sabato 23 Novembre 2024
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“Democrazia è partecipazione”: a Roma nasce l’Assemblea Popolare per l’Aggregazione

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Lanciare una nuova stagione referendaria, stabilire le priorità per un’azione politica comune, restituire centralità alle forme e agli strumenti della democrazie diretta. Questi sono solo alcuni degli obiettivi che si pone la nuova piattaforma promossa da Generazioni Future, la Società Cooperativa del giurista Ugo Mattei. L’iniziativa mira a riunire varie realtà sociali, gruppi e associazioni per delineare un programma di azione comune dal basso, nell’ottica, ci spiega lo stesso Mattei, di una rinascita del «movimento per i beni comuni». Tra gli elementi a fare scattare la miccia c’è il sempre più attivo coinvolgimento bellico del Paese, accompagnato dall’ormai consolidata linea di astensione dell’Italia di fronte alla causa palestinese; i temi che verranno sviluppati, tuttavia, sono variegati, e vanno dal rilancio di azioni di democrazia partecipativa, alla transizione ecologica, fino alla difesa della sanità pubblica. Dopo mesi di appelli e preparativi, domani, domenica 27 ottobre, si terrà a Roma la prima “Assemblea Popolare per l’Aggregazione: Democrazia è Partecipazione”, che costituirà il primo passo di un percorso volto a identificare priorità e metodologie comuni di lotta politica per gli anni a venire.

L’Assemblea di domani inizierà alle 9:30 e andrà avanti fino alle 16:00 presso lo Spin Time Lab in Via Santa Croce in Gerusalemme, a Roma. In apertura, ci sarà una lettura di Moni Ovadia su un testo del Premio Nobel per la letteratura 1961, Ivo Andric, a cui seguirà una relazione di contesto affidata a Ugo Mattei. Dopo i primi incontri mattutini, verranno costituiti dei gruppi di lavoro per stabilire le priorità della lotta, i metodi con cui portarla avanti, e un piano ipotetico per il lancio di una prossima stagione referendaria nel 2025. Ai lavori saranno presenti rappresentanti di una ventina di associazioni variegate, come gruppi per la difesa dell’ambiente, associazioni per i diritti, per le politiche civili e per la tutela locale. «Magari a suo tempo divisi sulla gestione pandemica», i gruppi sono «ora riuniti dall’opposizione alle guerre e dalla solidarietà al popolo Palestinese».

Lo scopo della piattaforma è proprio questo: «La gestione pandemica», sostiene Mattei, ha portato a una rottura tra i movimenti, che va ora ricucita. Dalla loro coesione, era sorta una mobilitazione che aveva «saputo per una stagione rendersi almeno in parte egemone, raggiungendo un successo clamoroso e insperato in quella stagione referendaria del giugno 2011 in cui oltre 26 milioni di Italiani si pronunciarono contro le privatizzazioni dei servizi pubblici»; ma soprattutto si era giunti a una «consapevolezza che la democrazia ha bisogno di partecipazione diretta della cittadinanza». E, continua Mattei, è proprio questa consapevolezza che va ripresa, così da «ricucire il movimento per i beni comuni» e «trovare forme di aggregazione politica non di partito che consentano al popolo dei beni comuni di colpire come un sol uomo e diventare una base sociale rilevante».

L’iniziativa, insomma, intende mettere insieme realtà sfaccettate per creare una piattaforma comune di politica dal basso che sia capace di sostenere e orientare le lotte politiche rilevanti attraverso una riappropriazione dei metodi e degli strumenti della democrazia diretta e partecipativa, primo fra tutti quello referendario. I temi che sono stati affrontati nel corso degli incontri preparativi sono molteplici: transizione ecologica, difesa della sanità pubblica, comunicazione, pace, emergenza abitativa, e tanti altri. L’iniziativa di domani intende compiere un primo passo verso una loro discussione più approfondita, e iniziare a «identificare le priorità comuni per il 2025».

[di Dario Lucisano]

Una rivoluzione dell’immaginario

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Le tradizioni occidentali sono generate da due grandi correnti. Una orientale – a cui vorrei dare lo sguardo di Alessandro Magno – che approda in Grecia e a Roma, trascinando con sé quell’apparato indoeuropeo che ha attribuito nomi e valori a tutti gli aspetti della nostra vita organizzata, agli orizzonti simbolici, alle forme del quotidiano e del divino, alle rappresentazioni dei sentimenti e dei poteri, delle relazioni e dei concetti.

L’altra corrente è quella nativa americana, che pullula di richiami ancestrali, che pone la natura e le sue leggi al centro di tutto, che scorge nei ritmi della vita l’influsso astrale, la voce degli antenati, i richiami dell’eterno ritorno.

In particolare, gli immaginari mesoamericano, caraibico, sudamericano hanno saputo integrare gli apporti della Conquista, cristianesimo compreso, in una nuova enciclopedia di costumi e visioni, mantenendo quel particolare ritmo musicale, esplosivo e malinconico insieme, che caratterizza il loro immaginario: una forma speciale del tempo e dell’eternità che si concreta nell’idea della mancanza di confini e nella visione della continuità e della compresenza atemporale dei dati di realtà. 

Questa visione è stata espressa in modo straordinario, coinvolgente e drammatico, nell’opera di Eduardo Galeano, quasi si trattasse di una epopea in cui sono gli sconfitti, coloro che hanno subìto secolari sfruttamenti, a risultare eroi, perché quell’America è la terra di tutti e di nessuno, dell’oro e dell’odio, del canto e del silenzio, del sacrificio e del tradimento, scritta la sua storia in un infinito tramonto pieno però ancora di lampi.

Nel suo libro, Le vene aperte dell’America Latina (1971), Galeano afferma crudamente: «Sono passati i secoli e l’America Latina ha perfezionato il proprio ruolo. Questo ormai non è più il Paese delle meraviglie in cui la realtà sconfiggeva la favola e la fantasia veniva umiliata dai trofei della conquista, dai giacimenti d’oro e dalle montagne d’argento. […] Essa continua a fare da serva. Continua a vivere al servizio delle necessità altrui, come fonte e riserva di petrolio e di ferro, di rame e di carne, di frutta e caffè: materie prime e alimentari destinate ai Paesi ricchi che guadagnano, consumandole, molto più di quanto l’America Latina guadagni producendole».

E all’inizio del libro fa valere l’idea che l’America sia diventata terra d’altri perché è stata scoperta, e dunque è diventata una preda di caccia. 

In foto: Eduardo Galeano è uno scrittore uruguaiano, l’autore del libro sopracitato Le vene aperte dell’America Latina (1971)

«Quando Cristoforo Colombo decise di attraversare i grandi spazi vuoti a ovest dell’Universo accettò la sfida delle leggende. Terribili tempeste avrebbero giocato con le sue navi quasi fossero gusci di noce gettandole in bocca ai mostri; e il gran serpente dei mari tenebrosi, affamato di carne umana, sarebbe stato in agguato. Gli uomini del XV secolo credevano che mancassero soltanto mille anni perché i fuochi purificatori del Giudizio distruggessero il mondo; e il mondo era allora il Mar Mediterraneo con le sue coste ambigue: Europa, Africa, Asia. I navigatori portoghesi raccontavano che il vento dell’Ovest portava strani cadaveri e, a volte, pezzi di legno intagliati in modo curioso, ma nessuno pensava che il mondo si sarebbe ben presto, meravigliosamente, accresciuto d’una nuova vasta terra». 

Una terra generatrice di immaginario, di orizzonti folgoranti. Ho scelto qualche inizio narrativo per ricreare, seppure parzialmente, l’ambiente di quelle visioni, focalizzandomi su una rivoluzione mentale che persiste ai frequenti orrori di poteri politici ed economici fuori controllo

«…Tutti gli anni, nel mese di marzo, una famiglia di zingari straccioni piantava la tenda vicino al villaggio, e con gran chiasso di fischietti e timbales veniva a far conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita» (Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, 1967). 

«Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore» (Isabel Allende, La casa degli spiriti, 1982). 

«Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d’asino rigonfia. Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune foglie morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio. I pochi abitanti di El Idilio, e un pugno di avventurieri arrivati dai dintorni, si erano riuniti sul molo e aspettavano il loro turno per sedersi sulla poltrona portatile del dottor Rubicundo Loachamín, il dentista, che leniva i dolori dei suoi pazienti» (Luís Sepúlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, 1989). 

«Nel passo delle Enneadi che intende investigare e definire la natura del tempo si afferma che innanzi tutto è indispensabile conoscere l’eternità, la quale come tutti sanno ne è il modello e l’archetipo. Questa avvertenza preliminare, tanto più grave se la riteniamo sincera, sembra annientare ogni speranza di intenderci con l’uomo che la scrisse. Il tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema, forse il più vitale della metafisica; l’eternità, un gioco o una faticosa speranza. Leggiamo nel Timeo di Platone che il tempo è un’immagine mobile dell’eternità, ma si tratta di un semplice postulato, che non distoglie nessuno dalla convinzione che l’eternità sia un’immagine la cui sostanza è il tempo. Questa immagine, questa banale parola arricchita dalle discordanze umane, è ciò di cui mi propongo di narrare la storia» (Jorge Luis Borges, Storia dell’eternità, 1936). 

«A furia di sentirla raccontare da mia madre, la scena diventò viva e reale come se avessi conservato il ricordo di quel che era avvenuto, la cavalla che stramazzava morta, mio padre bagnato di sangue, che mi raccoglieva da terra. Avevo dieci mesi, me ne andavo carponi per la veranda della casa al cadere del crepuscolo quando le prime ombre della sera scendevano sui giovani alberi del cacao, sulla foresta vergine, inospitale e antica. Dissodatore di terre, mio padre aveva costruito la sua casa oltre Ferradas, villaggio del recente municipio di Itabuna, aveva piantato il cacao, ricchezza del mondo.

All’epoca delle grandi lotte. La lotta per il possesso delle foreste, terra di nessuno, si dilatava in imboscate, intrighi politici, incontri di banditi nel sud dello Stato di Bahia: si negoziavano animali, armi e la vita umana. In cerca dell’Eldorado, dove far soldi era un gioco da ragazzi, arrivava la manodopera, venuta dall’alto sertão delle secche o dal Sergipe della miseria e della mancanza di lavoro. Pagati ad alte tariffe, i jagunços dallo sparo sicuro erano privilegiati. Le croci segnavano le vie del decantato progresso della regione, i cadaveri concimavano le piantagioni del cacao» (Jorge Amado, Il ragazzo di Bahia, 1982). 

In conclusione, come ha scritto Onetti, la letteratura è uno speciale modo di dire la verità.

[di Gian Paolo Caprettini]

Nella notte Israele ha lanciato un attacco contro l’Iran

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Nella notte Israele ha lanciato per alcune ore diversi attacchi contro una ventina di siti in Iran, in risposta all’attacco missilistico condotto il 1° ottobre da Teheran. Daniel Hagari, portavoce dell’esercito israeliano (IDF), ha riferito che l’attacco, conclusosi intorno alle sei del mattino (ora italiana), ha consistito in «attacchi mirati e precisi su obiettivi militari in Iran, sventando minacce immediate allo Stato di Israele», per lo più mezzi di produzione di missili, sistemi missilistici terra-aria e altri sistemi di difesa aerea. Al momento non sembrano esserci vittime. Lo spazio aereo dell’Iran è stato chiuso per qualche ora, ma è stato riaperto intorno alle 9 del mattino.

«In risposta ai mesi di continui attacchi del regime iraniano contro lo Stato di Israele, le Forze di difesa israeliane stanno attualmente conducendo attacchi mirati contro obiettivi militari in Iran» ha dichiarato in un comunicato Hagari. «Il regime iraniano e i suoi alleati nella regione attaccano Israele senza sosta dal 7 ottobre, su sette fronti, compresi attacchi diretti dal suolo iraniano. Come ogni altro Paese sovrano del mondo, lo Stato di Israele ha il diritto e il dovere di rispondere. Le nostre capacità difensive e offensive sono pienamente mobilitate. Faremo tutto il necessario per difendere lo Stato di Israele e il popolo di Israele». Secondo quanto riportato da IRNA, l’agenzia di stampa statale dell’Iran, citando i portavoce del comando di difesa aerea iraniano, gli attacchi israeliani, condotti nelle regioni di Ilam, Khuzestan e Teheran, sono stati «intercettati e contrastati con successo» e i danni causati sono stati «limitati». I portavoce hanno poi esortato la popolazione alla calma e a fidarsi solamente delle notizie provenienti dai media ufficiali del Paese. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza statunitense, Sean Savett, ha dichiarato che la Casa Bianca era a conoscenza degli attacchi, che hanno costituito un «esercizio di autodifesa in risposta all’attacco missilistico dell’Iran contro Israele del 1° ottobre».

Lo scorso 1° ottobre, Teheran ha lanciato un attacco missilistico contro Tel Aviv, durato una mezz’ora in tutto. Le Guardie della Rivoluzione Iraniana lo hanno definito una risposta all’uccisione del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, aggiungendo che se Israele avesse mai reagito ci sarebbe stata un’ulteriore risposta «più schiacciante e rovinosa». L’attacco era stato preceduto di pochi minuti da una nota del Dipartimento della Difesa statunitense, dove veniva specificato che il segretario della Difesa USA, Lloyd J. Austin III, aveva parlato con il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, «delle gravi conseguenze per l’Iran nel caso in cui quest’ultimo decidesse di lanciare un attacco militare diretto contro Israele», precisando che «gli Stati Uniti sono ben posizionati per difendere il personale, gli alleati e i partner di fronte alle minacce dell’Iran».

[di Valeria Casolaro]

G7, prestito di 50 miliardi all’Ucraina dagli extraprofitti russi

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La Presidenza italiana del G7 ha annunciato che i Paesi del gruppo hanno raggiunto un accordo per l’erogazione di un prestito di 50 miliardi di dollari all’Ucraina, provenienti dagli extraprofitti dei beni russi congelati. Il denaro verrà erogato a partire dall’inizio di dicembre attraverso una serie di prestiti bilaterali che si protrarranno fino alla fine del 2027. I dettagli tecnici e l’ammontare dei prestiti bilaterali non sono ancora noti e dovrebbero essere definiti entro il 30 giugno 2025.

I BRICS chiudono il vertice annunciando una infrastruttura finanziaria alternativa

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Ieri è terminato il sedicesimo vertice BRICS tenutosi a Kazan, in Russia. Dopo tre giorni di colloqui, i Paesi hanno rilasciato un documento congiunto, la Dichiarazione di Kazan. Essa ruota su “tre pilastri” fondamentali: “politica e sicurezza, economia e finanza, cultura e scambio tra le persone [ndr. letteralmente: people-to-people]”. I Paesi del gruppo hanno così discusso di temi internazionali, di sicurezza, di multipolarità; il tema più rilevante, tuttavia, sembrerebbe essere quello finanziario: “Abbiamo sottolineato la necessità di riformare l’attuale architettura finanziaria internazionale”, scrivono i BRICS, nell’ottica di un sistema economico più inclusivo e rappresentativo delle economie emergenti, da promuovere con BRICS Clear, una nuova infrastruttura finanziaria. Analogamente, secondo la Dichiarazione di Kazan, deve venire riformato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in modo da coinvolgere nei processi decisionali Paesi dell’America latina e dell’Africa. Queste stesse raccomandazioni sono state fatte da Vladimir Putin in persona al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in quello che è risultato il loro primo incontro da oltre due anni.

La Dichiarazione di Kazan è stata adottata dai Paesi membri del gruppo il 23 ottobre, il giorno prima della chiusura del vertice. Essa è divisa in quattro paragrafi fondamentali, che seguono a una breve introduzione. Al punto 6 del primo paragrafo, sull’importanza della multilateralità, il gruppo sottolinea il valore della multipolarità, riconoscendo l’importanza delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Proprio per tale motivo, al punto 8 si trova una delle iniziative più interessanti del documento: “Riconoscendo la Dichiarazione di Johannesburg II del 2023 riaffermiamo il nostro sostegno a una riforma globale delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza, al fine di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente, e di aumentare la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo tra i membri del Consiglio”. Con questo passaggio, i Paesi BRICS sottolineano quanto dichiarato singolarmente più di una volta da molti di essi: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU va riformato, nell’ottica di una maggiore inclusione dei Paesi in via di sviluppo. Rilevanti anche i punti 10 e 22, che condannano l’utilizzo delle sanzioni unilaterali come mezzo di pressione internazionale.

Il secondo paragrafo del documento è dedicato a un “rafforzamento della cooperazione per la stabilità e la sicurezza globale e regionale”. Qui, al punto 25, i Paesi condannano l’uso della violenza come metodo per risolvere le controversie internazionali, incoraggiando, piuttosto, l’adozione di soluzioni diplomatiche. In questo paragrafo si passa così a parlare in generale della situazione internazionale, con particolare attenzione agli scenari globali maggiormente sotto i riflettori. Per quanto riguarda il Medioriente (punti 30-35), i Paesi condannano le aggressioni israeliane sulla Striscia di Gaza, e in generale le iniziative dello Stato ebraico negli altri Paesi (specialmente il Libano), esprimendo timore per quella che sembrerebbe una escalation sempre più imminente. Nel documento, i Paesi si impegnano a riconoscere uno Stato di Palestina e promuovono l’adozione di una soluzione che ripristini i confini di Israele e Palestina come erano prima del giugno del 1967, con Gerusalemme Est come capitale della Palestina. Per quanto riguarda la questione africana, il documento si concentra sul conflitto attualmente in corso in Sudan, e sostiene il principio della “soluzione africana ai problemi africani”. Poche parole sono dedicate all’Ucraina, per cui i BRICS si limitano a fare riferimento alle carte internazionali.

Il terzo paragrafo risulta senza ombra di dubbio il più ricco di contenuto. Esso mira a “promuovere la cooperazione economica e finanziaria per uno sviluppo globale giusto”, e introduce una delle questioni fondamentali della Dichiarazione: l’architettura finanziaria del mondo, si legge, va cambiata. Per farlo è necessario introdurre nuovi metodi di finanziamento e inedite modalità di scambio, come quella già in atto tra i Paesi BRICS, che si basano sulle monete locali. Inoltre, continua il documento al punto 66, “Riconosciamo l’importanza di esplorare la fattibilità della connessione dell’infrastruttura dei mercati finanziari dei Paesi BRICS. Accettiamo di discutere e studiare la fattibilità dell’istituzione di una infrastruttura indipendente di regolamento transfrontaliero e depositario, BRICS Clear, un’iniziativa per integrare l’infrastruttura del mercato finanziario esistente, così come la capacità di riassicurazione indipendente dei BRICS, compresa la Compagnia di (Ri)assicurazione BRICS, con partecipazione su base volontaria”. Il quarto paragrafo, infine, si concentra brevemente su politiche del lavoro, ambientali e sulla preservazione della biodiversità.

Al termine del vertice, i BRICS hanno iniziato a valutare un allargamento dei Paesi partner, tra cui si annoverano Cuba, Nigeria, e, nonostante le varie indiscrezioni, Turchia. L’eventuale entrata di Ankara nei BRICS è stata più volte fonte di discussione e speculazione giornalistica, oltre che di diffusione di autentiche fake news, come quella relativa a una sua richiesta formale di adesione al gruppo. Tuttora, malgrado le numerose voci, lo status della Turchia risulta incerto. La presenza di Erdogan agli incontri, comunque, appare quanto meno interessante, e conferma la tendenza del Paese a restare in bilico tra mondo occidentale e realtà orientali. Attualmente, i BRICS, fondati nel 2009, sono composti da Brasile, Russia, India, Cina (i Paesi fondatori, da cui deriva il nome del gruppo), Sudafrica (che si è aggiunto nel 2011, e a cui si deve la lettera finale dell’acronimo), Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran (aggiuntisi l’1 gennaio 2024).

[di Dario Lucisano]

I Paesi Bassi limiteranno i permessi di asilo

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Il primo ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof, ha annunciato l’introduzione di una serie di restrizioni sui permessi di asilo dei migranti per contrastare l’immigrazione irregolare. Secondo quanto comunicato da Schoof, la durata dei permessi verrà limitata a un massimo di tre anni, mentre i controlli sulle frontiere verranno incrementati. Dopo la scadenza, i permessi verranno rivalutati, per controllare se la persona interessata abbia ancora diritto a mantenerlo. Il governo inoltre, abolirà, gli alloggi preferenziali per i richiedenti asilo autorizzati a soggiornare, offrendo loro invece unità condivise di base. Infine, verranno ampliati i centri di trattenimento per richiedenti asilo respinti o privi di documenti.

Torino: cadono le accuse contro gli ambientalisti che occuparono Intesa Sanpaolo

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La Procura della Repubblica di Torino ha archiviato le accuse contro i sessantacinque attivisti di Extintion Rebellion che lo scorso aprile, mentre si svolgeva il G7 su Clima, Ambiente ed Enrgia, avevano occupato il grattacielo di Intesa Sanpaolo. Secondo quanto dichiarato dal pm e dal gip, infatti, i fatti contestati non hanno rilevanza penale. «Va riconosciuto che non è stata infranta alcuna norma penale» riportano le motivazioni, che smontano così le accuse occupazione, violenza privata e manifestazione non preavvisata formulate dalla Digos.

Sono state numerose le proteste che hanno attraversato Torino durante lo svolgersi del summit del G7, al termine del quale i ministri hanno sottoscritto un documento (la cosiddetta Carta di Venaria) nel quale si impegnavano, tra le altre cose, a «eliminare gradualmente l’attuale produzione di energia da carbone nei nostri sistemi energetici durante la prima metà del 2030 o in una tempistica coerente con il mantenimento di un limite di aumento della temperatura di 1,5°C a portata di mano, in linea con i percorsi net-zero dei Paesi». Una dichiarazione d’intenti quasi surreale, soprattutto alla luce delle performance tutt’altro che encomiabili degli ultimi anni da parte degli attori in gioco sulla questione ambientale. In questo contesto, un centinaio di attivisti di Extintion Rebellion avevano occupato l’atrio del grattacielo di Intesa San Paolo, la quale, scrivono gli attivisti, «dal 2015 a oggi ha sostenuto l’industria fossile con 81,6 miliardi di dollari, risultando nella lista delle prime 40 banche a livello mondiale che finanziano l’espansione nel settore».

Non è la prima volta che accuse di questo genere mosse contro gli attivisti del clima cadono poi dentro le aule di tribunale. Dall’archiviazione delle denunce avanzate contro oltre 70 attivisti di Extintion Rebellion che il 23 ottobre avevano occupato l’ingresso del ministero dei Trasporti al prosioglimento dei militanti di Ultima Generazione che avevano effettuato un blitz agli Uffizi di Firenze (anch’essi accusati di manifestazione non preannunciata e interruzione di pubblico servizio), sono numerose le cause intentate contro attivisti e movimenti sociali che non hanno retto alla prova dei giudici. Marino Careglio, uno degli avvocati che assiste gli attivisti di Extintion Rebellion, ha sottolineato «Tutti i magistrati che sono stati chiamati a pronunciarsi in sede penale in relazione alle manifestazioni di XR hanno ribadito un principio che purtroppo appare ancora necessario affermare con forza: il dissenso pacifico rientra nei diritti costituzionalmente garantiti di libertà di riunione e di libera manifestazione del pensiero».

[di Valeria Casolaro]

Il governo Meloni continua a cedere aziende strategiche ai fondi USA: dopo TIM tocca a ENI

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Prosegue la cessione di aziende strategiche, centrali per la sicurezza e l’autonomia nazionale, ai fondi finanziari statunitensi da parte del governo Meloni, in continuità con la posizione del precedente governo Draghi: dopo la vendita al fondo statunitense KKR  della rete primaria e secondaria delle telecomunicazioni di TIM – azienda coperta da Golden Power a partecipazione statale – è ora il turno di ENI, il colosso energetico fondato da Enrico Mattei e controllato per il 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, attraverso Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP SpA). Come si legge nel comunicato ufficiale dell’azienda, infatti, il 24 ottobre “Eni e KKR hanno firmato il contratto per l’ingresso di KKR nel 25% del capitale sociale di Enilive”. L’operazione varrà quasi tre miliardi di euro da corrispondere in due fasi: la prima prevede la sottoscrizione di un aumento di capitale in Enilive riservato a KKR pari a 500 milioni di euro; la seconda, invece, “l’acquisto di azioni Enilive da Eni a fronte del pagamento di 2,438 miliardi di euro”. Enilive, fondata e controllata dalla multinazionale energetica italiana, si occupa principalmente di sviluppare e fornire servizi e prodotti progressivamente decarbonizzati per realizzare la transizione energetica.

Il Cane a sei zampe ha giustificato la scelta di fare entrare il fondo americano nel capitale sociale di ENI, spiegando che rappresenta un vantaggio per lo sviluppo del modello satellitare di Enilive e che, dal punto di vista finanziario, “ottimizza la struttura del capitale di Eni, riducendone la posizione finanziaria netta e mantenendo in capo a Eni il consolidamento e il controllo di Enilive”. L’amministratore delegato (ad) del gruppo, Claudio Descalzi, ha posto l’accento sulla svolta “green”, dichiarando in una nota che “Questo accordo rappresenta un nuovo e importante passo avanti nella nostra strategia di business legata alla transizione energetica. Enilive, insieme a Plenitude, è fondamentale per il nostro impegno nel fornire soluzioni energetiche decarbonizzate e ridurre progressivamente le emissioni generate dall’uso finale dei nostri prodotti: entrambe le Società hanno incontrato un grande interesse da parte di partner internazionali di primo piano e conseguito valutazioni di mercato importanti”. Ciò che, invece, non viene considerato è la cessione di una parte significativa della società a un fondo straniero, una tendenza che caratterizza sempre di più negli ultimi tempi non solo il Cane a sei zampe, ma l’intera “strategia” di gestione degli asset pubblici da parte dei governi italiani e, attualmente, del governo Meloni.

L’ingresso di fondi e cordate straniere in aziende chiave per la sicurezza nazionale rischia di comportare la perdita della residuale sovranità di Roma sulle sue politiche energetiche e infrastrutturali, permettendo ai fondi americani di incidere sulle decisioni delle compagnie italiane e di avere accesso a dati sensibili. Inoltre, porta avanti quel progetto di privatizzazione degli asset pubblici, pilastro della dottrina neoliberista, volto a ridurre l’influenza dello Stato nell’economia a favore dei grandi investitori finanziari. KKR e BlackRock – il più grande e potente fondo d’investimenti al mondo – rappresentano l’emblema della proiezione della finanza americana nei gangli economici e infrastrutturali del Belpaese. Lo scorso luglio, infatti, la stessa KKR ha acquisito la rete infrastrutturale di Tim, coperta dal Golden Power, lo strumento normativo che conferisce ai governi la facoltà di porre condizioni o veti in caso di tentativo d’acquisto di una compagnia strategica italiana da parte di una società straniera. L’esecutivo di Roma ha autorizzato la vendita al fondo statunitense, ritenendola idonea a proteggere l’interesse nazionale, nonostante tra i suoi partner e a capo del gruppo di analisi di scenario ci sia David Petraeus, generale dell’esercito americano e capo della CIA (Central Intelligence Agency) nell’amministrazione Obama.

Inoltre, lo scorso fine settembre, la premier Giorgia Meloni ha incontrato Larry Fink (ad di Blackrock) per discutere della possibile cessione di alcune aziende a partecipazione statale che il governo vorrebbe privatizzare. Da notare che la Roccia Nera – che nel 2024 ha registrato un patrimonio di 11.500 miliardi (oltre quattro volte il PIL italiano) – si è già da tempo insediata in molte realtà imprenditoriali e bancarie della Penisola. Secondo un articolo di Limes, infatti, nel 2011 deteneva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e delle Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (società che controlla Autostrade per l’Italia) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, di Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. È poi diventata primo azionista di Unicredit con il 5,24%.

Non sfugge, del resto, la complicità dell’attuale governo nel favorire tale penetrazione nei settori vitali del Belpaese: sarà forse anche per questo che Giorgia Meloni è stata insignita il mese scorso con il Global Citizen Awards, il riconoscimento del grande think tank statunitense Atlantic Council, il cui scopo è promuovere la guida americana nel mondo. Anche l’ad di ENI era stato insignito nel 2022 del Distinguished Business Leadership Award dalla medesima organizzazione, per il suo ruolo di leader nel settore energetico globale. Non stupisce, dunque, che sia il governo che i vertici di ENI favoriscano i fondi a stelle e strisce anche nella strategia energetica nazionale. Un approccio molto lontano da quello del fondatore di ENI, il quale aveva sfidato le grandi compagnie petrolifere americane per garantire la sovranità energetica italiana.

[di Giorgia Audiello]

La Polonia produrrà carri armati per la Corea del Sud

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Il Presidente polacco Andrzej Duda ha annunciato di aver concluso un accordo con la Corea del Sud per la produzione di carri armati K2 da destinare a Seul nel Paese. Il patto mira a velocizzare la produzione di carri armati prevista da un accordo siglato dalla Corea del Sud con Hyundai Rotem nel 2022, che prevedeva la consegna di 1.000 tank K2. Finora ne sono stati consegnati solo 182. Secondo quanto comunicato da Duda, il nuovo accordo verrà formalizzato nelle prossime settimane. Il patto arriva in un momento di forte crescita del settore bellico polacco, che da anni sta incrementando sempre più produzione ed esportazioni.

Nessuno ha idea di come la Banca Mondiale spenda buona parte dei soldi “per il clima”

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Quasi il 40% di tutti i fondi “per il clima” erogati dalla Banca Mondiale negli ultimi sette anni non sono stati contabilizzati: è quanto rivela un nuovo rapporto pubblicato recentemente da Oxfam in occasione dei vertici annuali della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Il portafoglio di finanziamenti per il clima 2017/2023 della Banca Mondiale non ha contabilizzato una cifra compresa tra i 24 e i 41 miliardi di dollari, tra il momento in cui i progetti sono stati approvati e quando sono stati chiusi. Come denunciato da Oxfam, non esiste un registro pubblico che dimostri dove siano finiti questi soldi o come siano stati utilizzati, il che rende impossibile qualsiasi valutazione del loro impatto. Non è quindi chiaro se questi fondi siano stati spesi per alcune delle iniziative previste, come aiutare i Paesi a basso reddito ad attuare politiche di adattamento e investimenti; a proteggere le persone dagli impatti del cambiamento climatico o siano stati spesi in altro modo.

«La Banca si vanta dei suoi miliardi di finanziamenti per il clima, ma questi numeri si basano su ciò che prevede di spendere, non su ciò che spende effettivamente una volta che un progetto inizia a funzionare», ha dichiarato Kate Donald, capo dell’ufficio di Oxfam International. «Abbiamo dovuto setacciare strati di report complessi e incompleti e, anche in questo caso, i dati erano pieni di lacune e incongruenze. Il fatto che sia così difficile accedere a queste informazioni è allarmante: non dovrebbe essere necessario un team di ricercatori professionisti per capire come vengono spesi miliardi di dollari destinati all’azione per il clima. Questo dovrebbe essere trasparente e accessibile a tutti, soprattutto alle comunità che dovrebbero beneficiare dei finanziamenti per il clima», ha proseguito dicendo Donald.

Eppure, la Banca Mondiale è il più grande fornitore multilaterale di finanziamenti per il clima, rappresentando il 52% del flusso totale di tutte le banche multilaterali di sviluppo messe insieme. Durante le riunioni annuali della Banca Mondiale del 2023, la Banca ha rivisto e aggiornato la sua missione ponendo come obiettivo il porre fine alla povertà estrema e promuovere la prosperità condivisa su un pianeta vivibile, riconoscendo esplicitamente come parte del suo mandato l’intersezione tra finanza per lo sviluppo e la finanza per il clima. Sfortunatamente, i dati pubblicati dalla Banca Mondiale sui finanziamenti per il clima includono solo cifre ex ante, ovvero la quantità di finanziamenti per il clima che un progetto è determinato a includere in base a una valutazione del progetto prima che venga approvato. La Banca non conduce analisi ex post dei progetti per riferire sulla quantità effettiva di finanziamenti per il clima erogati. Con questo livello di informazioni, è impossibile determinare se la Banca sta davvero intensificando i suoi investimenti per il clima.

La questione dei finanziamenti per il clima sarà al centro della COP29 di quest’anno in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre prossimo, dove i Paesi sono pronti a negoziare un nuovo obiettivo globale di finanza per il clima, il New Collective Quantified Goal (NCQG). Risulta però difficile che con questa poca trasparenza possa essere garantita la fiducia tra i soggetti coinvolti e, soprattutto, dei Paesi del sud del mondo nei confronti dei Paesi ricchi, visto che queste istituzioni economico-finanziarie internazionali sono a guida occidentale.

[di Michele Manfrin]