lunedì 29 Dicembre 2025
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Da Santo a brand globale: come Santa Claus è diventato il volto del consumismo natalizio

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San Nicola

La figura di Santa Claus è oggi una delle immagini più riconoscibili del pianeta. Eppure la sua identità non nasce dalla fantasia contemporanea, ma da una stratificazione complessa in cui convergono religione, folklore europeo, trasformazioni sociali e, negli ultimi decenni, la potenza del marketing applicato al commercio. Ripercorrere le sue origini significa attraversare secoli di storia e smontare alcune credenze consolidate, ma anche interrogarsi su come un simbolo religioso e popolare sia diventato una delle icone globali del consumismo più sfrenato.

San Nicola e l’origine del mito

Il punto di partenza documentato è San Nicola di Myra, originario dell’attuale Turchia meridionale e attuale patrono della città di Bari. Fu un vescovo cristiano nato nel terzo secolo dopo Cristo che divenne noto soprattutto per atti di carità verso poveri e bambini, la cui venerazione si radicò nell’Europa medievale al punto da generare tradizioni di doni e protezione dei più fragili. Considerato come un Santo quando era ancora in vita, a lui sono attribuiti diversi miracoli e azioni esemplari nel combattere le ingiustizie. Il miracolo più raccontato – che introduce anche la pratica del dono fatto di nascosto – è quello delle tre fanciulle salvate grazie alla sua carità. Secondo la leggenda, un padre ridotto in miseria non poteva offrire la dote alle tre figlie, condannandole così a un destino disperato. Nicola, per non umiliarlo e mantenere l’anonimato, durante tre notti consecutive lasciò tre sacchetti d’oro nella casa della famiglia (in alcune versioni li gettò dalla finestra, in altre attraverso il camino), permettendo alle ragazze di sposarsi dignitosamente.
Nei Paesi Bassi la sua figura si traduce in Sinterklaas, celebrato il 6 dicembre, che entra nelle case portando regali: è da qui che, attraverso l’emigrazione olandese negli Stati Uniti tra XVII e XIX secolo, si forma il passaggio linguistico e culturale a Santa Claus. Studi storici e religiosi come quelli di Gerald Bowler (Santa Claus: A Biography), ricerche universitarie sulla storicità di Nicola come quelle dell’University of Queensland o dell’University of Winchester e lavori di Tom A. Jerman (Santa Claus Worldwide) confermano questa genealogia come principale radice documentata.

San Nicola statua Turchia
San Nicola di Myra, Turchia

Il contributo del folklore europeo 

Santa Claus però non è solo eredità cristiana. Nel Nord Europa circolano figure invernali che alimentano un immaginario parallelo. In Inghilterra si sviluppa Father Christmas, personificazione dello “spirito del Natale”, spesso rappresentato con abito verde, legato alla natura e al ciclo stagionale. In ambito germanico e scandinavo sopravvivono eco di narrazioni pre-cristiane legate a Yule e a figure come Odino, immaginato come un vecchio viaggiatore barbuto che attraversa i cieli invernali. Più che una derivazione diretta, si tratta di un simbolismo che nel corso del tempo si innesta sulla figura di San Nicola, alimentando il mito.

Rosso o verde? 

Una delle storie più affascinanti riguarda il colore dell’abito. Secondo la leggenda contemporanea, Babbo Natale avrebbe indossato in origine un costume verde, diventato rosso per merito (o colpa) di Coca-Cola. La ricerca storica racconta una realtà diversa: già nell’Ottocento illustratori come Thomas Nast raffigurano Santa Claus con abito rosso, ma anche con varianti cromatiche. Nel primo Novecento il rosso è già ampiamente diffuso. Il ruolo di Coca-Cola, a partire dalle celebri illustrazioni di Haddon Sundblom negli anni ’30, non è dunque creativo, ma, al contrario, standardizzante: la multinazionale non crea l’immagine, ma la codifica e la diffonde globalmente, trasformandola in linguaggio universale che si sposa perfettamente con i colori del marchio. Lo riconoscono tanto storici come Stephen Nissenbaum (The Battle for Christmas), quanto la stessa azienda.

Sciamani, slitte e funghi

Negli ultimi decenni è circolata anche una narrazione alternativa, affascinante ma controversa: quella che lega Santa Claus a pratiche sciamaniche dell’Europa nord-orientale, all’uso rituale dell’Amanita muscaria, all’ingresso invernale attraverso camini e all’uso della slitta. Studi di R. Gordon Wasson e letture etno-antropologiche come quelle di John A. Rush hanno contribuito a diffondere questa interpretazione. Tuttavia numerosi ricercatori – tra cui studiosi Sámi come Tim Frandy e analisi pubblicate da testate come National Geographic – invitano alla prudenza: si tratta più di un’ipotesi suggestiva che di una verità storica.

Secondo questa lettura, le analogie non sarebbero casuali: gli sciamani che abitavano la vasta zona dominata dai monti Urali e la Siberia, durante i rituali invernali, si spostavano su slitte trainate da renne, figura animale centrale anche nell’iconografia moderna di Santa Claus. In inverno, quando le porte erano bloccate dalla neve, si racconta che potessero entrare nelle abitazioni attraverso il tetto o il camino, gesto che richiama uno degli elementi narrativi più noti del mito natalizio. Inoltre, l’uso rituale dell’Amanita muscaria, il fungo (rosso) dai puntini (bianchi) associato a stati alterati di coscienza, viene messo in parallelo con la simbologia cromatica del costume di Santa Claus e con la dimensione “magica” del viaggio notturno. Questi elementi, messi insieme, producono una suggestiva somiglianza narrativa tra lo sciamano artico e il Babbo Natale contemporaneo: un mediatore tra mondi, capace di viaggiare nel freddo invernale e di portare qualcosa di speciale alle comunità.

La trasformazione decisiva, invece, è sociale ed economica. È tra XIX e XX secolo che Santa Claus diventa il simbolo perfetto del Natale borghese e domestico, legato ai bambini, alla casa e, progressivamente, al mercato. Il lavoro di Nissenbaum mostra come il Natale venga rimodellato dalla società industriale e come Santa Claus diventi un attore centrale di un rituale ormai profondamente commerciale. Il risultato è il personaggio che conosciamo oggi: non solo figura fiabesca e generosa, ma icona globale del consumismo festivo, sintesi potente di marketing, emozione e tradizione reinterpretata.

Bombardieri russi sul mar di Norvegia, decollano jet stranieri

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I bombardieri strategici russi Tu-95MS delle Forze Aerospaziali hanno effettuato un volo pianificato di oltre sette ore sopra le acque internazionali dei mari di Barents e di Norvegia, a nord della Scandinavia. Lo ha fatto sapere il ministero della Difesa russo. Gli aerei, in grado di trasportare armi nucleari, sono stati scortati da jet da combattimento di Paesi stranieri e monitorati dagli aerei della NATO presenti nella regione. Mosca ha sottolineato che queste missioni avvengono regolarmente e nel rispetto del diritto internazionale.

Ucraina, Zelensky presenta il piano di pace USA: “non prevede la rinuncia alla NATO”

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Elezioni dopo la firma dell’accordo, garanzie di sicurezza per prevenire future aggressioni russe, creazione di una zona demilitarizzata nell’Ucraina orientale, linee guida per la ricostruzione del Paese. Sono questi alcuni dei 20 punti dell’ultimo piano per la pace tra Russia e Ucraina, illustrato martedì dal presidente Volodymyr Zelensky alla stampa. Il documento, elaborato con gli Stati Uniti nei colloqui a Miami che si sono tenuti nei giorni scorsi, non contiene alcuna clausola che imponga all’Ucraina di rinunciare alla prospettiva di aderire alla NATO, che resta per la Russia una linea rossa invalicabile, rendendo il piano largamente irricevibile.

La versione attuale della proposta, più snella rispetto a una prima bozza in 28 punti, è stata trasmessa formalmente alle autorità russe attraverso canali diplomatici statunitensi. Se Zelensky ha dichiarato di attendere una risposta di Mosca in giornata, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha escluso commenti pubblici: la Russia valuterà il piano USA dopo il report dell’inviato Kirill Dmitriev, che ha incontrato a Miami gli emissari di Donald Trump. Le reazioni a Bruxelles e Washington oscillano tra cauta speranza e pragmatismo, tuttavia, l’assenza di un accordo con Mosca sulle linee territoriali rende incerto l’esito finale. Il testo prevede un congelamento delle linee del fronte attuali, con monitoraggio internazionale e la possibilità di istituire zone demilitarizzate e libere zone economiche nell’est del Paese, condizionate al ritiro reciproco delle forze e all’approvazione di un referendum ucraino dopo un effettivo cessate il fuoco. In parallelo, il piano prevede una serie di misure economiche e istituzionali: accelerazione dell’accesso all’Unione Europea, un ingente pacchetto di aiuti e investimenti per la ricostruzione postbellica e la formazione di un Consiglio di Pace internazionale che includa USA, Europa, NATO, Russia e Ucraina per supervisionare l’attuazione dell’accordo. La bozza stabilisce garanzie di sicurezza ispirate all’Articolo 5 della NATO fornite da USA, Europa e Paesi firmatari. Queste previsioni sono intese a proteggere l’Ucraina da future aggressioni, senza che sia necessario aderire formalmente all’Alleanza Atlantica. Zelensky ha escluso la rinuncia alla prospettiva di adesione: «Spetta alla NATO decidere», ha sottolineato, ricordando che l’Ucraina non intende modificare la Costituzione per inserire una clausola specifica.

Se il nodo centrale rimane quello dell’adesione alla NATO, resta aperta la partita sul futuro del Donbass e della centrale nucleare di Zaporizhzhia, due temi su cui Kiev e Washington divergono dalle richieste russe. Zelensky ha anche chiarito che la bozza dell’accordo non prevede il ritiro delle sanzioni contro Mosca da parte degli Stati Uniti, ma che Washington intende revocarle gradualmente dopo la fine della guerra. Più che una piattaforma di compromesso, il piano presentato da Zelensky appare come una cornice politica che cristallizza le posizioni di Kiev e dei suoi alleati, scaricando sul tavolo negoziale condizioni che Mosca considera, da tempo, inacettabili.

I 20 punti del piano di pace USA

Ecco l’elenco sintetico dei 20 punti presentati da Zelensky:

    1. Conferma della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina.
    2. Stipula di un patto di non aggressione totale e incondizionato tra Russia e Ucraina.
    3. L’Ucraina riceverà solide garanzie di sicurezza.
    4. Le Forze armate ucraine manterranno una forza in tempo di pace di 800.000 effettivi.
    5. Garanzie di sicurezza fornite da Stati Uniti, NATO e Paesi europei secondo criteri simili all’Articolo 5.
    6. Impegno della Russia a formalizzare politiche di non aggressione verso Ucraina ed Europa.
    7. Impegno per l’accesso e l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea con tempi definiti.
    8. Un programma di sviluppo globale per l’Ucraina, da definire in un accordo separato sugli investimenti e la prosperità futura.
    9. Creazione di fondi dedicati alla ripresa dell’economia ucraina, alla ricostruzione del Paese e alle questioni umanitarie
    10. Dopo l’accordo, l’Ucraina accelererà la conclusione di un trattato di libero scambio con gli USA.
    11. Creazione di zone demilitarizzate nelle aree di conflitto con controllo internazionale.
    12. Gestione congiunta della centrale di Zaporizhzhia tra Ucraina, USA e Russia.
    13. Impegno congiunto su educazione e inclusione, con programmi contro razzismo e pregiudizi e adeguamento dell’Ucraina agli standard UE su tolleranza religiosa e tutela delle lingue minoritarie
    14. Riconoscimento dell’attuale linea di contatto con monitoraggio internazionale, ritiro russo da altre regioni come condizione dell’accordo e pieno rispetto delle Convenzioni di Ginevra.
    15. Avendo concordato futuri accordi territoriali, la Federazione Russa e l’Ucraina si impegnano entrambe a non modificare tali disposizioni con la forza.
    16. La Russia non impedirà all’Ucraina di utilizzare il fiume Dnepr e il Mar Nero per scopi commerciali.
    17. Costituzione di un comitato umanitario per garantire l’attuazione dell’accordo e per le questioni in sospeso. Scambio di prigionieri e ricongiungimento delle famiglie.
    18. Elezioni libere e plurali subito dopo la firma dell’accordo.
    19. Il presente accordo è giuridicamente vincolante.
    20. Cessate il fuoco completo immediatamente dopo l’accettazione formale da tutte le parti.

    Sea-Watch: naufragio al largo della Libia, 116 morti

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    Almeno 116 migranti sarebbero morti nel naufragio di un’imbarcazione partita dalla Libia la sera del 18 dicembre, secondo la ONG Sea-Watch. L’unico sopravvissuto sarebbe stato tratto in salvo da un pescatore tunisino, dopo che l’imbarcazione sarebbe andata in avaria e sarebbe affondata poco dopo la partenza, in condizioni meteorologiche critiche con venti forti. La Sea-Watch e il network Alarm Phone avevano lanciato l’allarme per l’imbarcazione con circa 117 persone a bordo, di cui non si avevano più notizie dopo il distacco dai porti libici. Proseguono le operazioni di ricerca.

    A 15 anni da Fukushima il Giappone riaprirà la centrale nucleare più potente al mondo

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    Il 22 dicembre 2025 resterà una data spartiacque nella storia energetica del Giappone. Con un voto di fiducia cruciale, l’assemblea della prefettura di Niigata ha rimosso l’ultimo ostacolo politico alla riapertura della centrale di Kashiwazaki-Kariwa, l’impianto nucleare più potente del pianeta. Il gestore dell’impianto è Tokyo Electric Power Company (TEPCO), lo stesso operatore della centrale di Fukushima, colpita da terremoto e maremoto nel 2011 e i cui scarti radioattivi sono stati sversati da TEPCO, su autorizzazione del governo nipponico, nell’Oceano Pacifico. Kashiwazaki-Kariwa, colosso da 8,2 gigawatt, si appresta a riaccendere i propri reattori dopo quindici anni.

    Questa decisione non è un evento isolato, ma il culmine di una metamorfosi strategica che vede il Sol Levante abbandonare la prudenza post-disastro per abbracciare nuovamente l’atomo come pilastro della propria sicurezza nazionale e della transizione ecologica. Tuttavia, il ritorno all’operatività di Kashiwazaki-Kariwa riapre ferite mai del tutto rimarginate e solleva interrogativi critici sulla capacità di TEPCO di garantire una sicurezza infallibile in una delle aree più sismiche del mondo. La centrale di Kashiwazaki-Kariwa è un gigante addormentato dal 2011. E non fu il solo. A seguito del disastro di Fukushima, l’intero parco nucleare giapponese fu messo a revisione. Decine di reattori sono stati disattivati, alcuni definitivamente, altri in attesa di lavori drastici. Per TEPCO, il percorso di riabilitazione è stato costellato di ostacoli non solo tecnici, ma anche etici.

    Nel 2021, l’Autorità di Regolamentazione Nucleare (NRA) aveva imposto un divieto operativo all’impianto a causa di gravissime falle nella sicurezza antiterrorismo, tra cui l’uso improprio di tesserini identificativi e il malfunzionamento dei sistemi di monitoraggio degli accessi. Solo dopo anni di riforme interne e la revoca del ban nel tardo 2023, la società ha potuto compire le procedure finali di riavvio. La priorità è ora fissata sul reattore n. 6, con l’obiettivo di riportarlo in rete entro il 20 gennaio 2026. Mentre TEPCO lotta per recuperare credibilità, la Kansai Electric Power (KEPCO) ha già tracciato una rotta ancora più ambiziosa. Nel corso del 2025, KEPCO ha annunciato l’intenzione di costruire un nuovo reattore di “prossima generazione” presso il sito di Mihama, nella prefettura di Fukui. Si tratta del primo progetto di costruzione di un reattore ex novo dal 2011, un segnale inequivocabile del cambio di paradigma nel Paese.

    Questo dinamismo è alimentato dal Settimo Piano Strategico per l’Energia approvato dal governo giapponese nel febbraio 2025. Il documento ha ufficialmente rimosso l’obiettivo di ridurre il più possibile la dipendenza dal nucleare, sostituendolo con la direttiva di massimizzarne l’uso. Entro il 2040, il Giappone punta a far sì che il nucleare copra il 20% del mix elettrico nazionale per sostenere la crescente domanda derivante dai data center e dalle industrie legate all’intelligenza artificiale.

    La decisione della prefettura di Niigata non è stata priva di tensioni. Lunedì scorso, mentre i legislatori votavano, centinaia di manifestanti si sono radunati davanti agli uffici governativi con cartelli che ricordavano l’incubo di Fukushima. Per molti residenti, la sfiducia nei confronti di TEPCO rimane un dogma insuperabile. La preoccupazione principale riguarda i piani di evacuazione: l’area di Kashiwazaki è stata colpita in passato da forti terremoti (come quello del 2007) e la vulnerabilità delle infrastrutture stradali resta un punto critico.

    Non si è trattato solo di una manifestazione di dissenso, ma del riflesso di una nazione profondamente spaccata tra le necessità economiche imposte da Tokyo e una memoria collettiva ancora segnata dal trauma di Fukushima. Le proteste che hanno accompagnato il “sì” della prefettura non sono nate dal nulla. Rappresentano il culmine di mesi di mobilitazione silenziosa, assemblee cittadine e battaglie legali. Il cuore del dissenso risiede in una domanda fondamentale che ha risuonato più volte nei megafoni dei manifestanti: TEPCO è davvero qualificata per gestire l’impianto più potente del mondo?.

    Il Governatore di Niigata, Hideyo Hanazumi, ha giustificato il proprio appoggio alla riapertura citando la necessità di stabilizzare i prezzi dell’energia, schizzati alle stelle a causa della dipendenza dalle importazioni di gas naturale e carbone, e la promessa del governo centrale di finanziare nuove vie di fuga d’emergenza. Tuttavia, ha ammesso apertamente che «esiste ancora un’ansia profonda tra i cittadini che non può essere ignorata».

    Inoltre, la scelta di puntare su impianti che hanno ormai superato i 40 anni di vita (con estensioni fino a 60 anni approvate recentemente per altri reattori) solleva dubbi sull’invecchiamento dei materiali in un contesto di rischio geologico permanente. Il Giappone si trova in un vicolo cieco: per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e mantenere la competitività industriale, il nucleare appare come l’unica soluzione immediata, ma il prezzo sociale di questa scelta potrebbe essere un’ulteriore erosione della fiducia verso le istituzioni.

    Camorra: arrestato Ciro Andolfi, tra i 100 uomini più pericolosi

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    I carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli hanno arrestato Ciro Andolfi, 49 anni, ricercato dal 2022 e inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi del Ministero dell’Interno. Andolfi, ritenuto esponente del clan di camorra “Andolfi-Cuccaro” e destinatario di un ordine di carcerazione per oltre 8 anni per i reati di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione in concorso aggravata dal metodo mafioso e corruzione, è stato trovato in un nascondiglio in muratura ricavato in un appartamento nel quartiere Barra di Napoli durante una perquisizione. Il provvedimento è stato eseguito su mandato della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Napoli e segna il 22º arresto di un latitante nell’anno.

    Gli USA negano il visto a chi promuove le leggi sulle Big Tech

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    Il Segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, ha annunciato che a cinque cittadini europei non verrà concesso il visto d’ingresso negli USA. Secondo le autorità, questi individui sarebbero alla guida di “sforzi organizzati per costringere le piattaforme americane a censurare, demonetizzare e sopprimere punti di vista statunitensi a loro contrari”. Pur non avendo fornito i nomi, le identità sono emerse da fonti parallele: si tratta di figure di primo piano nel campo della regolamentazione tecnologica. Tra loro figura anche Thierry Breton, ex commissario europeo per il Mercato interno e i Servizi.

    Il comunicato che rende pubblica la misura, diffuso martedì 23 dicembre, definisce i destinatari come “attivisti radicali” e “agenti del complesso globale di censura a livello industriale”, sostenendo che la loro stessa presenza negli Stati Uniti rappresenterebbe una potenziale minaccia per la politica estera di Washington. L’anonimato inizialmente previsto dall’azione diplomatica è stato però subito infranto dalla Sottosegretaria di Stato Sarah Rogers, che sul social X ha dato avvio a un lungo soliloquio volto a mettere alla berlina coloro che, di fatto, vengono presentati come nemici nazionali.

    Ecco dunque che il primo nome citato è proprio quello di Thierry Breton, dipinto come “l’artefice del Digital Services Act”, che nell’agosto 2024 aveva pubblicato una lettera “per minacciare Elon Musk in vista della sua intervista in livestream con il Presidente Trump”. Breton ha lasciato l’incarico di Commissario un mese dopo a quell’episodio, a suo dire a seguito di pressioni esercitate direttamente dalla Presidente Ursula von der Leyen. Segue poi Imran Ahmed, chief executive del Centro per Contrastare l’Odio Digitale (CCDH), accusato di aver chiesto “alle piattaforme di rimuovere dodici ‘anti‑vax’ americani, tra cui l’attuale Segretario della Salute e dei Servizi Umani”, il controverso Robert F. Kennedy, e di guidare un’organizzazione che mira a “innescare azioni regolatorie” contro i social statunitensi. In particolare contro X, piattaforma che, dopo il passaggio sotto il controllo di Elon Musk, viene sempre più spesso identificata come acceleratore di dinamiche polarizzanti e di favorire la diffusione di contenuti d’odio.

    C’è poi Clare Melford che, alla guida del Global Disinformation Index (GDI), avrebbe promosso una definizione di “hate speech” malvista da Washington, sostenendo iniziative considerate al pari di forme di censura nei confronti della stampa e della libertà di espressione statunitense. Peggio ancora, l’organizzazione ha aderito al “dannoso Codice di condotta dell’UE sulla disinformazione”. Seguono infine Anna‑Lena von Hodenberg e Josephine Ballon, leader di HateAid, organizzazione tedesca attiva nell’ambito del Digital Services Act che viene rimproverata perché “richiedere regolarmente l’accesso a dati proprietari delle piattaforme social per ampliare la propria capacità di censura” nei confronti dei “gruppi conservatori”. HateAid figura tra le realtà più attive tra quelle che spingono le piattaforme affinché rendano accessibili i propri dati a ricercatori e giornalisti.

    Grazie al programma “Viaggia senza visto”, la maggior parte dei cittadini europei può entrare negli Stati Uniti senza dover richiedere effettivamente un visto. A meno che le persone coinvolte non siano state segnalate anche al Dipartimento della Sicurezza Interna, la misura annunciata dalla Segreteria di Stato risulta quindi largamente simbolica. Non di meno, resta significativa, perché evidenzia quanto i rapporti tra USA e UE/Regno Unito siano ormai irrigiditi in un vero e proprio braccio di ferro sulla regolamentazione delle Big Tech statunitensi.

    Mentre porta avanti l’obiettivo di “americanizzare” TikTok con il pretesto del doversi difendere dalla propaganda cinese, Washington esercita pressioni diplomatiche e commerciali per garantire alle proprie aziende tecnologiche un futuro il più possibile libero da vincoli e sanzioni. La negazione del visto rappresenta, almeno in teoria, un’extrema ratio da riservare a spie e criminali di alto profilo; risulta dunque altamente simbolico che questa misura non venga applicata a coloro che sono condannati per crimini di guerra, ma ai leader di ONG che osano proporre interventi politici capaci di mettere in discussione la mercificazione del sensazionalismo e dell’odio che alimenta gli algoritmi dei social.

    Israele non ammette critiche: censurati tutti i media che “minano la sicurezza nazionale”

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    Il Parlamento israeliano ha approvato lunedì in via definitiva la proroga di un disegno di legge che consente alle autorità del Paese di chiudere i media stranieri qualora questi ultimi siano accusati di minare la sicurezza dello Stato. La legge, promossa dal parlamentare Ariel Kallner del Likud, rimarrà in vigore fino al 31 dicembre 2027 e rappresenta l’estensione di una misura approvata il primo aprile 2024 durante la campagna militare israeliana a Gaza. Il provvedimento appena emanato include diversi emendamenti tesi a eliminare il controllo giudiziario e, a differenza della legge approvata nel 2024, potrà essere applicata anche se Israele non si trova in stato di emergenza, rappresentando una vera e propria forma di censura. La legge, in particolare, prende di mira il media qatariota Al Jazeera, accusato da Israele di essere uno strumento di propaganda della causa palestinese e anche di aver partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre. Tutte accuse smentite perentoriamente dall’emittente qatariota che ha parlato di «accuse diffamatorie» e di una soppressione della libertà di stampa che «contraddice il diritto internazionale e umanitario». Sia il sito web che il canale televisivo Al Jazeera restano vietati per legge in Israele.

    Nel dettaglio, la legge stabilisce che il Ministro delle Comunicazioni ha il diritto, con il consenso del Primo Ministro e con l’approvazione del Governo o del Comitato ministeriale per la sicurezza nazionale (Gabinetto politico di sicurezza), di disporre che vengano adottate misure per limitare le trasmissioni e l’attività di un’emittente straniera, qualora, sulla base di un parere delle agenzie di sicurezza, si ritenga che il suo contenuto arrechi un danno reale alla sicurezza dello Stato. In questo caso, le autorità potranno prendere una serie di provvedimenti, tra cui l’interruzione delle trasmissioni, la chiusura di uffici in Israele, il sequestro di apparecchiature utilizzate per la trasmissione, la chiusura di un sito web o la limitazione dell’accesso allo stesso, nonché interventi tecnologici per impedire la ricezione di trasmissioni via satellite. La direttiva avrà una validità di novanta giorni, con la possibilità di prorogarla per ulteriori periodi fino a 90 giorni ciascuno.

    Già nel maggio 2024, il governo aveva approvato la chiusura di Al Jazeera – l’unico media che raccontava la guerra a Gaza con propri corrispondenti sul campo – ordinando anche alle forze dell’ordine di fare irruzione presso la sede di Nazareth dell’emittente, così da confiscarne le apparecchiature e realizzarne la chiusura effettiva. Nonostante lo Stato ebraico giustifichi le sue decisioni con la motivazione della «sicurezza nazionale», il suo rapporto con la stampa è così ostile che le sue azioni legislative appaiono più un modo di silenziare chi racconta gli eventi in diretta che non un modo per tutelare la sicurezza nazionale. Non solo, infatti, Israele ha adottato una legge per chiudere i media stranieri, ma ha anche prorogato il divieto di accesso per i giornalisti internazionali alla Striscia di Gaza. Cosa che ha indotto la FPA (Foreign Press Association) – rappresentante di circa 400 testate – a presentare una petizione all’Alta corte di Gerusalemme per ottenere l’accesso indipendente dei media internazionali a Gaza. Ciò significa che il mondo non può avere notizie dirette e indipendenti di ciò che succede in Palestina, ma solo quelle filtrate e selezionate da Israele. Inoltre, secondo due importanti organizzazioni di giornalisti – la IFJ (International Federation of Journalists) e la RSF (Reporter Sans Frontières) – la metà dei giornalisti uccisi nel mondo nel 2025 è stata assassinata a Gaza da Israele.

    Al Jazeera riporta che molti suoi collaboratori – e in alcuni casi anche le loro famiglie – sono stati ammazzati durante gli ultimi due anni durante l’assedio a Gaza: secondo le stime, sono oltre 200 i cronisti e gli inviati uccisi in Palestina in questo lasso di tempo. Tuttavia, la tendenza a sopprimere la libertà di stampa e a sopprimere fisicamente gli addetti alla comunicazione non è qualcosa di confinabile sono agli ultimi due anni, in seguito all’attacco palestinese del 7 ottobre: già nel 2017, infatti, Netanyahu aveva minacciato di chiudere la sede di Gerusalemme di Al Jazeera e un missile israeliano aveva distrutto l’edificio che ospitava gli studi dell’emittente a Gaza nel 2021. Mentre nel maggio 2022, era stata freddata a colpi d’arma da fuoco la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh da soldati israeliani nella Cisgiordania occupata.

    Con l’ultima legge approvata lunedì sera dalla Knesset, il Parlamento di Israele, lo Stato ebraico conferma la sua tendenza alla censura dell’informazione, continuando a ostacolare la diffusione di ciò che accade realmente in Palestina e adottando misure che sono apertamente in contrasto con la definizione di Israele come «unica democrazia del Medio Oriente».

    Belgio: intervento per genocidio contro Israele alla Corte Penale

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    Il Belgio ha depositato un intervento nella causa contro Israele per genocidio presso la cancelleria della Corte Penale Internazionale. La memoria è stata presenta ai sensi dell’articolo 63 della Corte, che permette agli Stati firmatari dello Statuto di Roma di intervenire nei procedimenti attivi per crimini perseguiti dalla Corte. Sudafrica e Israele sono stati invitati a depositare osservazioni sull’intervento di Bruxelles. L’intervento del Belgio si aggiunge a quelli di Colombia, Libia, Messico, Palestina, Spagna, Turchia, Cile, Maldive, Bolivia, Irlanda, Cuba. Belize, Brasile e isole Comore.

    La Coppa d’Africa in Marocco, tra proteste e repressione violenta

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    Lunedì 21 dicembre presso lo Stadio Moulay Abdellah di Rabat, in Marocco, si è tenuta la partita di apertura della Coppa d'Africa 2025. L'incontro inaugurale si è svolto sullo sfondo delle ingenti proteste del popolo marocchino contro l'evento, in quello che risulta il maggiore moto di sollevamento dal basso nel Paese dalla cosiddetta “primavera araba” del 2011. Le manifestazioni sono scoppiate lo scorso settembre per contestare quello che viene giudicato come uno spreco di risorse pubbliche per l'organizzazione della kermesse calcistica; risorse che, ritengono i manifestanti, sarebbero da des...

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