lunedì 24 Novembre 2025
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Roma, è morta l’ex brigatista Anna Laura Braghetti

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È morta a 72 anni, dopo una lunga malattia, Anna Laura Braghetti, ex militante della colonna romana delle Brigate Rosse e figura chiave del sequestro di Aldo Moro. Fu lei ad affittare e abitare l’appartamento di via Montalcini, a Roma, dove il presidente della Democrazia Cristiana fu tenuto prigioniero per 55 giorni nel 1978. Dopo la morte di Moro, Braghetti partecipò a diverse azioni armate, tra cui l’uccisione dei poliziotti Antonio Mea e Piero Ollanu e dell’allora vicepresidente del CSM Vittorio Bachelet. I funerali si terranno in forma privata, come comunicato dalla famiglia.

A Tulkarem, tra i 40.000 palestinesi a cui Israele impedisce di tornare a casa da 9 mesi

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TULKAREM – Palestina occupata. «La mia casa è stata completamente demolita, e non me l’hanno nemmeno detto. Non ho potuto recuperare nulla», dice Amira a L’Indipendente, mentre decine di persone del campo profughi di Nur Shams si radunano nell’area di Jabal al-Nasr per iniziare la protesta in direzione del campo profughi, sgomberato e occupato dai militari israeliani da inizio febbraio. È mezzogiorno del 5 novembre, l’ora che molti residenti si sono dati per incontrarsi e tornare a pretendere i propri diritti. «Sono qui per stare con la mia gente, per lottare insieme affinché possano tornare alle proprie case. Molte abitazioni sono state distrutte, ma altre no, e le persone non possono permettersi di pagare l’affitto, l’acqua, l’elettricità. Vogliamo tornare a casa».

Nur Shams è uno dei due campi profughi di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania occupata. Dal 27 gennaio l’esercito israeliano ha cominciato una violenta aggressione ai campi profughi della città, obbligando decine di migliaia di persone a lasciare le proprie case, in quella che Israele ha dichiarato essere un’operazione antiterrorismo che doveva durare pochi giorni. Sono passati oltre 9 mesi e i profughi dei tre refugee camp occupati – Tulkarem Camp, Nur Shams e Jenin Camp – sono almeno 40mila; centinaia le case totalmente o parzialmente distrutte, così come negozi, scuole, tutte le strade e molte delle infrastrutture elettriche e idriche.

La piccola manifestazione parte in direzione del campo; nemmeno trecento metri dopo, due jeep militari ci vengono incontro e scendono vari soldati. Dai mezzi un militare tiene il fucile puntato sulla folla. Il messaggio è chiaro: se continuate a camminare, spariamo. Il gruppo, si ferma. «Quella è la mia casa» una donna indica la prima abitazione che sorge davanti a noi, dietro la linea degli israeliani. Gli occhi, neri, sono pieni di tristezza. «L’hanno resa una delle loro basi militari».

Il campo profughi sembra essere diventato un terreno di esercitazione per i soldati di Tel Aviv: a parte qualche centinaia di persone che continuano a vivere ai bordi estremi del campo, non c’è più nessun residente, forzato dietro la minaccia delle armi ad andarsene. Eppure si sentono quotidianamente centinaia di spari. Secondo la testimonianza di alcuni ex prigionieri, varie case vengono utilizzate come caserme dove i militari detengono e interrogano le persone arrestate.

I soldati minacciano di aprire il fuoco se non si torna indietro. Pretendono che solo tre uomini rimangano a parlamentare con loro. La piccola folla arretra di una cinquantina di metri; tre persone restano a discutere con i soldati.

Yousef ha dodici anni. La sua famiglia ha dovuto lasciare la propria casa nell’ottobre del 2024, perché troppo danneggiata da uno dei numerosi raid israeliani che quasi settimanalmente invadevano il campo profughi distruggendo strade, case e infrastrutture. Si era trasferita in un’area del campo più sicura, fino a quando è cominciata l’operazione Iron Wall. «Ci hanno sgomberato il 29 gennaio, e da allora siamo senza casa» dice a L’Indipendente. «Siamo qui per chiedere i nostri diritti e per poter tornare a casa. La sofferenza è enorme, soffriamo ogni giorno fuori dalle nostre case». Migliaia di famiglie, ritrovatesi per strada, sono state ospitate prima dai parenti, in moschee e scuole; poi, hanno dovuto trovare alloggi in affitto. Le difficoltà economiche sono evidenti, soprattutto in un periodo in cui il lavoro scarseggia e i prezzi non fanno che aumentare.

Sono almeno 10mila le persone sgomberate dal campo profughi di Nur Shams; 15mila quelle sfollate da Tulkarem Camp, e almeno altrettante coloro che hanno dovuto lasciare la propria casa a Jenin refugee camp. L’Operazione Iron Wall è cominciata a Jenin il 21 gennaio, appena tre giorni dopo il primo cessate-il-fuoco, ed è stata allargata a Tulkarem il 27 gennaio. L’occupazione di Nur Shams è iniziata qualche giorno dopo. In questi 9 mesi sono almeno 600 le case distrutte nei due campi di Tulkarem, e 2573 quelle parzialmente danneggiate. 14 le persone uccise in città, tra cui un bambino e due donne, una delle quali incinta di otto mesi. Decine i feriti e centinaia le persone arrestate.

Israele giustifica l’operazione come antiterrorismo e da due anni impegna centinaia di uomini per eliminare ogni forma di resistenza armata che si è sviluppata nel cuore dei campi profughi del nord della Cisgiordania occupata. Le Brigate cittadine di Tulkarem e Jenin, nate per opporsi alle violente incursioni israeliane nei propri quartieri e all’avanzare dell’occupazione sionista, avevano visto aumentare i propri effettivi proprio come risposta al genocidio in corso a Gaza e ai continui attacchi dei militari di Tel Aviv in Cisgiordania. Come risposta, Israele ha voluto “punire” tutta la popolazione che aveva osato resistere e ospitare la resistenza armata. Rendendo inabitabili i campi profughi, e causando una nuova, piccola Nackba. Pochi giorni fa Tel Aviv ha dichiarato che l’Operazione continuerà fino al 31 gennaio 2026.

I tre uomini rimasti a discutere con i soldati tornano, la folla si avvicina ad ascoltare. I militari dicono che non se ne andranno finché l’UNRWA – la stessa agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi contro cui Israele sta lottando da anni – non sarà nel campo e finché l’Autorità palestinese non ricostruirà le strade. Una nuova presa in giro, che nessuno ha voglia di assecondare. Piano piano il gruppo si disperde. Ma tornerà a manifestare.

Em Muhanna, la “madre di Muhanna”, riassume così la storia: «Quello che è successo è che i giovani del campo hanno deciso di stare al fianco delle persone di Gaza, come ogni essere umano libero farebbe. L’occupazione israeliana ha deciso di scatenare una punizione collettiva per tutte le persone del campo; stiamo pagando un prezzo molto alto per essere stati al fianco di Gaza. Ci hanno distrutto le case, le strade, le infrastrutture, hanno ucciso molte persone e ne hanno arrestate moltissime altre. Ma comunque, il prezzo pagato non è comparabile con il sangue pagato dalle persone di Gaza, che Dio le protegga. Vogliamo tornare alle nostre case. Abbiamo sempre lavorato per la nostra sopravvivenza: non vogliamo la carità di nessuno. Vogliamo solo poter tornare a casa».

Sciopero nazionale dei farmacisti dipendenti

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Oggi, 6 novembre 2025, circa 60.000 farmacisti e dipendenti delle farmacie private convenzionate incrociano le braccia per 24 ore, aderendo allo sciopero nazionale indetto da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs. La protesta riguarda il mancato rinnovo del contratto collettivo nazionale, scaduto il 31 agosto 2024, e la richiesta di un adeguamento salariale considerato insufficiente rispetto alle responsabilità e al ruolo professionale svolto. I sindacati denunciano la chiusura di Federfarma e chiedono maggior riconoscimento del valore dei farmacisti dipendenti, migliori condizioni di lavoro e formazione, e una reale evoluzione verso la “farmacia dei servizi”. Garantiti i servizi minimi nelle farmacie di turno.

Crosetto spinge sul riarmo: “Servono una riforma dell’esercito e 30mila soldati in più”

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Per garantire un’adeguata difesa del Paese servirebbe disporre di un esercito con un contingente di almeno 200 mila uomini, ma in Italia ve ne sono “solamente” 170 mila. È quanto ha dichiarato il ministro della Difesa Crosetto durante una puntata della trasmissione 5 minuti, in onda su RAI 1. Secondo il ministro, infatti, l’Italia si trova ad affrontare scenari di rischio che fino a cinque anni fa «non erano prevedibili» e, per tale motivo, vanno aumentate le risorse destinate alla Difesa, anche in termini di uomini.

Secondo quanto dichiarato dal ministro, «il modello della legge 244 prevede 170 mila uomini» ed è stato pensato «in uno scenario dove l’Italia avrebbe al massimo partecipato a missioni internazionali, come quella in Afghanistan». Tuttavia, «la situazione che stiamo vivendo adesso ci impone a prepararci a scenari che fino a cinque anni fa non erano prevedibili: questo vuol dire avere più personale, perchè serve anche capacità di farlo ruotare, e servono regole diverse di reclutamento». La legge alla quale fa riferimento il ministro è la n. 244 del 2012 (la cosiddetta “legge Di Paola”), emanata dunque appena 13 anni fa, la quale puntava a ridimensionare notevolmente le dimensioni dell’apparato generale italiano entro il 2024, tanto in termini di personale – civile e militare – quanto in quelli delle strutture. L’obiettivo esplicito era quello di «realizzare uno strumento militare di dimensioni più contenute, ma più sinergico ed efficace nell’operatività e pienamente integrato e integrabile nel contesto dell’Unione Europea e della NATO». Così, oltre a una riduzione complessiva del 30% di tutte le strutture logistiche, operative, territoriali e periferiche, e un riequilibrio generale del Bilancio della Funzione Difesa, era prevista anche una riduzione del personale militare (da 190 mila a 150 mila unità) e di quello civile (da 30 mila a 20 mila unità).

Già a partire dal 2020 (in piena pandemia da Covid 19), tuttavia, era in preparazione un processo di riforma della legge che puntava ad aumentare l’organico, in ragione «dell’aumento degli impegni che le Forze Armate devono sostenere in Italia e all’estero», e il differimento della scadenza al 2024, secondo quanto dichiarato nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato. Il tutto, nonostante «le necessità generate dalla situazione economica radicalmente mutata nel 2020 per la pandemia da Covid 19». Attualmente, secondo il ministro, l’incremento necessario sarebbe «di 30 mila unità in più», tenendo anche conto del fatto che «i tedeschi ne hanno 260-280 mila».

Le risorse, dunque, sembrano non bastare mai, anche se nel 2026 l’Italia spenderà la cifra più alta di sempre per la Difesa: 34 miliardi di euro complessivi, con un incremento di 1 miliardo in un solo anno e del 45% in appena 10 anni. E la cifra, calcolata in base alle stime dell’Osservatorio MilEx, non tiene conto delle uscite per la sicurezza nazionale in senso più ampio, la quota complementare che la NATO inserisce nel target complessivo del 5% del PIL (cybersicurezza, sicurezza infrastrutturale, mobilità militare e così via). Nel frattempo, gli altri capitoli di spesa vedono effettuati tagli netti, col governo che cerca dichiaratamente di assecondare i parametri europei per uscire dalla procedura d’infrazione per l’eccessivo disavanzo finanziario. Così, in Italia la spesa sanitaria è ben al di sotto della media UE, collocando il nostro Paese all’ultimo posto tra quelli del G7 e al 14° tra i Paesi OCSE. Un discorso analogo vale per l’istruzione, con l’Italia che (secondo le elaborazioni della FLC CGIL su dati Eurostat) si qualifica come il Paese UE che ha la spesa più bassa in assoluto rispetto alla spesa pubblica totale (il 7,3%, rispetto alla media UE del 9,6%) e terz’ultima rispetto al PIL (3,9%, rispeto alla media UE del 4,7%).

Il Parlamento polacco ha vietato gli allevamenti di animali da pelliccia

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Con 339 voti a favore, 78 contrari e 19 astensioni, il Parlamento polacco ha approvato una legge che vieta l'esistenza di allevamenti di animali da pelliccia, rendendo così la Polonia il 23° Paese dell'Unione Europea a prendere misure in questo senso. Si tratta di un notevole passo avanti nella tutela degli animali, considerato che la Polonia è il terzo più grande produttore al mondo di pellicce (dopo la Cina e la Danimarca), con circa 3,5 milioni di animali uccisi ogni anno per trasformarli in capi alla moda. La legge tutelerà visoni, volpi e procioni, ma non comprende i conigli. Per diventar...

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Gli USA hanno presentato il loro piano coloniale per il futuro di Gaza

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Gli Stati Uniti d’America hanno presentato ai Paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione che delinea i prossimi passi del piano di colonizzazione di Gaza. Il progetto intenderebbe istituire una Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) con i compiti di smilitarizzare la Striscia, amministrarne la sicurezza, addestrare un corpo di polizia palestinese, e gestire il flusso degli aiuti umanitari, ma non esclude di attribuirle «compiti aggiuntivi, se necessario». La ISF resterebbe in carica due anni, verrebbe istituita sotto l’egida del corpo di pace presieduto da Trump con la partecipazione di Tony Blair, e opererebbe «in stretta consultazione e cooperazione con Israele ed Egitto». Un piano, precisano i quotidiani israeliani, dichiaratamente rivolto a «imporre» le condizioni della pace, e non a mantenerla. Parallelamente gli USA hanno avanzato ai Paesi del Golfo un piano per la ricostruzione della «Nuova Gaza», che prevedrebbe di cominciare i lavori dalle aree sotto il controllo delle IDF.

I dettagli sul piano statunitense per Gaza sono ancora pochi. Sono stati discussi e riportati dal quotidiano israeliano Jerusalem Post e dal sito di informazione statunitense Axios, che ne hanno visionato una bozza. Esso parte da quello che è uno dei tasselli fondamentali del piano a venti punti di Trump per Gaza proposto e accettato dalle parti lo scorso ottobre: la forza che dovrebbe gestire gli affari interni della Striscia. Hamas si è detto pronta ad abbandonare il proprio ruolo nella gestione di Gaza per lasciare spazio a un organismo democraticamente eletto dal popolo palestinese, ma la ISF rimanderebbe di almeno due anni l’istituzione di un simile corpo. Il mandato biennale dell’ISF sarebbe infatti rinnovabile consultando il Consiglio di Sicurezza. La forza è descritta come un corpo multinazionale a cui prenderebbero parte diversi Paesi, ancora ignoti; essa opererebbe sotto il vaglio del board of peace, il corpo di pace che Trump vuole creare – e presiedere di prima mano – facendovi partecipare l’ex premier britannico Tony Blair; le scelte dell’ISF sarebbero prese in concerto tra Israele ed Egitto, escludendo dunque i palestinesi dal governo. L’organismo lavorerebbe inoltre al fianco di una «forza di polizia palestinese» addestrata dallo stesso Stato ebraico.

Il mandato dell’ISF includerebbe «la supervisione della smilitarizzazione della Striscia di Gaza attraverso la distruzione delle infrastrutture terroristiche e militari, impedendone la ricostruzione e garantendo il disarmo permanente dei gruppi armati non statali», si legge nel JP. Inoltre, l’ISF avrebbe il compito di «proteggere i civili, supportare le operazioni umanitarie, fornire addestramento e assistenza alla polizia palestinese e coordinarsi con i Paesi interessati per garantire i corridoi umanitari». Il piano non esclude che alla forza vengano assegnati ulteriori compiti. Lo scopo dichiarato è quello di «imporre» la pace; nessuna forza di peacekeeping, ma un corpo legalmente riconosciuto rappresentato da una sola parte – quella israeliana. Con l’istituzione della ISF, insomma, gli USA vorrebbero appaltare Gaza a una gestione israeliana. Nel frattempo, l’Autorità Nazionale Palestinese porterebbe avanti un percorso di riforma e ristrutturazione interna per eventualmente un giorno prendere in mano la Striscia.

Il piano per istituire la ISF dovrebbe venire presentato ufficialmente dagli USA nei prossimi giorni. Parallelamente, gli Stati Uniti avrebbero presentato ai Paesi del Golfo un ulteriore progetto per la ricostruzione parziale della Striscia. A dare la notizia è stato il quotidiano Times of Israel, che, citando funzionari arabi, spiega che il piano «prevede la costruzione di circa una mezza dozzina di aree residenziali nella metà orientale della Striscia, attualmente sotto il controllo israeliano»; il piano partirebbe in particolare dalle aree nel Governatorato di Rafah, che risulta quasi interamente sotto il controllo delle IDF da tempo. Il progetto statunitense prevedrebbe che i palestinesi si trasferiscano nelle aree residenziali della «Nuova Gaza» – così viene definito il progetto tra i funzionari statunitensi -, che dovrebbero venire edificate di qui ai prossimi due anni. I tempi, insomma, coinciderebbero con quelli del mandato dell’ISF; sebbene il piano di Trump preveda il ritiro graduale delle truppe israeliane – che verrebbe portato avanti parallelamente al processo di smilitarizzazione della Striscia – il quotidiano israeliano specifica che non è detto che i soldati israeliani abbandoneranno la loro postazione entro tale data. I cittadini, insomma, potrebbero essere costretti a vivere in aree sotto occupazione militare israeliana.

USA: investimento da 1,4 miliardi in terre rare

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Gli Stati Uniti hanno investito 1,4 miliardi di dollari per ampliare l’accesso del Paese alle terre rare, materiali necessari per produrre componenti tecnologiche di diversa natura. L’investimento riguarda Vulcan Elements e ReElement Technologies, due startup attive rispettivamente nella produzione di magneti, e nei minerali e nel riciclo delle batterie. L’investimento dovrebbe consentire le aziende di aumentare la loro produzione a circa 10.000 tonnellate di materiale. Esso segue analoghi investimenti promossi da Trump nel corso dell’ultimo anno in quello che risulta un mercato dominato dalla Cina.

Il grande inquisitore: la letteratura russa per capire il controllo e il potere

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Se ripercorressimo la storia degli ultimi anni, con la sua litania di guerre non volute o al contrario appoggiate e finanziate, come per il genocidio della Palestina, senza il consenso della popolazione, non potremmo fare a meno di domandarci: in che modo siamo stati persuasi ad approvare con il nostro tacito assenso guerre, leggi e misure che vanno contro i nostri stessi interessi? Come riesce, di volta in volta, l’Autorità a convincerci che il riarmo è necessario, che le guerre siano inevitabili, che certe ingiustizie siano questioni troppo complesse e al di là della portata della nostra comprensione? E perché la gente sembra incapace di reagire? 

C’è un passo all’interno de I fratelli Karamazov di Dostoevskij che risponde a queste domande. Sto parlando de Il grande inquisitore, un capitolo che racchiude le pagine più sconcertanti di tutta la letteratura mondiale, pagine che spiegano perfettamente come e perché la gente venga assoggetta a un regime, a un governo o a qualsiasi tipo di casta che eserciti il potere. 

Il grande inquisitore è ambientato nel Cinquecento, in Spagna. Un vecchio inquisitore di quasi novant’anni visita un uomo tenuto prigioniero nelle segrete. Quell’uomo è Cristo, tornato sulla Terra per una seconda volta. Il vecchio lo ha riconosciuto e proprio per questo lo ha fatto arrestare: «Perché mai sei venuto a disturbarci? […] domani io Ti condannerò e Ti farò bruciare sul rogo, come il più malvagio degli eretici».

Potrei dirvi che Dostoevskij da cristiano ortodosso odiava la Chiesa romana, il papato e i gesuiti, ecco perché dipinge in modo tanto fosco questo inquisitore, pronto a mandare al rogo perfino Cristo. Potrei dirvi che questo vecchio si vanta di aver ingannato gli uomini. «Noi,» confessa (e qui parafraso), «diciamo di agire in Tuo nome, ma non è vero. Abbiamo ingannato gli uomini, li abbiamo allontanati dal Tuo messaggio. Tu parlando di libertà e amore e della comprensione che nasce dalla sofferenza, hai lasciato al mondo parole che avrebbero fatto breccia soltanto nel cuore di pochi. Gli uomini, invece, vogliono la sicurezza, vogliono l’autorità, vogliono beni materiali, tangibili, immediati».

Sono pagine straordinarie, ma non è importante capire le posizioni politiche e religiose di Dostoevskij, o chiedersi se sia vero che la Chiesa abbia deformato il messaggio di Cristo, o se Cristo sia mai esistito. Queste pagine, infatti, racchiudono una verità politica e sociale ben più profonda. Il grande inquisitore parla di una casta che esercita un controllo assoluto sul suo gregge. E in che modo ci riesce? Attraverso quale meccanismo riesce a dominare incontrastata?

Fedor Dostoevskij nel 1863

«Oh, li convinceremo che saranno liberi, soltanto quando si sottometteranno  a noi. […] Nel ricevere da noi i pani, certo loro vedranno chiaramente che noi portiamo loro i loro stessi pani, che si sono guadagnati con le loro mani, senza alcun miracolo, vedranno che non abbiamo tramutato le pietre in pani, ma in verità più che del pane stesso essi saranno lieti di riceverlo dalle nostre mani! […] Proveranno ammirazione e paura nei nostri confronti, e s’inorgogliranno per la nostra potenza e intelligenza, capace di domare un simile gregge ribelle e innumerevole. Tremeranno infiacchiti alla nostra ira, le loro menti si faranno timide, i loro occhi diverranno lacrimosi, come quelli dei bambini. Sì, li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro costruiremo la loro vita come un gioco, con canti infantili e danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, e ci ameranno per il fatto che permettiamo loro di peccare. Diremo loro che ogni peccato sarà espiato se sarà fatto con il nostro permesso. E non avranno alcun segreto per noi. Permetteremo o proibiremo loro di vivere con mogli e amanti, di avere o non avere figli – sempre giudicando in base alla loro obbedienza – e loro si sottometteranno con allegria e con gioia. I segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto, tutto porteranno a noi, e noi tutto risolveremo, e loro crederanno alla nostra decisione con gioia, perché li libererà dalla grande preoccupazione di una decisione libera e personale».

La casta sacerdotale esercita il potere e impone la propria autorità in un modo semplicissimo: tenendo in uno stato di inferiorità coloro che domina. Non minaccia, non punisce, non tormenta, ma blandisce, intimidisce, manipola. Alla stessa conclusione era giunto George Orwell. In 1984 vi sono interi dipartimenti che lavorano giorno e notte col solo scopo di produrre libri, film e giornali spazzatura per anestetizzare il pensiero delle masse. Il Grande Fratello controlla ciò che la gente legge, sente e ascolta, perché, se si riempie la testa delle persone di gossip, stupidaggini e pettegolezzi, la gente, alla fine, parlerà soltanto di gossip, stupidaggini e pettegolezzi. Anche la casta descritta da Dostoevskij fa lo stesso. Vuole che la gente si diverta, purché non pensi ad altro che a divertirsi. S’ingegna per mantenerla in uno stato di perenne distrazione. Riempie le loro giornate di passatempi oziosi e giochi infantili, così «le loro menti si faranno timide, i loro occhi diverranno lacrimosi». È la stessa logica che oggi regge i meccanismi del consenso e dell’intrattenimento: distrai, consola, prometti pane e svago, e nessuno sentirà più il bisogno di ribellarsi. In un mondo che celebra la futilità e il gossip, l’autorità non ha più bisogno di punire o minacciare. Le basta sedurre: si serve della distrazione, del chiacchiericcio, del bisogno di appartenenza. 

Infantilizzare le masse, trasformare uomini e donne in eterni bambini, in eterni adolescenti è la conditio sine qua non per dominarli; i bambini cercano per istinto una figura autoritaria: un padre che li sostenga e che dica loro cosa possono fare, come devono pensare e agire.

George Orwell nel 1940

Ma c’è un altro aspetto fondamentale e altrettanto importante: il controllo. Non fine a sé stesso, il controllo, infatti, risponde a uno scopo psichico ben più preciso. Perché sembriamo incapaci di distogliere lo sguardo dallo schermo? Perché accettiamo di essere intrattenuti e distratti, anche quando sentiamo che dietro questo circo si nasconde un vuoto profondo? Perché sembriamo provare gratitudine per chi ci tiene per mano mentre ci addormenta?

La casta sacerdotale arbitra ogni aspetto della vita del suo gregge, lavora al suo benessere, ma vuole esserne l’unico regolatore. Stabilisce attraverso una minuziosa sfilza di leggi, divieti e prescrizioni come devono vivere, chi possono o non possono amare, regola i rapporti tra coniugi, tra genitori e figli, tra parenti, amici, cugini; infiacchisce la volontà, ostacola il pensiero, impedisce l’esercizio del libero arbitrio. In una parola, si rende indispensabile agli occhi delle persone. In quel geniale saggio che si chiama La democrazia in America Tocqueville giunge alle stesse conclusioni di Dostoevskij che ci ricorda che il potere più efficace non è quello che comanda, ma quello che ci convince a rinunciare spontaneamente alla nostra libertà.

Tra schiavo e padrone c’è sempre un rapporto di complicità. Nessun regime può esistere senza la collaborazione dei sudditi. Non esiste Stato, governo o sistema di potere che possa reggersi soltanto sulla forza. Nessuno può davvero dominare un popolo che non vuole essere dominato. E perché ciò avviene? Gli uomini sono felici di sottomettersi agli inquisitori, perché l’Autorità che essi incarnano li ha liberati dalla grande fatica di dover pensare e decidere da sé. Lo stesso meccanismo in fondo è alla base del successo e della popolarità di applicazioni, come ChatGPT: queste IA semplificano, velocizzano, automatizzano processi come la scrittura, l’ideazione, la progettazione, insomma si sostituiscono all’uomo nello svolgere quelle attività mentali che, costando tempo, energie e fatica, si preferisce demandare a una macchina. La mente umana tende a quella che si potrebbe definire un’economia del risparmio. Peccato che le energie mentali risparmiate e i pensieri salvati dalla necessità di essere formulati si traducano in un impoverimento della mente umana. «Le loro menti diventeranno timide», scriveva Dostoevskij due secoli fa, timide nel senso di poco propense al pensiero, al ragionamento, all’analisi critica e a quella che Pasolini chiamava l’atrocità del dubbio. Una profezia che oggi si è pienamente realizzata. 

In Italia le multinazionali hanno evaso 22 miliardi di tasse in sei anni

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Ventidue miliardi di euro sottratti al fisco in sei anni. È la cifra che l’Italia ha perso a causa dell’elusione fiscale delle multinazionali, secondo il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 del Tax Justice Network. Dietro i numeri si nasconde un sistema globale che premia i colossi economici e depaupera gli Stati, al punto che il dossier paragona l’evasione fiscale a un vero e proprio saccheggio da parte di «corporation statunitensi che svuotano silenziosamente i nostri tesori pubbliciTra il 2016 e il 2021 le aziende con sede nei grandi centri finanziari hanno spostato artificiosamente i profitti nei paradisi fiscali, sfruttando lacune normative e la complicità delle istituzioni internazionali. In Europa, l’Italia è tra i Paesi più colpiti, con un danno medio di quasi quattro miliardi l’anno: denaro che avrebbe potuto finanziare scuole, ospedali, infrastrutture o ridurre il debito pubblico.

Il dossier di 65 pagine stima che tra il 2016 e il 2021 il mondo abbia perso 1.700 miliardi di dollari di gettito fiscale, di cui 495 miliardi imputabili alle multinazionali statunitensi. Dopo la riforma del 2017 voluta da Donald Trump – il Tax Cuts and Jobs Act – gli Stati Uniti hanno ridotto l’aliquota sulle imprese dal 35% al 21%, trasformandosi di fatto in un paradiso fiscale “interno”: le corporation americane trasferiscono oggi il doppio dei profitti verso la madrepatria, ma pagano meno tasse di prima. Colossi come Google, Apple, Meta e Microsoft registrano aliquote effettive tra l’8 e il 15%, contro il 35% di otto anni fa». Ogni anno, leggiamo nel rapporto, «le multinazionali statunitensi sottraggono al mondo una quantità di tasse pari al doppio di tutto l’oro e l’argento che i colonizzatori spagnoli saccheggiarono dalle Americhe in un arco di centocinquant’anni». Paradossalmente, Washington è al tempo stesso il maggiore responsabile e la principale vittima dell’elusione globale. Il rifiuto di aderire al Common Reporting Standard dell’OCSE – lo scambio automatico di informazioni bancarie tra Paesi – ha reso gli USA la prima giurisdizione per segretezza finanziaria, superando Cayman e Regno Unito. L’Europa, intanto, continua a denunciare l’elusione ma tollera regimi fiscali agevolati in Irlanda, Olanda e Lussemburgo.

Lo State of Tax Justice 2025 stima che le perdite fiscali italiane derivino in gran parte dallo spostamento artificiale dei profitti da parte di multinazionali estere che operano nel Paese, ma dichiarano utili altrove. L’Italia è tra le economie europee più colpite, insieme a Francia (14 miliardi di dollari) e Germania (16,5 miliardi), con una perdita complessiva di 22 miliardi di euro tra il 2016 e il 2021. I settori più coinvolti sono digitale, farmaceutico, automobilistico ed energetico. Roma subisce una doppia perdita: i profitti vengono drenati verso paradisi fiscali interni all’UE – come Lussemburgo, Olanda e Irlanda, dove le aliquote effettive scendono sotto il 5% – senza strumenti legali per contrastare la pratica. Secondo i dati OCSE, circa il 25% dei profitti generati in Italia viene trasferito fiscalmente all’estero. Oltre la metà delle perdite è imputabile a gruppi statunitensi, il resto a società europee con sede nei Paesi Bassi e nel Regno Unito. I 22 miliardi sottratti equivalgono al 2,5% del gettito fiscale annuo o a un anno di spesa sanitaria di Lazio e Campania. Le PMI, invece, pagano in media il 27% di tasse, quasi tre volte più dei colossi globali, subendo una concorrenza sleale che erode il tessuto produttivo e favorisce la delocalizzazione.

Il dossier denuncia il fallimento dell’OCSE nel garantire trasparenza e cooperazione. L’unico passo in avanti, sottolinea il documento, è l’approvazione della Convenzione ONU sulla cooperazione fiscale internazionale, oggi in discussione a New York, che «rappresenta un’occasione per recuperare la sovranità fiscale perduta a causa dello spostamento dei profitti e delle transazioni infragruppo opache». Essa propone due misure chiave: la tassazione unitaria delle multinazionali – trattate come un’unica entità globale i cui profitti siano ripartiti secondo il luogo in cui si realizza l’attività economica reale – e la pubblicazione obbligatoria dei bilanci Paese per Paese. Il Tax Justice Network stima che, se tale misura fosse stata in vigore nel periodo analizzato, l’Italia avrebbe potuto recuperare fino a sei miliardi di euro l’anno. Il sistema di rendicontazione pubblica permetterebbe di verificare in tempo reale dove vengono prodotti e tassati i profitti, riducendo la possibilità di manipolare i prezzi di trasferimento o creare società di comodo. Nonostante i propositi, Roma continua a muoversi con lentezza. L’Italia partecipa al gruppo europeo che sostiene la trasparenza, ma non ha ancora reso effettiva la pubblicazione integrale dei dati di Rendicontazione dati nazionali Paese per Paese (CbCR country by country reporting). Nel frattempo, il divario tra tassazione reale e dovuta si allarga: ciò, come recita il rapporto, «alimenta le disuguaglianze, favorisce la corruzione e mina la democrazia».  

La Libia arresta Almasri, il torturatore che era stato protetto dal governo italiano

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La Procura libica ha annunciato di avere ordinato l’arresto del Capo del Dipartimento per le Operazioni Giudiziarie e la Sicurezza libico, Osama Almasri, che ora si trova in arresto sotto custodia cautelare. Almasri è particolarmente noto in Italia per una vicenda che lo ha interessato lo scorso gennaio, quando era stato arrestato a Torino per poi venire rimpatriato in Libia nonostante un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale. Almasri è accusato dalla CPI di avere commesso violazioni dei diritti umani nei confronti dei detenuti delle carceri libiche, torturandoli. La Procura di Tripoli lo ha arrestato dopo avere ricevuto segnalazioni di «tortura e trattamenti crudeli e degradanti» nei confronti di undici detenuti, uno dei quali morto in seguito alle violenze subite.

L’annuncio della Procura libica è arrivato oggi, mercoledì 5 novembre. La Procura ha spiegato di avere «completato la raccolta di informazioni relative alle violazioni dei diritti umani commesse contro i detenuti presso l’Istituto Penitenziario e Riabilitativo Principale di Tripoli». L’indagine faceva riferimento a una serie di segnalazioni di tortura nei confronti dei detenuti: «L’investigatore ha condotto un interrogatorio sulle circostanze relative alle violazioni dei diritti umani, raccogliendo prove sufficienti a sostegno delle accuse» e rinviando l’imputato al tribunale per la condanna. La Procura ha affermato che Almasri si trova ora sotto custodia cautelare. Dal comunicato della Procura sembra che il motivo per cui Almasri è stato arrestato non sia il mandato della CPI, ma una indagine interna. A tal proposito, va rimarcato che la Libia non fa parte della Corte; nonostante ciò, nel 2011, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha rilasciato la Risoluzione 1970, con la quale riconosce alla CPI la giurisdizione sui crimini commessi in territorio libico o da cittadini libici a partire dal 15 febbraio 2011. Lo scorso maggio, la Libia accettato la giurisdizione della CPI dal 2011 fino alla fine del 2027.

Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione delle persone migranti in Libia, si trovava a Torino quando, lo scorso 19 gennaio, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Su di lui pendeva un ordine di arresto segreto della Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle carceri libiche. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato «irrituale» l’operazione, sostenendo che la polizia italiana non avesse l’autorità per agire, come prevedono le norme sulla cooperazione con la Corte dell’Aia, senza una preventiva autorizzazione del ministro della Giustizia. Il ministro della giustizia Nordio, a quel punto, avrebbe potuto sanare la situazione dando l’autorizzazione per convalidare l’arresto, ma non è intervenuto.

In una informativa al Parlamento, Nordio si è difeso dicendo che il mandato è «arrivato in lingua inglese senza essere tradotto con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello». Tra questa sorta di barriera linguistica, cui Nordio ha fatto più volte riferimento, e il «pasticcio» formale della CPI, il guardasigilli – almeno secondo la sua versione – avrebbe tardato nella lettura degli atti, che in ogni caso avrebbe giudicato «nulli». Così, Almasri è stato scarcerato, con il ministro dell’Interno Piantedosi che ha firmato un decreto di espulsione, dichiarandolo «soggetto pericoloso» e vietandogli l’ingresso in Italia per 15 anni. Almasri è stato quindi riportato in Libia su un aereo dei servizi segreti italiani.

Investito della questione in seguito alla denuncia presentata sul caso dall’avvocato Luigi Li Gotti, lo scorso agosto il Tribunale dei Ministri aveva archiviato la posizione della premier Giorgia Meloni, chiedendo invece l’autorizzazione a procedere per i ministri Nordio e Piantedosi e per il sottosegretario Alfredo Mantovano, indagati per favoreggiamento, con ulteriori accuse di peculato e rifiuto di atti d’ufficio. Il 9 ottobre, la Camera dei deputati ha però respinto definitivamente la richiesta di processare i tre membri del governo: come previsto, la maggioranza di centrodestra ha votato compatta contro l’autorizzazione a procedere: 251 voti contrari per Nordio, 252 per Mantovano e 256 per Piantedosi, con circa venti voti provenienti anche da parte dell’opposizione. L’esito ha comportato l’archiviazione delle indagini.