Nella notte tra ieri e oggi, lunedì 3 marzo, le forze pakistane e afghane si sono scontrate nel valico di frontiera nordoccidentale di Torkham. Non sembrano esserci state vittime. Il valico di Torkham era stato chiuso dal Pakistan undici giorni fa, dopo una disputa sorta per l’avvio delle costruzioni di un nuovo punto di controllo da parte delle forze afghane. Un funzionario pakistano ha accusato le forze talebane di aver aperto il fuoco senza essere state provocate, causando una risposta da parte dei soldati pakistani; le autorità talebane non hanno commentato l’accaduto.
Gaza: Israele non vuole avviare la seconda fase della tregua e blocca gli aiuti umanitari
Il governo israeliano ha bloccato l’ingresso degli aiuti a Gaza: una mossa contraria al diritto internazionale umanitario e in aperta violazione degli accordi di cessate il fuoco stipulati con Hamas, nell’evidente tentativo di forzare il movimento palestinese ad accettare la prosecuzione degli scambi di prigionieri senza attuare la fase II dell’accordo, che prevederebbe la fine totale delle ostilità e il ritiro israeliano dalla Striscia. Netanyahu, con il supporto dell’amministrazione Trump, sta infatti cercando di cambiare le carte in tavola e ha proposto una prosecuzione del cessate il fuoco limitata al Ramadan e alla Pasqua, chiedendo che Hamas rilasci la metà degli ostaggi, vivi e morti, già nel primo giorno della tregua. Il movimento palestinese, però, denuncia come questo accordo sia contrario a quanto stabilito e non assicuri la fine del genocidio in corso.
La decisione di interrompere il flusso in entrata di aiuti umanitari nella Striscia è stata annunciata ieri, domenica 3 marzo, in occasione della fine della prima fase del cessate il fuoco. Questa prevedeva un primo ritiro dell’esercito israeliano da Gaza, diversi scambi di ostaggi e prigionieri e un cessate il fuoco temporaneo, da adottare mentre intanto proseguivano le trattative per arrivare a una tregua permanente, il rientro degli ostaggi rimanenti e il ritiro completo delle truppe, da attuarsi nella fase II. L’annuncio di ieri è arrivato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il quale ha affermato che Hamas avrebbe rifiutato un piano presentato dall’inviato speciale degli Stati Uniti per il Medioriente, Steve Witkoff, che prevedeva un’estensione della prima fase della tregua. Il piano di Witkoff non è stato reso pubblico, ma, da quanto comunica Netanyahu, esso prevederebbe altri cinquanta giorni di cessate il fuoco temporaneo e il rientro immediato della metà degli ostaggi ancora nelle mani dei gruppi palestinesi; ad oggi, ne resterebbero ancora 59: 24 vivi e 35 morti.
La proposta israelo-statunitense di allungare la fase I dell’accordo era già trapelata sabato 1° marzo. Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, aveva risposto che dietro alla sua formulazione Israele celava la volontà di recuperare gli ostaggi rimanenti mantenendo la possibilità di riaccendere il conflitto. Ed effettivamente è quello che sembra stare accadendo. Dopo l’annuncio di Netanyahu, il ministro delle Finanze israeliano Belazel Smotrich ha appoggiato la presa di posizione del proprio premier; Smotrich ha parlato esplicitamente di interrompere il flusso degli aiuti «finché Hamas non sarà distrutto o si arrenderà completamente e tutti i nostri ostaggi non saranno restituiti». Ha poi aggiunto che è il momento di «aprire le porte dell’Inferno al crudele nemico il più rapidamente e mortalmente possibile, fino alla completa vittoria». Poco prima dell’annuncio di Netanyahu, inoltre, il Segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha approvato la consegna rapida di circa 4 miliardi di dollari in assistenza militare a Israele, facendo ricorso a misure di emergenza per accelerare la spedizione.
L’interruzione degli aiuti umanitari arriva in concomitanza con l’avvio del mese di Ramadan. Nel suo annuncio, Netanyahu ha ripetuto l’ormai consueta accusa per cui «Hamas ruba le forniture e impedisce alla popolazione di Gaza di ottenerle». Hamas, invece, ha parlato di aperta violazione degli accordi, accusando inoltre Israele di aver ritardato i colloqui per stabilire i termini della fase II. Effettivamente, tra polemiche, attese diplomatiche e violazioni (Hamas ne denuncia 350), sembra che Israele abbia fatto di tutto per ritardare le discussioni per quella che risulta la fase più sensibile della tregua, iniziate, malgrado i diversi solleciti, solo giovedì scorso. Il punto di attrito su cui sembra esserci uno spazio limitato per le trattative è lo stesso per cui sono falliti anche i precedenti negoziati di cessate il fuoco: le aree sensibili della Striscia. La scorsa settimana un ufficiale israeliano, che ha parlato in condizioni di anonimato, ha confermato a diversi media che Tel Aviv non ha intenzione di abbandonare il corridoio di Philadelphi, che divide il sud della Striscia dall’Egitto. Nel frattempo, sembrano ripartire le aggressioni mai davvero terminate: i media palestinesi riportano di due civili uccisi a Rafah da colpi di arma da fuoco.
[di Dario Lucisano]
Somalia, operazione contro Al Qaeda: almeno 44 morti
Il governo somalo ha riportato di avere condotto due attacchi aerei nelle vicinanze di Biyo Cadde ed El Baraf nella regione del Medio Scebeli, uccidendo almeno 44 militanti di Al-Shabaab, gruppo islamista affiliato ad Al Qaeda. L’attacco nell’area di Biyo Cadde condotto con i partner è stato condotto contro i militanti di Al-Shabaab; mentre l’offensiva aerea nell’area di Ceel Baraf è stata condotta in collaborazione con il Comando USA africano, e ha distrutto dei veicoli con a bordo un numero imprecisato di miliziani.
Elezioni in Abkhazia: vince il presidente ad interim
Il presidente ad interim dell’Abkhazia, Badra Gunba, ha vinto le elezioni presidenziali della regione separatista della Georgia, considerata indipendente da Mosca. Gunba ha posizioni indipendentiste ed era il candidato più vicino a Mosca. Ha vinto con circa il 55% dei voti nelle elezioni che si sono tenute ieri, sabato 1° marzo. Le elezioni erano state indette a causa delle dimissioni del presidente Aslan Bzhania, rassegnate lo scorso novembre dopo una serie di proteste scoppiate in seguito alla ratifica di un accordo interparlamentare con la Russia. Secondo i dimostranti, l’accordo avrebbe consentito alle entità russe di partecipare a progetti di investimento in Abkhazia.
Zelensky a Londra: l’Europa cerca una strategia dopo le sberle di Trump
Oggi, domenica 2 marzo, a Londra, Zelensky e il primo ministro del Regno Unito, Keir Starmer, si incontreranno con diversi leader europei, tra cui Meloni e Macron, per definire la strategia da adottare dopo l’umiliazione in mondovisione inflitta da Trump a Zelensky. Le opzioni sul piatto sembrano molteplici e vanno dal continuare a sostenere militarmente l’Ucraina al mantenere aperto il canale statunitense con l’accordo sulle terre rare, fino ad aumentare parallelamente gli investimenti per una difesa europea; Macron si è inoltre detto pronto, se necessario, a rivedere la dottrina nucleare francese coinvolgendo gli alleati. Dopo il litigio nello Studio Ovale, il presidente ucraino ha trovato il supporto della stragrande maggioranza dei capi europei, che hanno criticato il comportamento di Trump e offerto aiuto all’Ucraina; lo stesso Starmer ha annunciato un ulteriore pacchetto da oltre 2 miliardi, mentre intanto Zelensky cerca di ricucire con Trump. Meloni, dal canto suo, sembra assumere una posizione da mediatrice, provando a tenere aperto il dialogo con il presidente USA.
Dopo il surreale incontro televisivo di venerdì tra Trump e Zelensky, il leader ucraino ha ricevuto messaggi di sostegno dall’intero Vecchio Continente, evidentemente scosso da quelle immagini senza precedenti nella storia. I vertici di Ungheria e Slovacchia sono stati gli unici a lodare Trump e ad annunciare che, se gli Stati Uniti dovessero negare il proprio sostegno all’Ucraina, Kiev non troverà il loro appoggio. Meloni, invece, sembra essere stata la più morigerata. Pur non avendo espresso un’aperta vicinanza a Zelensky, non ha neanche lodato Trump e si è sin da subito attivata per parlare con il presidente degli Stati Uniti – che ha sentito ieri al telefono – e organizzare un incontro tra gli USA e i Paesi europei. Zelensky, dal canto suo, ha inizialmente rilasciato una dichiarazione di avvicinamento agli Stati Uniti, ringraziando il Paese per i suoi sforzi e cercando di tenere aperti i canali con Trump; successivamente è volato a Londra per incontrare Starmer.
Qui il premier britannico ha rinnovato il pieno sostegno del Regno Unito nei confronti dell’Ucraina e ha offerto a Zelensky un nuovo prestito di 2,74 miliardi di euro in armi e garanzie di difesa. Oggi, dopo un bilaterale tra Starmer e Meloni, si terranno gli incontri multilaterali tra Zelensky, Starmer, Meloni, e i vertici di Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca e Romania, unitamente a quelli di Canada, Norvegia e Turchia e a von der Leyen e Mark Rutte. Quest’ultimo, secondo indiscrezioni mediatiche, starebbe spingendo perché gli alleati non taglino i ponti con Trump; Francia e Regno Unito, invece, sembrano lavorare con l’Ucraina per presentare un piano per la pace al presidente statunitense. Proprio Londra e Parigi, ha sottolineato Macron in un’intervista, sono gli unici due Paesi europei dotati di armi nucleari e, per tale motivo, potrebbero avviare «un dialogo strategico» con gli altri Stati del Vecchio Continente. «Noi abbiamo uno scudo, loro no. E non possono più dipendere dal deterrente nucleare americano. Abbiamo bisogno di un dialogo strategico con coloro che non ce l’hanno, e questo renderebbe la Francia più forte» – ha dichiarato Macron –, aprendo a una non meglio definita ipotesi di coinvolgere nella strategia di “scudo nucleare” francese anche gli altri Stati europei.
Le dichiarazioni di Macron hanno scatenato discussioni interne in Francia, tra chi ha aperto al dialogo sulla deterrenza nucleare e chi ha chiuso completamente le porte all’opzione, prima fra tutti Marine Le Pen, che ha affermato che il nucleare non è «qualcosa da condividere» con gli alleati. In generale, in Europa si sta iniziando a discutere in maniera sempre più concreta di come svincolarsi dalla dipendenza statunitense in ambito difensivo. Il vincitore delle elezioni tedesche, Friedrich Merz, ha sottolineato che l’Europa deve trovare un modo per diventare «indipendente rispetto agli USA», aumentando la «capacità di difesa europea autonoma» come «alternativa alla NATO».
[di Dario Lucisano]
Gaza, Israele ferma l’entrata di aiuti umanitari
Israele ha bloccato l’ingresso di tutti gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. La decisione arriva in risposta allo stallo creatosi durante i colloqui per la seconda fase della tregua, che prevede l’instaurazione di un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane. La seconda fase sarebbe dovuta iniziare oggi, domenica 2 marzo. Israele ha dichiarato di voler rimanere a Gaza e soprattutto nel corridoio di Philadelphi, che divide il sud della Striscia dall’Egitto; ha dunque proposto un ampliamento del cessate il fuoco temporaneo in cambio del rientro della metà degli ostaggi ancora nella Striscia. Hamas chiede di trovare un accordo per l’implementazione della seconda fase.
Il governo Meloni ha approvato il disegno di legge per il ritorno al nucleare
Dopo oltre trent’anni dall’ultimo referendum che sancì la rinuncia all’energia nucleare in Italia, il governo Meloni inverte la rotta. Il Consiglio dei Ministri ha infatti dato il via libera al disegno di legge delega sul cosiddetto “nuovo nucleare sostenibile”, avviando un percorso destinato a riscrivere il futuro energetico del Paese. Secondo i piani del governo, i nuovi mini reattori (SMR) dovrebbero iniziare a essere operativi già dal 2030. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire sicurezza energetica e contribuire alla decarbonizzazione, ma la scelta ha già scatenato un acceso dibattito tra sostenitori e oppositori. Nel mentre, un numero sempre maggiore di studiosi evidenzia come gli SMR non possano essere considerati la risposta alla transizione energetica, essendo troppo costosi, richiedendo troppo tempo per essere costruiti e comportando rischi economici e tecnologici ancora troppo elevati.
Il disegno di legge, composto da quattro articoli, affida al governo il compito di adottare, entro dodici mesi dall’entrata in vigore, una serie di decreti legislativi per disciplinare in maniera organica l’intero ciclo di vita della produzione di energia nucleare. Il provvedimento prevede la sperimentazione, localizzazione, costruzione ed esercizio di nuovi reattori, insieme alla gestione dei rifiuti radioattivi e allo smantellamento delle vecchie centrali. Inoltre, verranno istituiti strumenti di formazione per nuovi tecnici e si valuterà la creazione di un’Autorità indipendente per la sicurezza e il controllo. Secondo il governo, il nucleare di nuova generazione, accanto alle fonti rinnovabili, sarà indispensabile per garantire l’indipendenza energetica dell’Italia e contrastare l’instabilità del mercato internazionale dell’energia. Non si è fatta attendere la replica del fronte ambientalista e delle associazioni per le energie rinnovabili. La coalizione “100% Rinnovabili Network”, che riunisce Università, centri di ricerca e organizzazioni come Greenpeace, WWF e Legambiente, ha ribadito la propria contrarietà alla scelta del governo, sottolineando l’elevato costo dell’energia nucleare rispetto a solare ed eolico, i rischi ambientali legati alla gestione delle scorie radioattive e i disastri passati come Chernobyl e Fukushima. Secondo gli oppositori, la transizione energetica può essere realizzata esclusivamente attraverso un mix di fonti rinnovabili, senza ricorrere a una tecnologia già bocciata dai cittadini italiani in due referendum.
A offrire uno spaccato sui grandi punti interrogativi che segnano il dibattito sulla tecnologia degli SMR, ancora in fase sperimentale, è un recente rapporto dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA). Sebbene gli SMR siano stati presentati come un’alternativa più economica rispetto alle centrali nucleari tradizionali, il rapporto attesta come i loro costi lievitino continuamente, spesso ben oltre le previsioni iniziali, come dimostrano casi concreti di progetti realizzati (o in fase di realizzazione) in Russia, Cina, Argentina e Stati Uniti. Un altro problema chiave riguarda i tempi di costruzione. Gli SMR sono stati promossi come una soluzione più veloce rispetto alle centrali nucleari tradizionali, ma i fatti raccontano di enormi ritardi, mentre il settore delle rinnovabili avanza con una velocità sorprendente. In ultimo, il rapporto mette in guardia sul fattore del rischio a causa di problemi imprevisti, essendo gli SMR ancora una tecnologia relativamente nuova e sperimentale. La conclusione degli autori è che, per governi, aziende e investitori, la scelta più sensata sia quella di concentrare gli investimenti su solare, eolico, batterie e reti intelligenti, piuttosto che su una tecnologia che, almeno per ora, sembra destinata a rimanere un’illusione più che una vera opportunità.
Per quanto concerne il nostro Paese, c’è poi un’altra questione di peso, rappresentata dai risultati dei referendum con cui gli italiani, in due diverse occasioni, hanno in passato bocciato l’energia nucleare. Nel 1987, vinse con percentuali tra il 71% e l’80% il “sì” al referendum che chiedeva l’abolizione dell’intervento statale ove un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio, l’abrogazione per gli enti locali dei contributi pubblici per la presenza nel loro territorio di centrali nucleari e l’esclusione della possibilità per l’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Poi, nel 2009, il governo Berlusconi annunciò l’intenzione di rilanciare il nucleare: due anni dopo andò in scena un referendum che riguardava l’abrogazione delle norme che consentivano la realizzazione di nuove centrali nucleari in Italia: con un’affluenza del 54,8%, gli italiani votarono “sì” nel 94% dei casi, annullando di fatto i piani dell’esecutivo. Secondo la relazione illustrativa del ddl approvato dall’attuale governo, però, «il nucleare sostenibile oggi rappresenta una delle fonti energetiche più sicure e pulite» non essendo dunque «tecnologicamente comparabile con quello al quale, anche a seguito di referendum, il Paese aveva rinunciato».
[di Stefano Baudino]
Serbia, disastro di Novi Sad: decine di migliaia in piazza
In Serbia continuano le proteste per il disastro di Novi Sad, dove il 1° novembre è crollato il tetto di una stazione ferroviaria, uccidendo 15 persone. Ieri decine di migliaia di persone si sono riversate nella città meridionale di Niš per commemorare le vittime del crollo e prendere parte alla protesta guidata dagli studenti. I manifestanti hanno marciato in occasione del quarto mese dalla tragedia e si sono riversati sulle strade, occupandole con biciclette e bancarelle. Le manifestazioni per il disastro di Novi Sad proseguono da mesi e sono guidate dagli studenti. Nelle ultime settimane hanno portato alle dimissioni del primo ministro, accusato dai manifestanti di «corruzione».
USB, proclamato sciopero immediato dei camionisti
L’Unione Sindacale di Base (USB) ha proclamato uno sciopero nazionale immediato, riguardante i lavoratori dell’autotrasporto merci. Lo sciopero sarà ad oltranza, fino alla convocazione dei ministeri competenti con cui si dovrà discutere delle problematiche del settore. Il sindacato, nello specifico, si è scagliato contro le modifiche al Codice della Strada volute dal ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini.