tassare gli extra-profitti delle grandi aziende e riformare i meccanismi di regolazione finanziaria per evitare che il capitale continui a finanziare nuovi progetti fossili. Serve anche limitare l’influenza politica dei grandi investitori, vietando donazioni e attività lobbistiche dei maggiori inquinatori.

Creta, sparatoria a Vorizia: morti e feriti

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Spari con morti e feriti sono avvenuti sabato mattina a Vorizia, nel comune di Phaistos, sull’isola greca di Creta. Secondo i media locali, un gruppo armato ha aperto il fuoco nel villaggio, uccidendo almeno due persone — un uomo di 35 anni e una donna — e ferendone circa 15. L’attacco potrebbe essere una rappresaglia per l’esplosione di un ordigno avvenuta la sera precedente in una casa in costruzione della zona. Polizia e soccorsi sono intervenuti sul posto e le indagini sono in corso. Le autorità non hanno fornito dettagli né confermato eventuali arresti.