giovedì 20 Novembre 2025
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Dalla Corte dei Conti una nuova bocciatura al Ponte sullo Stretto

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La magistratura contabile ha inferto un nuovo colpo al progetto del Ponte sullo Stretto: la Sezione centrale di controllo di legittimità della Corte dei Conti non ha concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spa, ampliando la crisi amministrativa aperta dal precedente rifiuto sul provvedimento Cipess. Questo nuovo stop, strettamente collegato alla precedente bocciatura della delibera Cipess di fine ottobre, blocca di fatto la definizione degli impegni amministrativi e finanziari necessari per la progettazione e realizzazione dell’opera, mettendo in discussione l’intero impianto giuridico del progetto.

La Corte dei Conti, in una nota ufficiale, ha comunicato di aver respinto il decreto n. 190 del primo agosto 2025, adottato «ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto-legge 31 marzo 2023, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2023, n. 58, recante “Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria”». Mentre si attendono le motivazioni complete – le prime previste entro fine novembre, le seconde per metà dicembre – gli scenari possibili per l’esecutivo si delineano tra due opzioni principali. La prima, più rischiosa, sarebbe procedere con una “registrazione con riserva”, procedura tecnicamente consentita ma che aprirebbe un nuovo fronte di scontro con la magistratura contabile. L’alternativa, preferibile ma potenzialmente più lunga, consisterebbe nell’apportare le correzioni necessarie per superare i rilievi della Corte, eventualmente ricorrendo a una nuova delibera.

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha commentato la decisione affermando: «Nessuna sorpresa: è l’inevitabile conseguenza del primo stop della Corte dei conti. I nostri esperti sono già al lavoro per chiarire tutti i punti. Resto assolutamente determinato e fiducioso». Una posizione condivisa dal suo ministero, che in una nota ufficiale ha espresso fiducia «sulla prosecuzione dell’iter amministrativo in attesa delle motivazioni della Corte». Anche la società concessionaria Stretto di Messina Spa ha cercato di minimizzare l’accaduto. Il presidente Giuseppe Recchi ha definito la decisione «non un atto nuovo» poiché «gli argomenti trattati sono strettamente collegati» al primo stop, annunciando un Consiglio di Amministrazione per il 25 novembre per esaminare la situazione. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha aggiunto che l’esito era «prevedibile perché l’atto convenzionale è funzionalmente collegato alla delibera di approvazione del progetto definitivo del ponte del Cipess del 6 agosto», confermando la «piena collaborazione» della società per fornire «tutti i nuovi approfondimenti richiesti».

A fine ottobre era arrivata la prima pronuncia della Corte dei Conti, che aveva respinto la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che impegna 13,5 miliardi di euro per la costruzione del Ponte. Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche le motivazioni ricalcherebbero i dubbi già espressi dalla Corte lo scorso settembre nella sua richiesta di chiarimenti: documentazione carente, calcoli poco chiari, e mancato rispetto delle norme ambientali. Tra le altre cose, i magistrati avevano evidenziavano la mancata coerenza dei calcoli relativi alle spese per il Ponte, rilevando un «disallineamento tra l’importo asseverato dalla società Kpmg in data 25 luglio 2025 – quantificato in euro 10.481.500.000 – e quello di euro 10.508.820.773 attestato nel quadro economico approvato il 6 agosto 2025», evidenziando come diverse voci, dagli oneri per le condizioni contrattuali (cct) a quelli per la sicurezza, fossero lievitate rispetto al progetto preliminare. L’esecutivo si è scagliato contro la decisione dei magistrati: la presidente del consiglio Giorgia Meloni l’ha definita «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento», mentre il ministro Salvini ha affermato che il governo andrà avanti per la propria strada. Ora è arrivato il secondo colpo.

Cadono così ancora nel vuoto i fragorosi annunci del Ministro Salvini sull’inizio dei lavori, che ormai si fanno fatica a contare. Nel marzo del 2023, durante la trasmissione “Cinque minuti su Rai 1”, Salvini dichiarò che i lavori sarebbero iniziati «entro l’estate 2024», per poi ripeterlo due mesi dopo in occasione della conferenza stampa di presentazione del decreto che ha riattivato la Società Stretto di Messina, e poi a settembre, in seguito a un incontro del cda della società. A fine maggio 2024, Salvini aveva sbandierato l’obiettivo di «aprire i cantieri entro l’anno 2024». L’“annuncite” è ricomparsa nell’aprile di quest’anno, quando Salvini ha annunciato che l’inizio della costruzione fosse distante solo «poche settimane». Lo scorso 19 maggio, il Ministro ha invece affermato che i cantieri sarebbero stati aperti entro l’estate di quest’anno. In ultimo, l’orizzonte temporale si è spostato all’autunno 2025, ma come un macigno sono arrivate le pronunce dei giudici amministrativi.

Ecuador, sconfitta per il governo neoliberista: al referendum vince il no alle basi USA

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L’Ecuador si è risvegliato con un verdetto che ribalta i piani del governo: la proposta di permettere la presenza di basi militari straniere, in particolare statunitensi, promossa dal presidente Daniel Noboa, è stata respinta con un netto “no” da 6 elettori su 10. Il risultato del referendum che si è tenuto domenica è un duro colpo per Noboa, che aveva condotto una campagna per modificare la Costituzione e revocare un divieto di ospitare sul territorio nazionale basi militari di Paesi stranieri, approvato dal parlamento nel 2008. La consultazione, che l’esecutivo aveva legato alla propria agenda di sicurezza e allineamento con Washington, si è trasformata in un giudizio politico incarnato dal presidente neoliberista. Il risultato ha messo a nudo la fragilità del governo di Quito, confermando un malessere sociale che da mesi attraversa il Paese.

Una volta reso noto l’esito del referendum, Noboa ha dichiarato su X che il suo governo «rispetterà la volontà del popolo» e continuerà a lottare per il Paese che «tutti meritano». Il referendum, che comprendeva tre quesiti, ha visto gli elettori rifiutare anche la fine dei finanziamenti pubblici ai partiti politici, la riduzione delle dimensioni del Congresso e l’istituzione di un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Il cuore politico della consultazione era, però, quello relativo al possibile ritorno di basi militari statunitensi sul territorio nazionale, ipotesi caldeggiata dal governo come parte di una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico e al crimine organizzato. Alleato del presidente Donald Trump, negli scorsi mesi il governo ecuadoriano aveva espresso l’interesse per l’apertura di una base statunitense e a marzo Noboa e Trump si erano incontrati per discuterne. Quito aveva puntato fortemente su questo voto, presentandolo come un passaggio fondamentale per rafforzare la sicurezza interna e proiettare l’Ecuador in una dimensione internazionale più stabile. La sconfitta, dunque, non è soltanto un risultato avverso: è un fallimento simbolico per un presidente che aveva cercato di legare la propria legittimazione alla capacità di imprimere una svolta liberista e filo-USA nel Paese.

Il contesto in cui si è arrivati alle urne era tutt’altro che sereno. Il consenso raccolto da Noboa alle elezioni di aprile scorso non si è tradotto in un sostegno solido e diffuso. Liberale e rappresentante della destra imprenditoriale, figlio del magnate ecuadoriano Alvaro Noboa, la sua impostazione economica orientata alle privatizzazioni e alla riduzione del ruolo dello Stato, unita alla crescente dipendenza da Washington in materia di sicurezza, ha alimentato sospetti e ostilità in ampie fasce della popolazione. L’Ecuador è un Paese che storicamente diffida della presenza militare straniera e l’idea di affidare a Washington un ruolo diretto nelle strategie interne ha riacceso tensioni sopite. Nei mesi precedenti al voto, manifestazioni diffuse avevano già messo sotto pressione l’esecutivo. Le proteste e gli scioperi contro le misure economiche neoliberiste, il caro vita e la gestione della sicurezza avevano coinvolto studenti, lavoratori, categorie produttive e, soprattutto, le comunità indigene.

In questo clima, il referendum è diventato una sorta di plebiscito sull’intero progetto politico del governo di Quito. Non a caso, il voto negativo sulle basi USA è stato accompagnato da un ampio dissenso anche sugli altri quesiti, che molti hanno interpretato come parte di un disegno volto a concentrare maggiormente il potere nelle mani dell’esecutivo. La bocciatura del pacchetto referendario segnala dunque una resistenza più ampia: non si tratta solo di rifiutare la presenza di truppe straniere, ma di contestare un modello politico-economico percepito come lontano dalle esigenze della popolazione. Ora, l’asse con Washington ne esce incrinato e la cooperazione militare con gli Stati Uniti diventa più difficile. La vittoria del “no” lascia il presidente più debole e costretto a rivedere un progetto che la società ha respinto, mentre il Paese rivendica il diritto di decidere autonomamente il proprio futuro senza pressioni né ingerenze esterne.

Internet sta avendo un malfunzionamento globale

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Diversi siti internet stanno avendo un malfunzionamento a causa di un problema tecnico di Cloudfare, piattaforma che offre servizi per la gestione dei siti. Cloudfare è una delle piattaforme maggiori al mondo e tra i siti che stanno avendo difficoltà ve ne sono alcuni di molto noti e trafficati, come il social X (ex Twitter) e ChatGPT. Clodufare ha fatto sapere di stare lavorando per ripristinare l’erogazione dei propri servizi; l’azienda ha identificato la causa del malfunzionamento e alcuni siti stanno lentamente tornando a funzionare.

“I.A. BASTA!”: l’appello dei docenti contro l’intelligenza artificiale a scuola

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Un appello, una mozione e un questionario per dire “basta” all’intelligenza artificiale nella scuola. È questo il cuore della mobilitazione lanciata dal gruppo auto-organizzato di lavoratrici e lavoratori della scuola, che vede la partecipazione di docenti, personale ATA, rappresentanti del sindacalismo di base. Il 18 novembre sarà il giorno del lancio pubblico dell’appello nazionale I.A. BASTA!, rivolto alle «comunità educanti d’Italia».

Da Torino a Palermo, gli insegnanti denunciano quello che definiscono «l’attacco finale alla scuola della Repubblica» da parte del Ministero dell’Istruzione, accusato di voler imporre strumenti di IA centralizzati nelle attività didattiche. «L’intelligenza artificiale, lasciata in mano a una manciata di miliardari, diviene una minaccia esistenziale alla scuola. La scuola non è una mensa in cui si consumano pasti pronti, ma una cucina», si legge nel testo.

L’appello richiama i principi costituzionali — in particolare gli articoli 33 e 11 — per ribadire che la libertà d’insegnamento e il rifiuto della guerra passano anche attraverso la scelta consapevole delle tecnologie. «Ripudiare la guerra significa anche rifiutare chi la rende possibile: Google, Amazon, Meta, Microsoft, OpenAI, Palantir…»: il documento collega la critica all’IA con una più ampia riflessione sul potere dei colossi tecnologici. «Il nostro settore non è quello produttivo, pertanto non vogliamo foraggiare quattro bifolchi miliardari», spiega Gianluca Maestra, professore della scuola pubblica e portavoce dell’appello.

Il gruppo si definisce erede di 35 anni di lotte nella scuola italiana e denuncia la precarietà strutturale e la crescente subordinazione dell’istruzione pubblica agli interessi privati. «Noi docenti siamo 900 mila professionisti che ogni giorno praticano l’unico ingrediente indispensabile per l’apprendimento: la relazione umana», scrivono. Il movimento invita il personale scolastico a rifiutare l’adozione di piattaforme come ChatGPT, Gemini o Claude, considerate strumenti di «addestramento alla sottomissione», e propone invece l’uso di tecnologie open source, controllate dalla comunità educativa. Ai genitori, agli studenti, come a tutti i cittadini della Repubblica, viene chiesto di unirsi per «rigettare strumenti di asservimento». «Non siamo apocalittici, nessuno dice che l’IA non sarà il futuro… ma sarà efficace?», chiede Maestra.

Nell’appello si rivendica una posizione luddista: «Come i lavoratori di Nottingham, anche noi amiamo le tecnologie che si integrano con la società, ma rifiutiamo quelle che distruggono il lavoro e i legami sociali». Il 18 novembre segnerà dunque l’avvio pubblico di una campagna che si annuncia diffusa e combattiva. Con un obiettivo chiaro: riportare il governo della scuola nelle mani di chi la vive ogni giorno e difendere la libertà di insegnamento dalle logiche del profitto e del controllo algoritmico.

In questo contesto, il CESP Veneto promuove un corso di aggiornamento per tutto il personale scolastico dal titolo Intelligenza artificiale e scuola: uno sguardo critico alla luce delle linee guida ministeriali, che si terrà martedì 25 novembre 2025 presso l’Istituto Giovanni Valle di Padova.

INPS: donne retribuite -29% rispetto agli uomini

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Nel 2024, su una platea di 17,7milioni di persone con almeno un giorno di lavoro retribuito nel settore privato non agricolo, le donne sono state retribuite in media con 19.833 euro. Il dato indica che la retribuzione femminile si attesta al 29% in meno degli uomini, che invece vengono pagati 27.967 euro in media. Il calcolo è stato effettuato dall’Osservatorio Inps del settore. Le giornate medie lavorate sono 247: 251 per gli uomini, 11 in meno per le donne. Sulla retribuzione, evidenzia l’Osservatorio, pesano il maggior ricorso femminile al part-time, la precarietà del lavoro e la qualifica inferiore.

Il governo Meloni approva: altre armi all’Ucraina e ok al riarmo europeo

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Il governo Meloni conferma il suo sostegno a Kiev nonostante le tensioni nella maggioranza, approvando il dodicesimo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina. La decisione, confermata al termine di una lunga riunione del Consiglio supremo di difesa presieduto dal Presidente della Repubblica, rilancia la partecipazione italiana alle iniziative di Unione Europea e NATO verso l’Ucraina e segna al contempo una spinta decisa al riarmo e all’adeguamento delle capacità europee alle nuove minacce. Secondo quanto programmato, il pacchetto verrà illustrato dal ministro della Difesa Guido Crosetto al Copasir il prossimo 2 dicembre. Sembrano dunque essere rientrati i malumori del capo della Lega Matteo Salvini, che nei giorni scorsi – in seguito allo scoppio dello scandalo sulla corruzione in Ucraina – si era detto scettico su nuovi invii di armi.

Nel comunicato finale si legge che il Consiglio «osserva con preoccupazione l’accanimento della Russia nel perseguire, ad ogni costo, i propri obiettivi di annessione territoriale». Viene sottolineato come «Kiev resta bersaglio di continui bombardamenti contro infrastrutture critiche e civili, con gravi interruzioni energetiche e numerose vittime» e che «il prezzo sostenuto dalla popolazione è sempre più pesante e iniquo». Da questa analisi discende la conferma del sostegno militare: «In questo senso si inquadra il dodicesimo decreto di aiuti militari. Fondamentale rimane la partecipazione alle iniziative dell’Unione Europea e della NATO di sostegno a Kiev e il lavoro per la futura ricostruzione del Paese». Il conflitto ha inoltre spinto il governo a riflettere sulla necessità di un adeguamento delle capacità difensive europee. «Il conflitto ha mostrato una trasformazione nella condotta delle azioni militari soprattutto per quanto riguarda l’impiego di droni, che la Russia utilizza anche violando lo spazio areo della NATO e dei Paesi dell’Unione Europea» si legge nel documento. «Se da un lato tali azioni hanno confermato la prontezza dell’Alleanza Atlantica, dall’altro evidenziano anche la necessità per l’Europa di adeguare le capacità ai nuovi scenari attraverso la definizione di progetti d’innovazione come quelli contenuti nel Libro bianco per la difesa 2030».

Guardando alla situazione sul campo, l’Ucraina sta affrontando una situazione sempre più critica sui fronti di Donetsk e Zaporizhzhia, dove l’intensificarsi degli attacchi russi ha costretto le truppe ucraine alla ritirata in diversi punti. Nell’oblast di Zaporizhzhia, l’esercito di Kiev si è ritirato da cinque insediamenti, mentre a Pokrovsk i russi sono riusciti a penetrare nella città approfittando della fitta nebbia, che ha favorito l’ingresso di circa trecento soldati. Il comandante in capo Oleksandr Syrskyi ha ammesso che le forze russe godono di una posizione «dominante», con la situazione notevolmente peggiorata specialmente nelle direzioni di Oleksandrivsky e Gulyaipol, dove il vantaggio numerico e di mezzi ha permesso a Mosca di conquistare tre villaggi. Combattimenti con pesanti perdite ucraine si sono verificati anche a Rivnopillia e Yablukove. A complicare ulteriormente la situazione politica interna di Kiev è esploso uno scandalo per corruzione che ha travolto il ministero dell’Energia: l’anticorruzione ha arrestato cinque persone — tra dirigenti e un imprenditore — accusate di aver intascato tangenti per circa 100 milioni di dollari, sottraendo fondi destinati a proteggere i civili dai blackout.

Al tavolo del Quirinale, convocato per tre ore, hanno partecipato i principali esponenti dell’esecutivo e i vertici militari: la premier, i ministri competenti e il Capo di Stato maggiore della difesa. La scelta italiana arriva in un clima politico non privo di tensioni: la Lega aveva espresso negli scorsi giorni pesanti riserve sui nuovi invii, sottolineando la portata di «fatti nuovi di assoluta gravità e grande rilevanza». Lo stesso Matteo Salvini aveva dichiarato: «Mi sembra che stiano emergendo gli scandali legati alla corruzione, poi coinvolgono il governo ucraino, quindi non vorrei che con quei soldi dei lavoratori, dei pensionati italiani si andasse ad alimentare ulteriore corruzione». Eppure, come attesta il via libera dell’esecutivo, la linea ufficiale resta il pieno supporto a Kiev.

Vicenza, maxi-operazione contro mafia nigeriana: 20 arresti

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Nelle prime ore del mattino è scattata una vasta operazione dei Carabinieri di Vicenza, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia, contro un’organizzazione criminale nigeriana radicata nel capoluogo berico. Sono state eseguite 20 misure di custodia cautelare in carcere e avviate numerose perquisizioni domiciliari in tutto il Paese, con interventi concentrati soprattutto in Veneto, Frosinone e Viterbo. All’operazione partecipano 300 militari provenienti da tutto il Veneto, supportati da reparti speciali, unità cinofile antidroga e un elicottero del 14° elinucleo di Belluno.

Stop al cambio d’ora? Avviato l’iter per rendere permanente l’ora legale

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ora legale permanente

Il cambio dell’ora, che per 2 volte all’anno costringe i cittadini a riprogrammare le proprie abitudini, potrebbe essere abolito. Se ne parla da anni, in Italia e in Europa, senza che però venga presa nessuna decisione. Nel 2018 l’Unione europea avviò una consultazione pubblica per capire cosa ne pensassero i cittadini e il risultato, con l’84% dei partecipanti che chiese di abolire il cambio, non lasciò spazio ad interpretazioni, ma siccome non fu trovato un accordo tra i vari Paesi membri, si risolse tutto in un nulla di fatto. Ora in Italia le cose potrebbero cambiare: alla Camera dei Deputati si è tenuto un appuntamento promosso dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima), da Consumerismo No profit e dal deputato Andrea Barabotti (Lega), con l’obiettivo di avviare un iter parlamentare per rendere permanente l’ora legale. Le due organizzazioni hanno consegnato 352 mila firme dei cittadini a supporto della petizione e, se tutto filerà liscio, la legge potrebbe essere pronta per essere discussa nel giugno del 2026.

L’ora solare è l’orario “naturale”, basato sul mezzogiorno astronomico. L’ora legale, invece, prevede lo spostamento delle lancette dell’orologio un’ora avanti, per sfruttare meglio la luce nelle giornate più lunghe della primavera–estate. Nella pratica, passando dall’ora solare all’ora legale, oltre a dormire un’ora in meno nella notte del cambio, si “guadagna” un’ora in più di luce alla sera. È un’operazione dovuta principalmente al risparmio energetico, in passato più pronunciato, oggi meno evidente grazie ad esempio alla grande diffusione di luci a led, che consumano meno, e la migliore sicurezza stradale e pubblica. Sul risparmio energetico le associazioni che hanno lanciato la petizione ricordano che: “Dal 2004 al 2025 l’ora legale ha consentito risparmi in bolletta per complessivi 2,3 miliardi di euro, pari a minori consumi di energia per oltre 12 miliardi di kWh (dati Terna), e ha ridotto le emissioni di CO2 in atmosfera tra le 160mila e le 200mila tonnellate in meno all’anno, pari a quella assorbita piantando dai 2 ai 6 milioni di nuovi alberi”. Oltre a questi aspetti, l’avere più luce nelle ore serali aumenta la produttività delle attività economiche correlate, e permette alle persone di avere più luce naturale per attività quotidiane, spostamenti, sport e vita sociale. E non è una cosa da poco, perché la luce naturale aumenta la socialità e il benessere percepito delle persone.

Le problematiche invece, derivano tutte dalla necessità di cambiare l’ora. Oltre a perdere un’ora di sonno (quando il passaggio è dall’ora solare a quella legale in primavera) il rischio è quello di subire uno sfasamento dei ritmi circadiani che può durare giorni, o addirittura settimane, con problematiche come stanchezza, irritabilità e calo dell’attenzione fino ad arrivare a rischio di aritmie e addirittura infarti, come testimoniato da alcuni studi scientifici. Secondo altri studi ci sarebbe invece un aumento di incidenti stradali e infortuni sul lavoro nelle 24-72 ore successive al cambio. Inoltre genera spesso problemi di sincronizzazione internazionale degli orari, ad esempio per i voli internazionali. Ad oggi infatti Europa, Canada e buona parte degli Stati Uniti effettuano ancora il cambio d’ora, ma molti Paesi asiatici e quasi tutti quelli africani, non lo effettuano più.

La prima applicazione concreta del cambio d’ora avvenne nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, in Paesi europei come Grand Bretagna, Germania e Italia. Dopo la fine della guerra è stata poi abolita e reintrodotta più volte, fino alla crisi petrolifera degli anni ’90, che portò molti Paesi a reintrodurre l’ora legale per contenere i consumi energetici. L’Unione europea ha regolato il processo definitivamente nel 2001, con una direttiva che stabilisce che il periodo dell’ora legale in tutti gli Stati membri inizia l’ultima domenica di marzo e termina l’ultima domenica di ottobre.

Frana e allagamenti in Friuli: due morti e oltre 300 evacuati

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Un’improvvisa frana di fango ha travolto tre abitazioni nella frazione di Brazzano di Cormons, in provincia di Gorizia, durante l’ondata di maltempo che ha colpito il Friuli Venezia Giulia. Un uomo è stato estratto vivo, mentre i due dispersi, un 32enne di origine tedesca e una 83enne a cui stava prestando soccorso, sono stati ritrovati senza vita. Contemporaneamente è esondato il fiume Torre nella zona di Romans d’Isonzo: circa 300 persone sono state evacuate e alcune si sono rifugiate sui tetti. La situazione ha spinto la regione a dichiarare lo stato di emergenza ed è stato attivato il supporto del Dipartimento della Protezione Civile nazionale per i soccorsi. Le precipitazioni hanno superato i 150-200 mm nelle aree colpite in poche ore, aggravando la criticità del terreno.

L’ONU ha approvato il piano USA per Gaza: astensioni decisive di Russia e Cina

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Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato ieri sera la risoluzione presentata dagli Stati Uniti per la Striscia di Gaza, raccogliendo 13 voti favorevoli dei 15 Stati membri e le astensioni di Russia e Cina che hanno evitato l’uso del veto. Il piano in 20 punti, elaborato dal presidente americano Donald Trump, prevede la creazione di un’autorità transitoria nella Striscia e l’invio di una forza internazionale di stabilizzazione incaricata di supervisionare la sicurezza, la ricostruzione e il disarmo di Hamas. Sul campo, la tregua resta fragile: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ribadisce il suo no alla creazione di uno Stato palestinese, mentre Hamas respinge l’invio di forze internazionali a Gaza.

La risoluzione approvata dall’ONU incorpora il piano Trump, che punta a stabilire nella Striscia un organismo chiamato “Board of Peace”, un organo di “governance transitoria” a Gaza fino al 31 dicembre 2027, presieduto da Trump e sostenuto da Paesi partner, con l’obiettivo di assumere funzioni di governo, coordinare la ricostruzione e garantire una transizione verso una forma di autogoverno palestinese tecnocratico. Il mandato della forza internazionale autorizzata comprende il controllo delle frontiere, la smilitarizzazione dell’area e il monitoraggio della gestione delle armi. Il testo prevede anche che, una volta realizzati gli obiettivi iniziali, si possa promuovere una “via credibile” verso l’autodeterminazione palestinese. La fumata bianca dell’ONU conferisce al piano una legittimazione internazionale significativa: l’azione sarà ora accompagnata da una serie di scadenze tecniche e politiche che dovranno tradursi rapidamente in passi concreti. Mentre Trump ha celebrato il voto sulla sua piattaforma Truth Social come «un momento storico», Hamas invece si è opposto alla risoluzione, giudicandola “pericolosa” e sostenendo che non soddisfa «le richieste e i diritti politici e umanitari del popolo palestinese».

Le astensioni della Russia e della Cina si sono rivelate decisive. La loro astensione ha consentito l’approvazione della risoluzione senza un voto contrario, che avrebbe potuto bloccare il testo. Nei giorni scorsi la Russia aveva presentato una bozza alternativa. Mosca e Pechino, pur non opponendosi formalmente, hanno sollevato riserve riguardo alla definizione del ruolo dell’ONU nella futura governance della Striscia e sulle modalità di implementazione del piano. L’ambasciatore cinese Fu Cong ha motivato la sua astensione dichiarando che la bozza è «carente sotto molti aspetti», mentre l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia ha affermato che la risoluzione «semplicemente non si poteva sostenere», lamentando l’assenza della formula fondamentale dei due Stati e l’indeterminatezza sui tempi per il trasferimento del controllo di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese. Per gli Stati Uniti è una vittoria diplomatica che rafforza la loro presenza nell’arena mediorientale; per Israele e i partner arabi che sostenevano l’iniziativa è un segnale forte, sebbene questi ultimi avessero richiesto un linguaggio più forte a favore del riconoscimento palestinese.

Con la risoluzione entrata in vigore, i prossimi passi riguardano la nomina dei componenti del Board of Peace, la mobilitazione della forza internazionale, la ridefinizione del controllo su Gaza e l’avvio della ricostruzione infrastrutturale su vasta scala. Restano sul tavolo nodi tutt’altro che risolti: il disarmo di Hamas, la gestione del ritorno dei rifugiati, la ricostruzione in condizioni di emergenza e, soprattutto, la natura e i tempi della governance palestinese futura. Intanto, Netanyahu ha ribadito che Israele si oppone alla creazione di uno Stato palestinese «in qualsiasi territorio a ovest del Giordano», affermando che Gaza dovrà essere «smilitarizzata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile». Dello stesso avviso il capo dell’IDF, Eyal Zamir, secondo cui le forze israeliane devono essere pronte a una transizione rapida verso un’offensiva su vasta scala per occupare ulteriori aree della Striscia di Gaza «oltre la Linea Gialla». Tra le continue violazioni della tregua da parte di Israele, le tensioni tra l’IDF e il contingente internazionale dell’UNIFIL e la situazione drammatica sul campo per la popolazione palestinese, la linea di Tel Aviv, impermeabile a pressioni internazionali, rende ancora più incerto il percorso verso una pace duratura e rischia di svuotare la stessa risoluzione ONU della sua capacità di incidere sul terreno.