sabato 23 Novembre 2024
Home Blog Pagina 36

Israele presenta il “piano di pace”: vuole un pezzo di Libano per fermare le bombe

1

Trasformare il sud del Libano in una nuova Cisgiordania. Sembra questo il succo del piano di pace con Hezbollah elaborato dallo Stato ebraico, presentato ieri da Washington agli intermediari libanesi. Il cessate il fuoco prevederebbe una piena demilitarizzazione del sud del Paese, la cui sicurezza finirebbe attivamente nelle mani di Tel Aviv, e fornirebbe alle forze di aviazione israeliane l’assoluta libertà di operare all’interno dello spazio aereo libanese. Un piano che sembra concepito per essere respinto, e che cozzerebbe con la tanto citata risoluzione 1701 dell’ONU, che prevede la costituzione di una “zona cuscinetto” a sud del fiume Litani, da attuarsi con un allontanamento sia delle milizie di Hezbollah sia delle truppe dell’esercito israeliano. Hezbollah, come prevedibile, ha già rifiutato la proposta: «Il nemico non è nella posizione di imporre condizioni». Nel frattempo, continuano gli scontri nel territorio libanese, dove ieri Israele ha colpito le filiali della banca Al-Qard al-Hassan a Beirut, per poi prendere di mira un ospedale.

Il piano elaborato da Israele è stato condiviso nella mattina di ieri dal sito di informazione Axios. Esso sembra essere stato elaborato dallo Stato ebraico, che giovedì avrebbe affidato il compito di presentarlo a Washington al ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, molto vicino al premier Netanyahu. Ieri il testo è arrivato nelle mani del diplomatico statunitense Amos Hochstein, che, partito per il Libano, ne ha esposto i punti fondamentali al Presidente del parlamento libanese, Nabih Berri. L’idea è semplice: il sud del Libano dovrebbe essere completamente smilitarizzato, mentre all’esercito israeliano dovrebbe essere permesso di svolgere «attività di controllo attivo» sul territorio, finalizzate ad assicurarsi che Hezbollah non ricostruisca le proprie infrastrutture militari al confine; oltre a ciò, Israele chiede che venga fornita alla propria aviazione la piena concessione di operare all’interno dello spazio aereo libanese.

Le richieste di Israele riguardanti il sud del Libano sembrano ricordare in tutto e per tutto il modello di gestione dell’area B della Cisgiordania così come pensata negli accordi di Oslo, in cui la sicurezza è nelle mani di Tel Aviv e l’amministrazione sotto controllo locale. Esse, inoltre, violano completamente quella stessa risoluzione 1701 dell’ONU a cui ultimamente tutti i politici stanno facendo riferimento come “unica soluzione possibile” all’abbassamento della tensione. Essa prevede l’istituzione di una fascia di sicurezza priva di “personale armato, assetti e armamenti che non siano quelli del Governo libanese e di UNIFIL” lungo la Blue Line – la linea di confine che separa Israele e Libano – con il conseguente ritiro di Hezbollah dietro il fiume Litani e dell’esercito israeliano dal territorio libanese. L’accordo israeliano, avanzato peraltro in una fase del conflitto in cui la guerra sembra tutt’altro che finita, risulta, quindi, inaccettabile secondo Hezbollah, e in tal senso (come anche contenutisticamente) rassomiglia agli analoghi patti di pace promossi da USA e Tel Aviv ad Hamas nel corso dell’ultimo anno. Hezbollah non ha tardato a rilasciare un comunicato in cui annuncia il suo rifiuto del piano: «Ciò che trapela riguardo alle condizioni “israeliane” suggerisce che “Israele” crede di aver vinto», ha scritto il gruppo; tuttavia «siamo ancora all’inizio della battaglia e il nemico non è in posizione di vittoria». «Non permetteremo che “Israele” si metta nella posizione di imporre condizioni a noi o al nostro Paese». Insomma, quello che Hezbollah sembra stare dicendo è che, Israele, prima di arrogarsi il diritto di imporre qualcosa, dovrebbe riuscire a sconfiggere il proprio nemico.

Effettivamente, gli scambi di attacchi tra Israele ed Hezbollah stanno continuando senza interruzione. Ieri le milizie libanesi hanno scagliato oltre trenta distinti attacchi, colpendo zone di confine, aree vicine a Tel Aviv, siti posti sulle alture del Golan, e, ancora, località nei pressi di Haifa. Stamattina, invece, è arrivato un ulteriore attacco a Tel Aviv, nell’area a sud della città, dove Hezbollah afferma di avere colpito una base militare. Israele, dal canto suo, ha scagliato un attacco sulle filiali di Al-Qard al-Hassan a Beirut, considerato l’istituto finanziario di Hezbollah, per poi colpire le aree attorno all’ospedale Rafic Hariri, uccidendo 4 persone. Israele ha inoltre accusato Hezbollah di nascondere una somma pari a circa mezzo miliardo di dollari sotto forma di oro e contanti in un tunnel posto sotto l’ospedale di Al-Sahel, giustificando così un possibile attacco futuro. Tra la richiesta di pace dalle condizioni inaccettabili e le accuse di utilizzare le infrastrutture civili come scudo, insomma, il sentiero che sta seguendo Israele sembrerebbe lo stesso già percorso nell’ultimo anno a Gaza: giustificare i propri attacchi indiscriminati e attribuire a Hezbollah il mancato raggiungimento di una tregua.

[di Dario Lucisano]

Cuba, almeno 6 morti per passaggio uragano Oscar

0

Sono almeno sei le persone che hanno perso la vita, a Cuba, nel comune orientale di San Antonio del Sur, dopo il passaggio dell’uragano Oscar, mentre oltre un migliaio di abitazioni sono state colpite e costrette ad evacuare. Le atorità hanno dichiarato che al momento le forze del ministero degli Interni, delle Forze Armate e della Croce Rossa stanno partecipando alle operazioni di salvataggio, ma che «case, abitazioni, centri di lavoro, linee elettriche e piantagioni» sono state danneggiate dall’uragano.

La Lista Verde delle Aree Protette nel mondo si arricchisce di altri 12 siti

0

L'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), la più grande e diversificata rete ambientale al mondo, con al suo interno 1.400 organizzazioni e 16.000 esperti, ha recentemente ampliato la sua Lista Verde delle Aree Protette e Conservate, aggiungendo 12 nuovi siti provenienti da Brasile, Cina, Colombia, Francia, Arabia Saudita e Zambia. Tale riconoscimento certifica che queste aree sono gestite nel rispetto della biodiversità, contribuiscono in modo significativo alla lotta contro il cambiamento climatico e promuovono il benessere delle comunità locali. 
Tra i nuovi ingressi...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

India: raggiunto un accordo sul confine con la Cina

0

Alla vigilia del vertice annuale dei BRICS, che si terrà in Russia da domani, martedì 22 ottobre a giovedì 24, il ministro degli Esteri indiano, Vikram Misri, ha annunciato di aver raggiunto un accordo con la Cina riguardo al pattugliamento delle aree di confine sull’Himalaya, da anni contese tra i due Paesi. L’accordo riguarderebbe la cosiddetta Linea di controllo effettiva, un’area di 3.488 km situata nella regione del Ladakh orientale, che dal 2020 ha visto un’escalation di violenza tra sentinelle indiane e cinesi. Non sono ancora noti i dettagli dell’accordo, che dovrebbe essere volto a normalizzare la situazione e ad alleggerire le tensioni.

Canarie, decine di migliaia contro il modello Airbnb: “Non è turismo, è colonizzazione”

2

Ieri, decine di migliaia di persone si sono radunate in piazza a Tenerife per una grande manifestazione di protesta contro l’impatto prodotto dal turismo di massa sui costi degli alloggi e della vita sull’isola. «Siamo stranieri nella nostra stessa terra», «Non è turismo, è colonialismo», «Le Canarie hanno un limite» sono solo alcuni degli slogan apparsi su centinaia di cartelli esposti dai cittadini. L’evento segue la maxi-protesta dello scorso aprile, che aveva già visto scendere in piazza 200.000 persone. Le manifestazioni si sono contemporaneamente estese oltre i confini delle isole stesse: proteste di supporto sono state infatti organizzate dagli espatriati di Tenerife a Valencia e nella capitale spagnola, Madrid.

La manifestazione di ieri è stata lanciata da movimenti ambientalisti e comitati cittadini. La mobilitazione intendeva riappropriarsi di tutti quegli spazi delle isole che vengono costantemente sottratti ai cittadini dai turisti. In occasione delle proteste a Tenerife, oltre 30.000 isolani hanno occupato la spiaggia di Las Américas, una delle attrattive più note dell’isola, lanciando un messaggio chiaro ad amministrazione e turisti: «Questa spiaggia è nostra». Parallelamente, migliaia di cittadini dell’arcipelago si sono mobilitati per riprendersi i litorali di Maspalomas (Gran Canaria), Las Américas (Tenerife), Corralejo (Fuerteventura), Puerto del Carmen (Lanzarote), Los Llanos de Aridane (La Palma) e Valverde (El Hierro). Dopo mesi di proteste, «è ancora tutto uguale», ha denunciato uno dei portavoce dei movimenti ambientalisti. «Questo modello turistico non funziona. Con oltre 18 milioni di visitatori all’anno, la nostra qualità di vita si sta deteriorando a passi da gigante».

Con la mobilitazione di domenica, gli attivisti dell’arcipelago intendevano denunciare l’insostenibilità del modello turistico di massa su cui poggia l’economia delle Canarie. Perché se da un lato è vero che la maggior parte dei posti di lavoro sono forniti dal turismo, dall’altro, denunciano i cittadini, questi stessi impieghi risultano precari, poco qualificati e mal pagati. Al disagio lavorativo, si aggiunge anche quello abitativo, visto che la maggior parte delle case viene riservata all’affitto di stagione turistica, problema che ironicamente si somma alla grande speculazione edilizia che da anni investe l’isola. Nell’arcipelago, reclamano gli attivisti, stanno infatti venendo costruite sempre più strade e strutture da destinare al turismo, che piano piano stanno erodendo le spiagge, decimando la biodiversità, e danneggiando il territorio dell’arcipelago.

Quella di ieri non è la prima volta che i cittadini delle Canarie si mobilitano per protestare contro il turismo di massa. Già ad aprile, infatti, gli isolani si sono riuniti in una manifestazione congiunta – la prima nella loro storia – contro il turismo che da anni soffoca le isole. In generale, le proteste contro tale fenomeno sono da mesi al centro dell’attenzione in tutta la Spagna. A luglio, a Barcellona, migliaia di persone hanno manifestato contro il sovraffollamento in città e contro la crescente dipendenza dell’economia locale dal turismo di massa, bloccando simbolicamente le uscite di hotel e locali affollati dai turisti con nastro adesivo e nastro rosso e bianco. Qualche giorno prima, la città di Málaga ha vissuto una intensa giornata di mobilitazione con migliaia di persone che sono scese in strada per chiedere che fossero intraprese misure per contrastare i danni del turismo di massa. In particolare, i cittadini hanno chiesto misure concrete per frenare il fenomeno degli affitti brevi e contrastare l’aumento dei prezzi degli affitti per i residenti sul mercato immobiliare, giunto a livelli considerati insostenibili. A maggio, invece, era toccato a Palma di Maiorca, dove migliaia di persone hanno protestato contro l’overtourism al grido di “Maiorca non è in vendita!”.

[di Dario Lucisano]

Che cosa sappiamo del presunto dispiegamento di soldati nordcoreani in Russia?

7

Nei giorni scorsi, le agenzie di stampa e i quotidiani italiani hanno riportato la notizia di un presunto dispiegamento di soldati nordcoreani a fianco delle forze armate russe. Nelle conclusioni emerse alla fine del vertice del Consiglio europeo del 17 ottobre, l’UE ha avvisato i “Paesi terzi” a cessare ogni forma di assistenza a Mosca e molti vi hanno letto un avvertimento indiretto a Pyongyang. Come siamo arrivati a questo punto?

Dal 10 ottobre, il Guardian ha pubblicato una serie di articoli in cui, chiamando in causa una fonte anonima ucraina, si alludeva alla presenza di «decine di nordcoreani dietro le linee russe, in squadre che “supportano i sistemi di lancio per i missili KN-23”». In un articolo successivo, il Guardian riprendeva le dichiarazioni di Volodymyr Zelensky in merito a “recenti rapporti” secondo cui la Corea del Nord starebbe anche «inviando un gran numero di truppe» in Russia. Secondo l’agenzia di spionaggio della Corea del Sud, Pyongyang avrebbe inviato 1500 soldati delle forze speciali nell’Estremo Oriente russo per l’addestramento nelle basi militari locali e questi saranno “probabilmente” impiegati per combattere nella guerra in Ucraina. E attorno a quel “probabilmente” ruota tutta l’inconsistenza della narrazione. Il capo della Direzione dell’intelligence della Difesa ucraina (GUR), il generale Kyrylo Budanov, si è spinto oltre e ha riferito che sarebbero ben 11 mila i soldati nordcoreani che si stanno addestrando nella Russia orientale, e un primo gruppo di essi – circa 2600 uomini – sarebbe già pronto a combattere nella regione di Kursk a partire dal primo novembre.

Le testate internazionali, comprese quelle italiane, hanno ripreso come oro colato la sparata dell’accoppiata Zelensky & Budanov e le insinuazioni dell’intelligence di Seoul con titoli roboanti: L’esercito della Corea del Nord va in soccorso dello zar Putin; I soldati di Kim con i russi già 1.500 al confine ucraino; Seul: “Divise russe e documenti falsi, già a Vladivostok i 1500 soldati nordcoreani che combatteranno per Mosca contro Kiev’’; ‘’11mila nordcoreani pronti a combattere per i russi’’. La rivelazione degli 007 di Kiev; L’Ue risponde alla Corea del Nord per l’invio in Russia di truppe “su larga scala”; ecc. Una breve rassegna stampa spingerebbe chiunque a presumere che le informazioni riportate su queste testate siano affidabili e che il pericolo sia concreto

Il capo della Direzione dell’intelligence della Difesa ucraina (GUR), Kyrylo Budanov

Premesso che sia la Russia sia la Corea del Nord negano tali ricostruzioni, la smentita da parte del capo del Pentagono, ripresa da Reuters, è stata volutamente ignorata da quelle stesse testate che hanno deciso di sbattere in prima pagina la notizia mai confermata. Il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha, infatti, dichiarato di non poter confermare queste notizie e che il Pentagono non ha le prove che tali insinuazioni siano vere, ma che «continua a indagare».

Che cosa sappiamo, quindi, in concreto, di queste ricostruzioni che campeggiano da giorni sulle prime pagine di quotidiani cartacei e siti online? Nulla. Nel senso che, come spesso accade con notizie di tenore propagandistico, non esistono conferme su cui costruire fantomatici reportage. Tant’è che alcuni organi di informazione hanno preferito ricorrere all’utilizzo delle virgolette per evidenziare che si tratta di notizie provenienti da “fonti di parte”, Seoul e Kiev: è il caso di Repubblica che in un articolo di Gianluca Modolo (corrispondente non si sa bene da dove) nel sommario ha preferito mettere le mani avanti e specificare che «Se fosse confermato», l’invio totale delle truppe «segnerebbe il primo coinvolgimento così massiccio in una guerra da parte dell’esercito di Pyongyang dai tempi della Guerra di Corea del 1950». Insomma, basta spingersi poco sotto il titolo per scoprire che di confermato non c’è nulla e che, per l’ennesima volta, in Occidente i mezzi di informazione rilanciano come una cassa di risonanza la propaganda di Kiev e di Seoul, senza nemmeno esserne troppo convinti. 

I numerosi precedenti che abbiamo analizzato in questa rubrica dovrebbero invitare alla prudenza. A maggior ragione quando si tratta della Corea del Nord, dove ci si trova sovente di fronte a fake news anche grottesche, diffuse da agenzie sudcoreane o da giornali satirici, ma ritenute credibili e perciò ribattute in Occidente senza averne potuto accertare la veridicità. Con ciò non si intende “difendere” o spalleggiare il regime nordcoreano, ma mostrare la dinamica che viene utilizzata con Kim Jong-un così come con altri leader stranieri al solo fine di demonizzarli. 

Il regime di Pyongyang è particolarmente chiuso rispetto al resto del mondo; quindi, è difficile ottenere notizie attendibili provenienti dal suo interno e questo, di conseguenza, ha favorito la diffusione di bufale sul suo conto, che sono state usate dalla propaganda sudcoreana. Il leader nordcoreano ha alimentato storie fantasiose talmente assurde che si fatica a credere che siano state rilanciate dai media di massa, dallo zio Jang Song-thaek, che sarebbe stato sbranato da 120 cani (la notizia falsa proveniva da un giornale semi-satirico di Hong Kong, il «Wen Wei Po»), all’ex fidanzata di Kim, la cantante Hyon Song-wol, che sarebbe stata fucilata il 20 agosto 2013,  dopo essere stata condannata per violazione delle leggi contro la pornografia (la “notizia” proveniva dal quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, grazie a “fonti” interpellate in Cina; nel maggio del 2014, Hyon Song-wol ricomparve pubblicamente, viva e vegeta, in un concerto cui presenziava lo stesso Kim), dalla morte del ministro della Difesa, che sarebbe stato giustiziato con la contraerea per un pisolino di troppo (smentita addirittura dai Servizi segreti sudcoreani ma rilanciata dai media italiani) alla macabra uccisione di un generale gettato in una vasca di piranha. 

Oggi lo schema è lo stesso: sulla base di notizie infondate, si chiede all’opinione pubblica un atto di fede. Si vuole far credere di avere la prova definitiva che «la Russia non vuole davvero la pace» per legittimare una escalation del conflitto che rischia di incendiare l’Europa. Prima di farsi trascinare in una guerra globale sarebbe almeno il caso di verificare l’attendibilità delle fonti

[di Enrica Perucchietti]

USA, pacchetto di 400 milioni all’Ucraina

0

Il Segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America, Lloyd Austin, ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina del valore di 400 milioni di dollari. L’annuncio è arrivato oggi, in occasione di una visita di Austin a Kiev. Di preciso, secondo quanto comunica il segretario, gli USA forniranno nuovi veicoli corazzati, munizioni, proiettili d’artiglieria da 155 millimetri, e nuove piattaforme di lancio per razzi di tipo HIMARS all’Ucraina.

Una ricerca ritiene di aver individuato le cause di formazione dei meteoriti

0

Capire da dove provengano le stelle cadenti e i meteoriti è una delle domande che gli scienziati si pongono fin dall’antichità. Ora, nuove analisi sembrano aver trovato una soluzione: i risultati, ottenuti da un team internazionale di ricercatori del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), dell’Osservatorio europeo australe (ESO) e della Charles University, sono stati pubblicati in tre studi sottoposti a revisione paritaria e apparsi sulle prestigiose riviste scientifiche Astronomy & Astrophysics e Nature. Se fino a poco tempo fa solo il 6% delle cadute di meteoriti era stato collegato alla loro origine, oggi tale percentuale è salita a oltre il 90%, rivelando che circa il 70% di tutte le cadute proviene da tre giovani famiglie di asteroidi.

I meteoriti noti sono oltre 70.000, ma fino ad oggi solo il 6% era stato chiaramente identificato come proveniente dalla Luna, da Marte o da Vesta, uno dei più grandi asteroidi della fascia principale. La provenienza del restante 94% dei meteoriti era rimasta sconosciuta. Per risolvere questo enigma, i ricercatori hanno condotto un’indagine telescopica della composizione delle principali famiglie di asteroidi nella Fascia Principale, situata tra Marte e Giove, a una distanza compresa tra i 100 e i 300 milioni di chilometri. Questa analisi, combinata con simulazioni computerizzate avanzate e estesa a tutte le famiglie di meteoriti, ha identificato nuove fonti primarie oltre a quelle già conosciute della Luna, di Marte e di Vesta.

Secondo i risultati ottenuti, circa il 70% di tutte le cadute di meteoriti conosciute ha origine da tre giovani famiglie di asteroidi chiamate Karin, Koronis e Massalia (quest’ultima da sola è responsabile del 37% dei meteoriti conosciuti). Queste famiglie si sarebbero formate tramite collisioni nella Fascia Principale avvenute rispettivamente 5,8, 7,5 e 40 milioni di anni fa. Gli autori spiegano che il motivo per cui queste tre famiglie costituiscono l’origine di così tanti meteoriti è legato alla loro giovinezza: sono caratterizzate da un’abbondanza di piccoli frammenti, residui delle collisioni, che aumentano il rischio di ulteriori impatti e favoriscono la fuga di detriti dalla cintura verso la Terra. Le famiglie formatesi in collisioni più antiche, invece, sono considerate «fonti esaurite di meteoriti», poiché la quantità di piccoli frammenti che le costituiva si è erosa e dispersa nel corso di decine di milioni di anni. Di conseguenza, i ricercatori concludono che «Karin, Koronis e Massalia coesisteranno inevitabilmente con nuove fonti di meteoriti da collisioni più recenti, e alla fine saranno sostituite da queste ultime».

Inoltre, l’approccio utilizzato ha permesso di tracciare l’origine di asteroidi di dimensioni chilometriche, che potrebbero rappresentare una minaccia per la vita sulla Terra. Ad esempio, sembra che gli asteroidi Ryugu e Bennu, recentemente campionati dalle missioni Hayabusa2 (Japanese Aerospace Exploration Agency, JAXA) e OSIRIS-REx (NASA) e studiati in laboratori di tutto il mondo, in particolare in Francia, derivino dallo stesso asteroide genitore della famiglia Polana. Tuttavia, gli autori concludono che rimane ancora da scoprire l’origine del restante 10% dei meteoriti conosciuti, e per completare la ricerca il team intende proseguire le analisi concentrandosi sulla caratterizzazione delle famiglie formatesi meno di 50 milioni di anni fa.

[di Roberto Demaio]

Mozambico, proteste per le elezioni, scontri con la polizia

0

Oggi a Maputo, capitale del Mozambico, si è tenuta una manifestazione per denunciare irregolarità nello svolgimento delle elezioni, di cui si stanno ancora aspettando i risultati, e sono scoppiati scontri con le forze dell’ordine. La polizia ha caricato i manifestanti, lanciando loro gas lacrimogeni e disperdendoli. La protesta intendeva contestare le elezioni presidenziali del 9 ottobre, per cui le opposizioni hanno sin da subito denunciato brogli. Venerdì, dopo l’uccisione di due collaboratori di Venâncio Mondlane, il principale candidato dell’opposizione, si è verificato un aumento della tensione nel Paese, in seguito a cui è stata indetta la manifestazione di oggi. La commissione elettorale dovrebbe ufficializzare i risultati nelle prossime ore.

 

Moldavia spaccata dal referendum per aderire all’UE: il sì vince di un soffio

3

Mancano ancora una decina di seggi da scrutinare, ma l’atteso risultato del referendum moldavo sull’adesione del Paese all’Unione Europea sembra ormai definito: la Presidente Maia Sandu ha vinto la scommessa delle urne per appena una decina di migliaia di voti, riconsegnando, in sede di consultazione, un Paese spaccato a metà. Il risultato pare rispecchiare la cronica divisione interna della stessa Moldavia: da una parte, gli europeisti del governo centrale, con lo sguardo rivolto verso Bruxelles, e, dall’altra, i russofoni della Gagauzia o della separatista Transnistria, inclinati verso Oriente. Anche le elezioni presidenziali, svoltesi parallelamente al referendum, sembrano rispecchiare questa sostanziale spaccatura. Maia Sandu risulta ampiamente avanti rispetto ai rivali, ma non riesce ad assicurarsi la rielezione al primo turno, e al ballottaggio dovrà vedersela con il candidato filorusso Alexandr Stoianoglo, che probabilmente potrà godere del sostegno degli esponenti degli altri partiti più vicini a Mosca. Decisivo nel definire la rottura del Paese, il fronte degli astenuti, pari a poco meno della metà degli aventi diritto.

I risultati del referendum moldavo sull’adesione all’Unione Europea erano particolarmente attesi. Esso è stato promosso dalla stessa presidente uscente Sandu e approvato formalmente dalla Corte Costituzionale il 16 aprile, e poneva ai cittadini una semplice domanda: Sostieni la modifica della Costituzione in vista dell’adesione della Repubblica di Moldova all’Unione Europea?”. Con la vittoria del sì, verranno introdotti due nuovi paragrafi al preambolo della Costituzione, uno che “riconferma l’identità europea del popolo della Repubblica di Moldova e l’irreversibilità del percorso europeo” e un secondo che “dichiara l’integrazione nell’Unione Europea un obiettivo strategico della Repubblica di Moldova”. Dopo il 99,46% dei seggi scrutinati, il sì risulta avanti con il 50,42%, dato che conferma pienamente la spaccatura interna al Paese. Se infatti da un lato il governo centrale ha una posizione ampiamente vicina all’Europa, dall’altro sono molti i politici, e le regioni, a essere ancora legate alla Russia. Malgrado la preannunciata vittoria del fronte del sì, insomma, non è scontato che gli eventuali negoziati di adesione vengano avviati senza contestazioni da parte delle realtà separatiste o semplicemente più vicine a Mosca.

Parallelamente al quesito referendario, i cittadini sono stati chiamati a decidere il nuovo presidente del Paese. Maia Sandu, che corre con il Partito di Azione e Solidarietà per il suo eventuale secondo e ultimo mandato, ne è uscita pienamente vincitrice, con il 42,31% dei voti, ma non è riuscita a farsi riconfermare al primo turno. Secondo posto per il candidato filorusso del Partito Socialista, Alexandr Stoianoglo, con il 26,09%, e terzo per un altro filorusso, Renato Usatii, con il 13,77%. Malgrado la presenza di molti più candidati orientati verso oriente, in molti danno per scontata una vittoria di Sandu al ballottaggio, che si terrà domenica 3 novembre. Risulta comunque interessante notare che, sommati, i voti presi dai politici considerati vicini a Putin risultano all’incirca gli stessi di quelli ottenuti dai candidati più europeisti. Malgrado la frammentarietà, anche le presidenziali mostrerebbero insomma, un Paese con due forti tendenze contrastanti equiparabili nell’intensità: da un lato quella filoeuropa e dall’altro quella filorussa.

Ancora limitati i commenti da parte delle varie forze politiche: ieri sera, quando il no al referendum sembrava nettamente in vantaggio, Maia Sandu è corsa subito ai ripari, denunciando brogli e tentativi di influenza esterne. Dal canto suo, proprio nelle ore serali, Ilan Shor, uno dei leader dell’opposizione filorussa, ha reclamato la sconfitta della campagna referendaria di Sandu. Curiosamente, pochi paiono essersi soffermati sul dato dell’affluenza, che restituisce un Paese ancora più spaccato a metà in quello che doveva essere uno dei voti più importanti della storia del Paese.

Il quesito referendario posto ieri ai cittadini della Moldavia si configura come una consultazione di portata storica per il Paese. Da sempre divisa tra Russia ed Europa, che si contendono l’influenza sul Paese, la Moldavia è un piccolo Stato situato a cavallo tra l’Ucraina e la Romania. Un tempo parte della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, una delle repubbliche di cui si componeva l’URSS, i suoi confini sono ancora oggi offuscati: con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la regione della Transnistria annunciò unilateralmente la propria indipendenza come Repubblica Moldava della Transnistria, il 2 settembre 1990. Tale dichiarazione di indipendenza precedette quella fatta dalla Moldavia, che avvenne solo ad agosto 1991. Dopo una guerra durata dal marzo al luglio del 1992, venne firmato un armistizio garantito da una commissione congiunta tripartita tra Russia, Moldavia e Transnistria con cui si decise di creare una zona demilitarizzata tra Moldavia e Transnistria comprendente venti località a ridosso del fiume Dnestr. Ancora oggi, la Transnistria non è riconosciuta dall’Occidente. Nell’ultimo periodo, alla questione della Transnistria, si è aggiunta un’intensificazione degli attriti tra il governo centrale e la regione della Gagauzia, la cui presidente, Evghenija Gutsul, risulta particolarmente vicina a Putin, al quale ha chiesto aiuto denunciando presunte «violazioni dei diritti costituzionali» dei gagauzi da parte della Moldavia. In generale, il Paese si colloca in una posizione geograficamente e strategicamente importante: la Moldavia dista infatti circa un centinaio di chilometri dalla città ucraina di Odessa, ed è il Paese più a oriente (a eccezione dell’Ucraina) non ancora sotto diretta influenza russa, a non fare parte di UE e NATO.

[di Dario Lucisano]