venerdì 21 Novembre 2025
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La disputa su Taiwan riaccende la tensione tra Cina e Giappone

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A poco meno di un mese dall’insediamento della nuova premier del Giappone, Sanae Takaichi, le relazioni tra Pechino e Tokyo sono precipitate, compromettendo rapidamente gli equilibri dell’area. Ancora una volta a catalizzare i nervosismi tra i due Paesi è l’isola di Taiwan, che gode de facto di autonomia politica e commerciale, ma che dal 1949 è sotto le mire del colosso cinese.

Le nuove tensioni non si presentano come un fulmine a ciel sereno. Già nel 2022, durante la controversa visita a Taipei dell’ex speaker della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi, la Cina mise in atto varie esercitazioni militari intorno all’isola e, con la caduta di alcuni razzi nella Zona Economica Speciale del Giappone, pose in allerta il governo di Tokyo sulla possibilità di entrare in un conflitto armato in caso di invasione di Taiwan.

Questa volta la crisi diplomatica è stata innescata dalle dichiarazioni pronunciate il 7 novembre dalla premier giapponese. «La presenza di navi da guerra e l’utilizzo della forza potrebbero costituire una minaccia alla sopravvivenza» ha affermato Takaichi in occasione della sua prima interrogazione parlamentare in merito a un ipotetico attacco cinese verso Taiwan. Differentemente dai suoi predecessori, la premier ha messo in luce con una certa schiettezza la necessità di fare ricorso alle forze di autodifesa del paese per intervenire in una situazione nella quale il Giappone non sarebbe direttamente interessato. 

Le reazioni di Pechino non si sono fatte attendere. Inizialmente i media cinesi hanno attaccato duramente la postura del governo giapponese, successivamente i vertici militari di Pechino hanno messo in guardia Tokyo e hanno parlato di «sconfitta schiacciante» in caso di intervento. Alle parole hanno fatto seguito le ritorsioni: il governo cinese ha caldamente sconsigliato ai suoi cittadini di recarsi in Giappone e alcune agenzie turistiche hanno annullato tour e viaggi verso il paese del Sol levante, mettendo così a repentaglio l’economia turistica giapponese, che solo nei primi otto mesi del 2025 ha visto il transito di 6,7 milioni di turisti cinesi, pari a un quinto dei visitatori totali. L’invito del governo cinese a fare ritorno in madrepatria si è esteso anche ai 100.000 studenti residenti in Giappone.

La crisi ha colpito anche l’importazione di prodotti audiovisivi giapponesi verso il territorio cinese, in particolar modo ha rinviato l’uscita in sala di due film. Per ultimo, il governo di Pechino, dopo i colloqui ritenuti insufficienti con Masaaki Kanai, responsabile degli affari con l’Asia e l’Oceania del ministero degli esteri giapponese, ha annunciato l’interruzione delle importazioni di prodotti ittici dall’arcipelago nipponico.

L’ambasciata giapponese a Pechino, invece, ha invitato i residenti in Cina a prestare attenzione a possibili rappresaglie, facendo implicitamente riferimento alle aggressioni che si verificarono nel 2024 contro due cittadini giapponesi in territorio cinese.

La situazione infiamma ulteriormente le relazioni già rese complicate a causa delle eredità storiche presenti tra i due Paesi. Se da un lato la Cina nutre ancora rancore verso i crimini di guerra commessi dal paese nipponico durante gli anni del colonialismo e della guerra mondiale, dall’altro la figura di Sanae Takaichi non può che inasprire la diplomazia tra le due potenze dell’area. La premier ultranazionalista, difatti, in passato ha più volte rappresentato l’ala revisionista del paese e nel corso degli anni ha espresso più volte sostegno verso attivisti uiguri, tibetani e hongkonghesi, mettendo in evidenza la propria vicinanza verso cause “anti-cinesi”. Lo scorso aprile, inoltre, Takaichi si è recata in visita proprio a Taiwan e in quell’occasione aveva reiterato la cooperazione tra i due Paesi in ambito commerciale ed economico, facendo riferimento alle condizioni geografiche dei due territori insulari. Il presidente taiwanese Lai Ching-Te, invece, in occasione dell’insediamento della premier ha rivolto le proprie congratulazioni affiancate dall’augurio per una collaborazione duratura improntata sulla ricerca del benessere di entrambi i Paesi.

Le nuove tensioni si iscrivono in un contesto geopolitico fortemente delicato. La situazione sembra precipitare subito dopo gli incontri tra Xi Jinping, Donald Trump e la stessa Takaichi, durante i quali il futuro di Taiwan è stato astutamente messo da parte dinanzi alla necessità di risolvere problematiche commerciali evidentemente considerate più urgenti. La Cina adesso pretende la ritrattazione sulla questione da parte del Giappone; in attesa di improbabili scuse, l’equilibrio dell’intera area si è fatto irrimediabilmente precario.

Ddl Violenza, primo sì dalla Camera

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Con 227 voti favorevoli e nessuno contrario, la Camera dei Deputati ha approvato il DDL Violenza, che introduce il concetto di consenso nel codice penale. L’approvazione è arrivata dopo un accordo tra maggioranza e opposizioni. Con il DDL, chiunque compia o faccia compiere atti sessuali “senza il consenso libero e attuale” altrui potrebbe essere punito con la reclusione da sei a dodici anni. Oggi, il reato di violenza sessuale è normato dall’articolo 609-bis del codice penale, e punisce chi “con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità” costringe un’altra persona “a compiere o a subire atti sessuali”. Con il sì unanime alla Camera, ora la parola passa al Senato.

Le gemelle Kessler, il fine vita e il diritto di scelta

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Le gemelle Alice ed Ellen Kessler arrivarono in Italia nel 1961, nel pieno boom economico che il nostro Paese stava vivendo e sono mancate nei giorni scorsi, insieme, all’età di 89 anni. Negli anni avevano più volte ribadito che nessuna delle due avrebbe voluto sopravvivere alla scomparsa dell’altra, e così si erano organizzate per tempo, richiedendo il suicidio assistito e scegliendo la data, il 17 novembre scorso.
Quando arrivarono nel nostro Paese erano gli anni della nascita dei grandi complessi industriali, con l’Autostrada del sole in via di ultimazione per essere percorsa in lungo e in ...

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Corruzione in Ucraina, l’opposizione blocca il Parlamento: «Zelensky sapeva»

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In seguito al recente più grave scandalo di corruzione in tempo di guerra, il Parlamento ucraino si trova ad affrontare una profonda crisi politica, tanto che ieri, martedì 18 novembre, l’opposizione ha bloccato i lavori parlamentari. Il principale partito di minoranza, Solidarietà Europea, ha infatti impedito la votazione per fare dimettere due ministri del governo presumibilmente coinvolti in uno schema di corruzione del valore di cento milioni di dollari, dichiarando che il suo obiettivo è quello di fare dimettere l’intero governo. Il sospetto, infatti, è che lo stesso presidente Volodymyr Zelensky fosse a conoscenza del sistema di corruzione che ha coinvolto il settore energetico, considerati gli stretti legami che intrattiene con alcuni degli indagati. Lo scontro alla Verchovna Rada (il parlamento ucraino) riflette la rabbia crescente della popolazione, costretta a restare al buio a causa dei bombardamenti russi alle infrastrutture energetiche, mentre una presunta casta di politici corrotti distrae i fondi pubblici – ricevuti da donatori e dagli Stati occidentali – per arricchirsi.

Nello specifico, ieri il Parlamento avrebbe dovuto votare sulle dimissioni del ministro dell’Energia Svitlana Hrynchuk e del suo predecessore German Galushchenko, che ora ricopre la carica di ministro della Giustizia. Entrambi negano di essere coinvolti nella vicenda: tuttavia, Hrynchuk ha dato le dimissioni mentre Galushchenko è stato sospeso in attesa dell’esito dell’indagine. Intanto, cinque sospettati sono stati arrestati, tra cui l’ex vice primo ministro Oleksiy Chernyshov, mentre due sono latitanti: uno di questi è uno degli ex soci in affari del presidente Volodymyr Zelenskiy, Timur Mindich, fuggito dal Paese la scorsa settimana e considerato capo del sistema di corruzione. In questo contesto, ieri il partito di opposizione ha bloccato la Verchovna Rada esponendo cartelli con slogan come «Qual è il prezzo dell’oscurità?». Da parte loro, alcuni membri del partito di maggioranza (Servitore del popolo) hanno accusato gli avversari politici di impedire al Parlamento di intervenire: «Mentre alcuni ladri scappano e si nascondono, altri – i politici populisti – mettono in scena uno spettacolo», ha affermato Danylo Hetmantsev, un deputato del partito di Zelensky.

Secondo quanto emerso dall’indagine dell’Ufficio nazionale anticorruzione dell’Ucraina (la NABU), presentata lunedì e durata 15 mesi, circa 100 milioni di dollari destinati a proteggere le centrali elettriche dal sabotaggio russo sarebbero stati in realtà sottratti da alcuni funzionari a partire dal 2022. La NABU ha soprannominato l’inchiesta operazione “Midas” e ha raccolto prove secondo cui i funzionari corrotti chiedevano una tangente tra il 10 e il 15 per cento ai fornitori dell’Energoatom, l’azienda statale dell’energia nucleare, in cambio della possibilità di concludere affari senza subire blocchi interni. I nastri diffusi dalla NABU affermano che circa 1,2 milioni di dollari sono andati nelle tasche di un ex vice primo ministro (Oleksiy Chernyshov), che gli indagati chiamavano “Che Guevara”. Sebbene Zelensky abbia promesso di riorganizzare il settore energetico ucraino accogliendo con favore l’indagine dell’Agenzia anticorruzione e sostenendo le dimissioni dei ministri coinvolti, solo la scorsa estate il presidente ucraino aveva tentato di smantellare gli uffici anticorruzione della nazione (la NABU e la SAPO, la Procura speciale anticorruzione). Solo le veementi proteste popolari lo costrinsero, suo malgrado, a fare marcia indietro.

Si scopre ora che Zelensky ha stretti legami con alcuni degli indagati, benché il presidente non risulti direttamente coinvolto nella vicenda, soprannominata anche la truffa del “gabinetto dorato”. La mente dello schema corruttivo sarebbe, infatti, Timur Mindich, imprenditore e co-fondatore insieme a Zelensky della società di intrattenimento Kvartal 95, dove il capo ucraino ha fatto carriera come star di sitcom prima di ottenere la carica di presidente nel 2019. Il New York Post riporta che i due avevano persino degli appartamenti nello stesso edificio dove, secondo un ex funzionario del governo ucraino, Tymur aveva un appartamento con i bagni dorati. In base alle ultime informazioni, Mindich sarebbe fuggito la scorsa settimana in Israele. Anche l’ex vice primo ministro, Oleksiy Chernyshov, è stato uno stretto collaboratore del capo di Kiev, avendo ricoperto incarichi nel suo governo dal 2019. Lo stesso è stato anche accusato di abuso d’ufficio.

Lo scandalo che coinvolge i vertici del governo ucraino avviene in un momento delicato, in cui la popolazione è spesso senza corrente elettrica e in cui l’esercito sta subendo importanti sconfitte, ad esempio nei pressi di Pokrovsk. Il tutto ha generato sfiducia nei finanziatori di Kiev e potrebbe allontanare l’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Nonostante ciò, l’UE e gli Stati membri continuano a finanziaria con fondi ingenti l’ex Stato sovietico, costretto a fare i conti con una profonda crisi politica, specchio a sua volta di un evidente collasso morale.

 

La Lituania riapre i confini con la Bielorussia

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La Lituania ha annunciato che riaprirà i propri valichi di frontiera con la Bielorussia. Il confine riaprirà a partire da domani. La scelta di chiudere i valichi di frontiera con Minsk da parte della Lituania è arrivata dopo un episodio, registrato il 26 ottobre, in cui diversi palloni aerostatici avrebbero oltrepassato il confine dalla Bielorussia con il fine di contrabbandare sigarette. I confini avrebbero dovuto rimanere chiusi fino al 30 novembre, e la loro chiusura ha causato una diatriba diplomatica tra i due Paesi: la scorsa settimana, oltre 1.000 camion sono rimasti bloccati in Bielorussia; la Lituania ha accusato la Bielorussia di volere sequestrare i mezzi, ma Minsk ha respinto le accuse.

No al caporalato made in Italy: azione collettiva contro lo scudo penale nella moda

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Dopo gli scandali e le inchieste che hanno coinvolto noti marchi italiani della moda di lusso, accusati di sfruttamento e caporalato, sono arrivate le proposte per cercare di arginare e regolamentare i problemi a monte e le prime azioni collettive ad opera di varie associazioni. Dopo che, a maggio, è stato siglato il Protocollo d’intesa per la legalità dei contratti di appalto nelle filiere produttive della moda, è ora arrivato un nuovo strumento: la certificazione unica di conformità. Si tratta di uno strumento volontario che punta ad attestare legalità, trasparenza e correttezza lungo tutta la filiera produttiva, che punta a tutelare tanto l’immagine del Made in Italy quanto il rispetto delle normative sociali e fiscali. Tuttavia, la misura non convince organizzazioni e associazioni, che ritengono che il provvedimento costituisca a tutti gli effetti uno scudo penale per le società.

In sintesi, il Protocollo propone una banca dati regionale per censire fornitori e manodopera impiegata; una piattaforma messa a punto dal Politecnico di Milano e gestita dalla Regione stessa per raccogliere dati ed informazioni della filiera produttiva. Quante e quali informazioni devono essere inserite dipende dalle dimensioni dell’impresa ed in ogni caso si tratta di una piattaforma ad iscrizione volontaria. Alle aziende fornitrici accreditate verrà rilasciato un Attestato di trasparenza del settore moda; i brand che decidono di aderire al protocollo si impegnano a richiedere per via contrattuale al fornitore un impegno a rispettare le norme giuslavoristiche. Questa proposta, per quanto sia un inizio costruttivo, lascia spazio a diverse perplessità, prima tra tutti il suo limitato aspetto regionale (quando sappiamo benissimo che ci sono aziende produttrici sparse in svariati distretti e in numerose regioni, da Nord a Sud della penisola). Altro grande punto interrogativo sorge sulla possibilità di essere esentate dalla piattaforma le aziende produttrici di diretta proprietà dei brand (come se quelle avessero di default la coscienza pulita, o più semplicemente rientrano tra “gli intoccabili”). Infine, ogni misura volontaria lascia il tempo che trova.

Con il recente disegno di legge sulle piccole e medie imprese, poi, è arrivata la certificazione unica di conformità per le aziende del settore moda: un sistema di attestazione che garantisce la legalità, la trasparenza e la correttezza lungo l’intera filiera produttiva. Questa certificazione, definita anche come “bollino di garanzia”, ha l’obiettivo di tutelare sia l’immagine del Made in Italy che di promuovere pratiche di lavoro corrette e rispettose delle normative sociali e fiscali. A poter richiedere “il bollino” sono tutte quelle società lige i cui titolari o amministratori non abbiano avuto condanne penali negli ultimi tre anni o sanzioni riguardanti inadempimenti di normative sul lavoro, che si impegnano a sottoscrivere contratti regolari con le aziende fornitrici (che a loro volta lo dovrebbero fare con i subfornitori). In pratica il bollino viene rilasciato a chiunque faccia dei contratti “a norma”. Niente di nuovo, dunque, oltre al fatto che questo tipo di documenti potrebbero essere falsificati (come spesso è stato fatto fino ad ora). La proposta di legge, infatti, non prevede né controlli né verifiche, né alcun tipo di miglioria concreta e dimostrabile, creando un precedente pericoloso.

«La certificazione unica di conformità permetterà alle aziende di operare come sempre, continuando a violare le norme con l’avallo delle istituzioni, creando a tutti gli effetti uno scudo penale contro le società capofila (o qualunque anello della catena che si procuri la certificazione)». Questa la paura delle 23 organizzazioni che si stanno movimentando per bloccare il disegno di legge – tra le quali ci sono capofila Campagna Abiti Puliti, l’ASGI, OXFAM e Libera. Lo sfruttamento all’interno della filiera – purtroppo – è ormai strutturale, un modello di business ben inserito nel contesto fashion a vari livelli. L’ennesima certificazione volontaria non servirà certo ad eliminare violazioni ed illegalità. Anzi. Permetterà di perpetuare nel tempo quello che già succede: sfruttamento e agevolazione colposa del caporalato nella subfornitura da parte delle aziende capofila. Le organizzazioni contestano apertamente questa norma, auspicando un settore realmente sostenibile. 

La moda ha bisogno di politiche industriali e del lavoro serie ed efficaci, per trasformare il comparto in maniera sana, innovativa, con un occhio alla transizione ecologica e l’altro ai diritti dei lavoratori. Non di altre misure opache per permettere a chi ha costruito imperi su pratiche scorrette di continuare ad aggiungere mattoni a discapito di altri esseri umani. L’appello è aperto.

Scuola: un emendamento di maggioranza vuole regalare 20 milioni alle private

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Rispunta anche quest’anno, tra gli emendamenti alla legge di bilancio, il voucher da 1.500 euro per chi iscrive i figli alle scuole paritarie di primo e secondo grado. La misura, avanzata da Mariastella Gelmini per Noi Moderati, si aggiunge a quella portata avanti dalla Lega, a firma di Massimiliano Romeo, che vorrebbe esentare le paritarie dal pagamento dell’IMU. Le opposizioni denunciano l’ennesimo privilegio concesso agli istituti privati, accusando il Governo di continuare ad avvantaggiare le scuole private e sottrarre risorse al sistema statale.

L’emendamento, sostenuto da Forza Italia e Fratelli d’Italia, prevede che il contributo venga corrisposto alle famiglie con un ISEE sotto i 30 mila euro, limitatamente al primo anno di iscrizione. Il voucher, secondo la maggioranza, consentirebbe alle famiglie “di ceto medio” di orientarsi verso la scuola ritenuta più adatta ai figli, riducendo i costi delle rette delle paritarie. Per coprire il costo della misura, stimato in 20 milioni di euro, Noi Moderati intende provvedere con un taglio al fondo per gli interventi strutturali di politica economica. Le opposizioni respingono questa impostazione, parlando apertamente di un “regalo” mascherato da misura sociale, ricordando che le scuole paritarie non sono istituzioni pubbliche e che la Costituzione, pur prevedendo la libertà di istituire scuole non statali, stabilisce che esse non debbano gravare sulle finanze dello Stato. Il timore, sottolineano PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra, è che la misura alimenti un sistema educativo parallelo, sostenuto con fondi pubblici, ma privo degli obblighi della scuola statale, contribuendo a una progressiva privatizzazione dell’istruzione. Il favore dell’attuale esecutivo alle scuole paritarie è stato ben espresso dalla stessa premier Meloni ad agosto, dal palco del Meeting di Rimini: «L’Italia rimane l’ultima Nazione in Europa senza un’effettiva parità scolastica, e io credo che sia giusto ragionare sulla questione con progressività, con buonsenso, ma soprattutto sgombrando il campo da quei pregiudizi ideologici che per troppo tempo hanno impedito di affrontare seriamente il tema».

La tendenza a elargire sempre più fondi statali alle scuole paritarie è cominciata, però, ben prima dell’insediamento dell’attuale esecutivo. Nel 2020, gli istituti paritari avevano ricevuto ben 150 milioni di euro di fondi del PNRR dal governo. Nel 2022, all’interno della legge di bilancio, il governo Meloni aveva previsto un finanziamento di 70 milioni di euro agli istituti paritari. Successivamente, attraverso due decreti firmati dal ministro per l’Istruzione Valditara, il governo aveva stanziato per l’anno 2024-2025 750 milioni di euro per le scuole paritarie, con un aumento di ben 50 milioni rispetto all’anno precedente. Nel 2024, ad avanzare un contributo di 1.500 euro per le famiglie che avessero scelto le scuole paritarie per l’istruzione dei propri figli era stato Fratelli d’Italia a firma dei deputati Lorenzo Malagola e Giovanni Coppo, scatenando le critiche feroci delle opposizioni. La differenza rispetto al voucher proposto oggi da Noi Moderati era sostanzialmente la soglia del reddito, fino a 40 mila euro. Alla fine, la polemica aveva portato a una marcia indietro e l’emendamento non era stato approvato.

Secondo associazioni di docenti, sindacati e analisti, l’aumento dei fondi alle paritarie rischia di sottrarre risorse a un sistema pubblico già provato da organici instabili, edifici inadeguati e investimenti insufficienti. La costante crescita dei finanziamenti statali alle scuole private è parte di un processo iniziato anni fa, alimentato da politiche di liberalizzazione che hanno spinto l’istruzione verso logiche sempre più di mercato. Già nella prima manovra dell’attuale governo la scuola pubblica è risultata marginale, mentre il sostegno alle paritarie è stato ulteriormente ampliato in continuità con gli esecutivi precedenti. Ne emerge una direzione chiara: il rafforzamento del privato procede insieme al progressivo indebolimento del sistema statale, delineando un modello educativo che rischia di spostare l’attenzione dall’interesse collettivo alle dinamiche del mercato.

Raid russi su Ucraina, Polonia chiude due aeroporti

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La Polonia ha temporaneamente chiuso gli aeroporti di Rzeszów e Lublino, nel sud-est del Paese, mentre i raid russi attaccavano le città di Leopoli e Ternopil nell’Ucraina occidentale. Per precauzione, Varsavia ha fatto decollare aerei polacchi e alleati per proteggere il proprio spazio aereo. Anche la Romania ha fatto decollare i suoi aerei da combattimento questa mattina presto dopo una nuova incursione di droni nel suo territorio.

Ex Ilva, sciopero e stabilimento occupato a Genova

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I sindacati hanno annunciato la rottura con il governo, lo stop delle trattative sul futuro di Acciaierie d’Italia e uno sciopero di 24 ore. I lavoratori dello storico sito siderurgico dell’ex Ilva a Genova hanno occupato lo stabilimento e avviato un corteo verso la stazione di Cornigliano, proclamando un presidio a oltranza per protestare contro il blocco degli impianti del Nord e un piano che prevede l’aumento della cassa integrazione straordinaria fino a 6 mila persone. Le sigle sindacali denunciano che nella città potrebbero essere a rischio circa mille posti di lavoro.

“Framing Gaza”: lo studio che smaschera la parzialità dei media occidentali

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Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione. È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf. Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, deumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».

Il pregiudizio che unisce i media occidentali

Lo studio mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale. La genesi di questo processo, sostiene G.G. Darwiche – coautrice del rapporto e portavoce del collettivo che riunisce professionisti della tecnologia che analizzano i bias dei media occidentali sulla Palestina per promuovere una narrazione più equa, sostenuto dalla coalizione TechforPalestine – risale almeno ai primi anni Duemila, in cui già diversi articoli descrivevano i palestinesi come «una minaccia per l’esistenza di Israele». «Non si tratta nemmeno di destra contro sinistra», continua Darwiche, smontando il mantra che vorrebbe il pluralismo politico come antidoto alla distorsione informativa. Dall’analisi delle testate emergono dei pattern chiari e definiti che trasformano «accuse vaghe di faziosità in prove inconfutabili». La sorpresa non è che mezzi di informazione esplicitamente conservatori alimentino tale narrazione, ma che i media centristi e progressisti – come il New York Times, Der Spiegel, Globe and Mail e BBC – risultino persino più sbilanciati di tabloid di destra come De Telegraaf. Secondo il rapporto, per preservare un’immagine moralmente accettabile di Israele presso un pubblico più critico, queste testate avrebbero «corretto eccessivamente», finendo per riprendere senza verifica le comunicazioni ufficiali israeliane e per mettere in ombra dati, testimonianze e violazioni documentate ai danni del popolo palestinese. «I media centristi o progressisti adottano forme di distorsione molto più sottili, ma costanti e pervasive, basate soprattutto sull’omissione del contesto, che finisce per cancellare la realtà dei fatti», spiega ancora Darwiche, che ci racconta come il gruppo di lavoro sia rimasto “sorpreso” dai risultati, essendo partito dall’ipotesi opposta, ossia che «i giornali di destra, populisti o conservatori, sarebbero risultati i più faziosi».

Come si costruisce il frame

il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici

Il conflitto in Medio Oriente viene spesso raccontato come una contrapposizione in cui l’esistenza di un popolo esclude quella dell’altro e in cui a essere sacrificati sono sempre i palestinesi. Questa logica si riflette nella narrazione mediatica, che li relega al ruolo di “antagonisti” e li frammenta in “abitanti di Gaza” o “della Cisgiordania”, evitando di riconoscerli come un unico popolo. E già l’analisi dei titoli è rivelatrice: il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici. In questo modo, la Palestina come soggetto politico svanisce, sostituita da un’astrazione. Il contesto dell’occupazione – cuore del conflitto – viene cancellato: su Der Spiegel, soltanto due articoli su oltre tremila riferimenti riconoscono i Territori Palestinesi come “occupati”. Il risultato è che si «oscura sia l’illegalità degli insediamenti sia le loro conseguenze materiali per i palestinesi». Agli artifici semantici si affianca la gerarchia dei temi: perfino durante la carestia, il lessico del “terrorismo” ha doppiato quello della “crisi umanitaria”, mentre il diritto all’“autodifesa” viene implicitamente riconosciuto a Israele, ma non ai palestinesi che vengono associati alla categoria di “terroristi”. In questo modo, «il lettore interiorizza il frame dei palestinesi come minaccia più che come vittime, e dell’azione militare israeliana come “risposta” anziché aggressione». BBC e Le Monde, in due terzi degli articoli, hanno riprodotto tale linguaggio, contribuendo a perpetuare stereotipi coloniali, dipingendo arabi e musulmani come intrinsecamente violenti, barbari e irrazionali.

Spersonalizzazione e disumanizzazione

Le accuse israeliane secondo cui i giornalisti palestinesi sarebbero militanti o simpatizzanti di Hamas vengono spesso accolte dai media quasi senza contestazione. A volte, basta aver intervistato un funzionario del governo di Hamas per essere etichettati come “operativi” o collusi con l’organizzazione. La disumanizzazione emerge anche nel modo in cui i minori palestinesi vengono descritti. Bambini detenuti in regime amministrativo e spesso senza accuse, raramente vengono chiamati per quello che sono: “bambini”. Al loro posto compaiono etichette come “adolescenti” o “giovani adulti”. Questo “rebranding” li priva della loro infanzia e ne attenua l’innocenza e la vulnerabilità, rendendo la loro detenzione più accettabile. Così, il ricorso a frasi-template, ripetute ossessivamente centinaia di volte, fissa il frame “Israele risponde al 7 ottobre”. Emblematica la diffusione, mai verificata né tantomeno rettificata, di fake news usate per presentare la risposta israeliana come “inevitabile”. È il caso di Der Spiegel e del Corriere della Sera, che hanno rilanciato la falsa storia dei “bambini decapitati”, senza poi smentirla né correggerla, mostrando come narrazioni emotive e sensazionalistiche possano oscurare i fatti e alimentare processi di disumanizzazione.

Ciò che non si dice: diritto al ritorno, Nakba e lessico militarizzato

Palestinesi detenuti durante la cosiddetta ”Nakba” del 1948

Un altro aspetto rivelatore è ciò che l’informazione sceglie sistematicamente di non dire. Il rapporto mostra come concetti fondamentali per comprendere la storia palestinese – dal “diritto al ritorno” alla Nakba – siano quasi assenti dal lessico mediatico: in oltre 50.000 articoli, il diritto al ritorno viene citato solo 38 volte, mentre i riferimenti alla Nakba compaiono raramente e spesso in forma edulcorata, come una “fuga” o un “esodo”. Allo stesso tempo, espressioni desunte dal linguaggio militare, come “attacchi di precisione” o “scudi umani”, ricorrono decine di volte in tutte le testate, contribuendo a costruire un’immagine di razionalità, controllo e necessità. Ancora più sbilanciata è la copertura del “diritto all’esistenza”, invocato per Israele in modo schiacciante rispetto alla Palestina, quasi che il riconoscimento di un popolo debba essere meritato e non intrinseco. Sommati, questi elementi concorrono a rimuovere la dimensione coloniale del conflitto e trasformano una popolazione assediata in un soggetto privo di diritti.

Cosa resta nella memoria collettiva

Le conseguenze non sono solo simboliche: i frame mediatici orientano la percezione pubblica, le scelte dei governi e, più in generale, ciò che passerà alla storia. «Raccogliere ora le prove di un inquadramento fazioso garantisce che il resoconto non possa essere cancellato», si legge nel report. Un’informazione che minimizza le violazioni, che evita parole come “blocco”, “apartheid”, “insediamenti illegali”, produce un immaginario depoliticizzato, dove la sofferenza palestinese appare inevitabile, quasi naturale. È in questo vuoto che si legittimano politiche estere compiacenti, ritardi nelle condanne e ambiguità diplomatiche. Il metodo impiegato dal rapporto non pretende di misurare l’intero spettro delle responsabilità giornalistiche, ma offre un dato oggettivo: l’omissione è una forma di parzialità quanto la menzogna. E quando coinvolge otto tra le più influenti testate occidentali, non è più un’anomalia: è un paradigma che impone di ripensare il ruolo dell’informazione, il suo rapporto con il potere e la sua capacità – o volontà – di raccontare ciò che avviene davvero, anche quando la verità disturba.