«In questi tempi democratici, qualsiasi indagine sull’affidabilità e le peculiarità dei giudizi popolari è di interesse». L’ha detto Francis Galton, cugino di Charles Darwin, parlando del peso di un bue. Ma ci arriviamo dopo, prima dobbiamo parlare di completi da uomo. Quando Volodymyr Zelensky incontrò il presidente degli Stati Uniti nello Studio Ovale lo scorso febbraio, la prima cosa che Donald Trump gli disse fu: «Oggi sei tutto vestito elegante». In realtà, il leader ucraino non indossava certo un abito da cerimonia: aveva una semplice maglia nera abbinata a pantaloni dello stesso colore....
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LA PAZ – È Rodrigo Paz Zamora, senatore centrista figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora, il nuovo presidente della Bolivia. Dopo che le elezioni di agosto hanno sancito la fine di vent’anni di governo socialista nel Paese, al ballottaggio Paz ha infatti guadagnato il 54,5% delle preferenze, mentre il conservatore Jorge “Tuto” Quiroga si è fermato al 43,8%. Con la vittoria di Paz, la Bolivia entra in una nuova fase che promette “moderazione e dialogo”, ma che nei fatti segna il ritorno al pragmatismo neoliberale. Nel frattempo, da mesi il Paese si trova ad affrontare una critica mancanza di carburante e un’inflazione al galoppo (attualmente al 13%), mentre le riserve valutarie sono ridotte a meno di due miliardi di dollari, la moneta locale sta subendo una forte svalutazione, il debito pubblico è vicino all’80% del PIL e l’export di gas è in caduta libera.
Nel suo primo discorso all’Hotel Presidente, tra applausi e telecamere, Paz ha ringraziato «il sotto-segretario della presidenza Trump per la chiamata ricevuta», annunciando la volontà di «costruire una relazione stretta con uno dei governi più importanti del mondo» a partire dall’8 novembre, giorno del suo insediamento ufficiale al Palacio Quemado. Dietro la retorica della modernizzazione si intravede il ritorno della Bolivia nella sfera d’influenza statunitense, dopo due decenni di distanza.
Rodrigo Paz Zamora conquista così la presidenza della Bolivia per il quinquennio 2025-2030. Figlio dell’ex capo di Stato Jaime Paz Zamora, si è imposto come il volto sobrio del cambiamento, segnando nei fatti un ritorno al pragmatismo neoliberale. In campagna elettorale, Paz ha promesso “stabilità e crescita” attraverso riforme pro-mercato, decentralizzazione amministrativa e incentivi agli investimenti esteri. Il suo linguaggio è più sobrio di quello di Quiroga, ma la direzione resta la stessa: più mercato, meno Stato. Il suo piano economico prevede una revisione selettiva dei sussidi ai carburanti, che pesano per oltre 3 miliardi di dollari l’anno, incentivi agli investimenti stranieri e una decentralizzazione amministrativa che favorisca le regioni più produttive, in particolare Santa Cruz. Paz evita la parola “austerità”, preferendo parlare di «responsabilità fiscale»; non menziona privatizzazioni, ma di “alleanze pubblico-private”. Eppure, il lessico resta quello dei manuali del Fondo Monetario Internazionale.
Con un’inflazione sopra il 13%, un debito pubblico vicino all’80 % del PIL e riserve in valuta estera scese a 1,7 miliardi di dollari (erano 15 miliardi nel 2014), la Bolivia arriva al cambio di governo sull’orlo della bancarotta tecnica. Paz ha già annunciato colloqui con il FMI e la Banca Interamericana di Sviluppo per ottenere linee di credito “destinate alla stabilizzazione”. La sensazione diffusa è che la nuova Bolivia parli la lingua dei mercati, e che nel suo vocabolario — come altrove in America Latina — la parola indipendenza non si traduca più.
La vittoria di Paz è stata resa possibile anche grazie alla frattura interna al MAS, il partito socialista del Paese, con lo scontro aperto dei due leader Luis Arce, presidente uscente, ed Evo Morales, fondatore del partito e primo presidente indigeno. Morales è rimasto in carica dal 2006 al 2019: durante i suoi tre mandati, si è opposto alle ingerenze straniere nazionalizzando tutte le riserve di gas naturale e il settore energetico, promuovendo la riforma agraria e l’aumento dei salari. Considerata la ricchezza di risorse naturali della Bolivia, la nazionalizzazione e l’estromissione di multinazionali straniere dalla possibilità di sfruttare tali risorse hanno messo all’erta vari Paesi terzi, tra i quali Washington. Nel 2019, pur avendo vinto le elezioni, Morales fu costretto a dimettersi a seguito di un “golpe morbido”, e nel 2024 è stato oggetto di un nuovo tentato colpo di Stato che mirava a impedirne la ricandidatura. Negli scorsi mesi i Ponchos Rojos, il movimento indigeno che sostiene Morales, avevano indetto numerose proteste e blocchi del Paese per spingere Arce alle dimissioni e chiedere che ne fossero indette di nuove. Morales aveva infatti accusato Arce, oltre che di cattivo governo, di aver permesso «il ritorno di agenti statunitensi come CIA, DEA e USAID», dichiarazioni alle quali Arce aveva risposto accusando Morales di star tentando il «colpo di Stato». Negli scorsi mesi, oltre a denunciare un tentativo di attentato nei suoi confronti, Morales è anche stato accusato, con un certo tempismo rispetto alla campagna elettorale, di reati sessuali contro minorenni, accuse che lui ha sempre respinto: «Denuncio al mondo che sono vittima di una brutale guerra legale portata avanti dal governo di Luis Arce, che ha promesso di consegnarmi come trofeo di guerra agli Stati Uniti», aveva dichiarato. Le insanabili divergenze tra i due leader hanno fatto crollare l’appoggio al movimento socialista, che alle elezioni dello scorso agosto non è riuscito a ottenere più del 3% delle preferenze. Un risultato che, dopo vent’anni, riporta il Paese sotto l’ombrello di Washington.
Il popolo nigeriano ha lanciato una protesta antigovernativa che è stata duramente repressa dalla polizia. La protesta si è svolta nella capitale Abuja con lo scopo di contestare la detenzione del leader separatista Nnamdi Kanu, capo del Movimento per i Popoli Indigeni del Biafra che si batte per la secessione della Nigeria sudorientale, dove risiede il gruppo degli Igbo. Nelle strade centrali della città, la polizia, armata di idranti e camion blindati, ha lanciato gas lacrimogeni contro i manifestanti; secondo delle testimonianze, in altre aree della capitale avrebbe caricato la folla con il supporto delle forze armate.
Una nuova banca sta nascendo negli Stati Uniti per servire l’“economia innovativa” legata alle nuove tecnologie: la Erebor Bank. L’istituto non ha però ancora fatto in tempo ad aprire ufficialmente i battenti che già sta suscitando non poche preoccupazioni. Non solo fa propria un’eredità finanziaria fragile, ma intreccia anche legami con figure controverse come Palmer Luckey, Peter Thiel e Joe Lonsdale — imprenditori e gestori di hedge fund tanto influenti quanto divisivi.
Secondo quanto rivelato dal Financial Times, l’obiettivo dichiarato di Erebor Bank è quello di affiancare aziende che operano in settori tecnologici ad alto rischio: dalle criptovalute all’intelligenza artificiale, passando per l’industria della Difesa. Senza ovviamente farsi mancare la possibilità di accogliere tra i suoi potenziali clienti gli individui ultra-high-net-worth (UHNW) attivi in questi stessi ambiti. A ben vedere, si tratta del terreno già battuto in passato dalla Silicon Valley Bank, la cui drammatica implosione ha evocato echi della crisi finanziaria del 2008.
Il nome stesso, Erebor, non contribuisce a infondere fiducia. Si tratta infatti di un riferimento alla “Montagna Solitaria” del romanzo Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien, dimora di un drago avido e vanesio che ha razziato la regione e che dorme su un giaciglio di ricchezze trafugate ai legittimi proprietari. Il rimando al mondo tolkieniano non è casuale: il cofondatore della banca, Palmer Luckey, è già noto per aver creato nel 2017 Anduril Industries, azienda di tecnologie militari e armi autonome vicina al Dipartimento della Guerra statunitense, la quale prende il nome da una delle più celebri spade citate ne Il Signore degli Anelli.
Sia Erebor Bank che Anduril Industries sono state finanziate da hedge fund gestiti da Peter Thiel e Joe Lonsdale, membri della cosiddetta “PayPal Mafia”, con i due che avrebbero già raccolto circa 275 milioni di dollari per la nuova banca. Thiel, in particolare, è celebre per aver fondato Palantir, società specializzata in analisi dei dati utilizzata dai governi per attività di sorveglianza — un’altra impresa che, non a caso, deve il suo nome alla mitologia tolkieniana. Al di là delle citazioni letterarie, emerge come il gruppo di personalità coinvolte nel progetto appartenga a un circolo di “soliti noti”, grandi finanziatori repubblicani e megadonatori della campagna trumpiana, oggi capaci di esercitare un’influenza politica significativa su Washington.
La senatrice democratica Elizabeth Warren ha già lanciato l’allarme su come, il 15 ottobre, l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC) abbia concesso a Erebor Bank le approvazioni preliminari necessarie in appena quattro mesi — un tempo ben più contenuto dei nove mesi e mezzo normalmente richiesti. Secondo un’inchiesta di Business Insider pubblicata ad agosto, una nota interna indirizzata agli investitori prometteva che, grazie alle «connessioniesclusive [di Palmer] con gli enti di vigilanza bancaria», l’autorizzazione sarebbe arrivata «in meno di sei mesi». «Le connessioni politiche di Palmer risolveranno il tutto», si leggeva nel documento. Altri osservatori hanno invece sottolineato come Adam Cohen, l’avvocato che stava lavorando alla documentazione della banca, sia stato assunto a luglio dall’OCC come consigliere legale capo.
Jonathan Gould, Amministratore dell’OCC salito in poltrona un paio di settimane prima del reclutamento di Cohen, ha celebrato l’approvazione preliminare della banca asserendo che la sua decisione sia «la prova che l’OCC, sotto la mia guida, non impone barriere generalizzate alle banche che vogliono impegnarsi in attività di asset digitali» e che «l’OCC continuerà a fornire un percorso mirato ad approcci innovativi ai servizi finanziari, così da garantire un sistema finanziario forte e diversificato, che rimanga rilevante nel tempo». Prima di poter diventare pienamente operativa, Erebor Bank dovrà ancora ottenere l’assicurazione sui depositi dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) e dimostrare la conformità a rigorosi parametri prudenziali. L’istituto sarà sottoposto a verifiche su sicurezza informatica, capitale e, soprattutto, antiriciclaggio — controlli che, almeno sulla carta, dovrebbero richiedere altri nove mesi di esami approfonditi.
Oggi in Grecia, al largo delle coste di Creta, sono state condotte due operazioni di salvataggio, in seguito alle quali sono state soccorse 110 persone migranti. La prima è stata effettuata a circa 40 miglia nautiche a sud di Kaloi Limenes, dove la guardia costiera greca, assieme a due motovedette e un drone dell’agenzia europea Frontex, hanno salvato 59 persone migranti. La seconda, anch’essa condotta dalla guardia costiera in coordinazione con Frontex, è stata condotta a 35 miglia nautiche a sud di Kalamaki. Le persone soccorse sono state condotte ad Agia Galini. Secondo i media greci, la maggior parte di esse proverrebbe dal Sudan, ma non è chiaro da dove sia partita l’imbarcazione.
Un nuovo dossier pubblicato da BDS Italia, dal titolo Piovono euro sull’industria “necessaria” di Crosetto e Leonardo S.p.A. Le relazioni con Israele, riaccende i riflettori sui rapporti tra Leonardo S.p.A.– la principale azienda italiana della difesa, partecipata dallo Stato – e l’apparato militare israeliano. Secondo l’inchiesta, il gruppo guidato da Roberto Cingolani, attraverso filiali, joint-venture e forniture dirette, avrebbe continuato a fornire tecnologie, componenti e sistemi d’arma all’esercito di Tel Aviv anche dopo l’inizio dell’offensiva post 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza. Dalla fornitura di cannoni navali OTO Melara ai radar israeliani RADA, fino ai jet M-346 “Lavi”, le connessioni tra Leonardo e la macchina militare israeliana emergono in modo dettagliato nel documento. L’azienda ha sempre respinto le accuse, ma le prove raccolte nel dossier delineano una rete di rapporti economici e militari difficilmente compatibile con i princìpi della legge italiana sull’export di armi e con gli impegni internazionali in materia di diritti umani.
L’industria della guerra travestita da tecnologia
Un cannone navale OTO Melara 76/62 Super Rapid
Il rapporto a cura di Rossana De Simone pubblicato da BDS Italia (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), ricostruisce in modo dettagliato un mosaico di contratti, acquisizioni e forniture che collegano Leonardo alle forze armate di Israele. Tra gli esempi più citati figura la fornitura dei cannoni navali OTO 76/62 Super Rapid, prodotti da OTO Melara, società interamente controllata da Leonardo, e montati sulle corvette Sa’ar 6 della marina israeliana. Tali navi hanno preso parte ai bombardamenti sulla Striscia di Gaza nel corso delle offensive del 2023 e del 2024. Un altro punto cruciale riguarda l’acquisizione, avvenuta nel 2022, della israeliana RADA Electronic Industries tramite la controllata statunitense Leonardo DRS. RADA è specializzata in radar e sistemi di difesa attiva per veicoli corazzati – come l’“Iron Fist” – utilizzati dall’esercito israeliano nelle incursioni via terra a Gaza. Il dossier sottolinea che tale partecipazione non è meramente indiretta: Leonardo ne detiene il controllo operativo, beneficiando dei contratti stipulati con il Ministero della Difesa israeliano. BDS Italia ricorda, inoltre, che Leonardo figura tra i fornitori del jet M-346 “Lavi” dell’aeronautica israeliana, impiegato in versioni d’attacco leggere.
Come il governo elude la legge 185/90
Secondo il rapporto, la cooperazione tra Roma e Tel Aviv non si è fermata al 7 ottobre 2023: la legge italiana 185/90, che vieta l’export di armamenti verso Paesi in conflitto o che violano i diritti umani, viene elusa grazie alla struttura multinazionale dell’azienda, che opera attraverso società con sede in Stati Uniti, Israele e Regno Unito, dove le restrizioni italiane non si applicano pienamente. Il 17 luglio, dopo un bilancio devastante a Gaza, PD, M5S e AVS hanno presentato una mozione per sospendere il Memorandum militare con Israele. La maggioranza ha difeso l’accordo per motivi economici, occupazionali e strategici, sostenendo che isolare Israele non aiuterebbe a risolvere la crisi politica. La mozione è stata respinta, come molte altre risoluzioni europee e internazionali sul tema.
Profitti di guerra e caduta in Borsa
Il contesto finanziario rafforza l’immagine di un’azienda che prospera in tempo di guerra. Per due anni di fila (2023 e 2024), l’azienda ha infatti registrato profitti da record, superando di molto le previsioni degli analisti. Nel febbraio 2025, Leonardo ha chiuso l’anno precedente con utili record pari a 17,8 miliardi di euro, un incremento attribuito anche al protrarsi dei conflitti in Medio Oriente. La domanda globale di armamenti – in particolare droni, radar e sistemi di artiglieria – era esplosa proprio durante l’offensiva israeliana su Gaza. La dinamica inversa si è verificata nell’ottobre 2025, quando l’annuncio di una tregua temporanea tra Israele e Hamas ha provocato un improvviso crollo del titolo in Borsa. Le azioni di Leonardo hanno perso valore in poche ore, calando a 55,48 il 9 ottobre, data di annuncio dell’accordo, e a 52,90 il 10 ottobre, giorno della ratifica, segno evidente di quanto la redditività dell’azienda sia legata al perdurare delle ostilità. Questa correlazione diretta tra guerra e profitto pone interrogativi etici sulla sostenibilità di un modello industriale che trae beneficio dalla violenza e dal disastro umanitario.
Le dichiarazioni contradditorie di Cingolani
Il CEO di Leonardo, Roberto Cingolani
Intervistato da Federico Fubini per il Corriere della Sera il 30 settembre 2025, l’amministratore delegato Roberto Cingolani ha negato qualsiasi coinvolgimento diretto di Leonardo nelle operazioni militari israeliane, affermando che «non vendiamo armi a Paesi in guerra» e definendo «un’esagerazione inaccettabile» parlare di corresponsabilità nel genocidio di Gaza, legata alla partecipazione dell’azienda ai consorzi che producono gli F-35 usati anche da Israele. Ha poi precisato che i radar militari sono venduti dalla DRS Technologies, soggetta alle decisioni del governo USA e che, dall’inizio del conflitto, non sono state più autorizzate esportazioni verso Israele. La sua difesa si è concentrata sulla distinzione tra nuove licenze d’esportazione e contratti preesistenti, sostenendo che l’azienda rispetta la legge 185/90. Pochi giorni dopo, Altreconomia ha smontato punto per punto le dichiarazioni di Cingolani, dimostrando come Leonardo continui di fatto a fornire sistemi militari a Israele attraverso le proprie controllate estere. L’inchiesta ha documentato che la linea ufficiale dell’azienda – «non esportiamo verso Israele» – è smentita dai flussi industriali e dalle partecipazioni societarie. Di fatto, i componenti prodotti da Leonardo e le tecnologie condivise con RADA e DRS vengono integrati nelle forniture israeliane, consentendo all’azienda italiana di mantenere la propria presenza nel mercato bellico anche in pieno conflitto.
Lo Stato azionista e la responsabilità politica
Lo Stato italiano, azionista di maggioranza relativa con circa il 30% del capitale di Leonardo, si trova al centro di un evidente conflitto d’interessi. Da un lato promuove una linea diplomatica formalmente orientata alla pace e al rispetto del diritto internazionale; dall’altro, trae benefici finanziari dalle performance di un’azienda che rifornisce un esercito accusato di crimini di guerra. Il dossier di BDS Italia insiste su questo punto, sostenendo che la responsabilità dello Stato non è solo morale ma anche materiale, poiché parte dei profitti derivanti dal conflitto rientrano nelle casse pubbliche sotto forma di dividendi. Le norme italiane sull’export di armamenti appaiono insufficienti a garantire un controllo reale. La legge 185/90 prevede che le forniture vengano bloccate in presenza di conflitti armati o di violazioni sistematiche dei diritti umani, ma prevede anche eccezioni per contratti firmati in precedenza o per operazioni indirette attraverso società controllate all’estero. È proprio in questa “zona grigia” che, secondo il dossier, Leonardo si muove con abilità, sfruttando la complessità delle proprie catene di produzione per aggirare i vincoli.
Le prove di complicità industriale
La Relatrice speciale ONU Francesca Albanese
Le evidenze raccolte nel rapporto di BDS Italia convergono su un punto: Leonardo non è un attore esterno al conflitto, ma un ingranaggio integrato nella macchina militare israeliana. I cannoni OTO Melara, i radar RADA e i jet M-346 “Lavi” non sono meri prodotti di catalogo, ma strumenti impiegati nei bombardamenti e nelle incursioni a Gaza. Il dossier cita fonti israeliane e internazionali – tra cui Who Profits e il rapporto della relatrice speciale ONU Francesca Albanese – per dimostrare che le tecnologie di Leonardo contribuiscono concretamente all’azione militare israeliana. Il rapportoDall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, presentato il 30 giugno da Francesca Albanese, ha presentato un duro atto d’accusa contro Israele e le aziende coinvolte nel sostegno militare e finanziario all’assalto di Gaza. Il documento denuncia la complicità del settore privato globale, dalle big tech alle industrie belliche, nell’economia del genocidio, mentre la spesa militare israeliana è cresciuta del 65% in un anno. Per il suo lavoro, Albanese è stata attaccata e sanzionata dagli Stati Uniti. Il documento stilato da BDS Italia aggiunge nuovi tasselli a quel reporto, mostrando come la catena di fornitura di Leonardo attraversa filiali e partner industriali in Stati Uniti, Regno Unito e Israele, rendendo difficile applicare sanzioni o blocchi alle esportazioni. In sostanza, l’azienda italiana ha costruito una rete internazionale che le consente di mantenere attivi i flussi commerciali anche in presenza di divieti formali.
La crisi della trasparenza e il silenzio istituzionale
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito “propaganda” le campagne di boicottaggio e le richieste di embargo militare, riaffermando la necessità di “sostenere le imprese strategiche nazionali”.
Mentre BDS Italia e varie organizzazioni per i diritti umani chiedono chiarezza, Leonardo ha scelto la via del silenzio. Alla richiesta di commento inviata da Business & Human Rights Resource Centre, l’azienda non ha fornito risposta. Né il governo italiano ha finora chiarito la propria posizione rispetto alle accuse contenute nel dossier. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito “propaganda” le campagne di boicottaggio e le richieste di embargo militare, riaffermando la necessità di “sostenere le imprese strategiche nazionali”. Questa difesa istituzionale si inserisce in un quadro più ampio in cui l’industria militare italiana viene presentata come volano economico, nonostante i suoi legami con teatri di guerra e violazioni dei diritti umani. La stessa Leonardo, del resto, si promuove come “leader europeo nella difesa etica e sostenibile”, una formula che stride con la realtà documentata dal dossier BDS.
Diritto, economia e morale: le domande inevase
Il caso Leonardo riporta al centro un nodo irrisolto della politica industriale italiana: può un’azienda controllata dallo Stato generare profitti dalla guerra senza che lo Stato stesso ne sia corresponsabile? La risposta non è solo giuridica, ma etica. Finché il governo continuerà a giustificare l’espansione militare come opportunità economica, il confine tra difesa e complicità rimarrà labile. La legge 185/90, pur avanzata per l’epoca, appare oggi inadeguata a regolamentare un’industria globalizzata che agisce tramite controllate e partnership transnazionali. Le autorità italiane non possono ignorare che il controllo effettivo su Leonardo implica anche una responsabilità sulle sue scelte commerciali e produttive.
Conclusione
Il dossier di BDS Italia non è una denuncia isolata, ma un atto d’accusa documentato, che incrocia dati industriali, bilanci e fonti ufficiali. Mentre Leonardo parla di “difesa etica”, le sue forniture finiscono – direttamente o attraverso controllate estere – nel cuore della macchina bellica israeliana. Il 15 luglio 2025 i ministri degli Esteri dell’Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno deciso di non sospendere l’accordo di associazione con Israele sebbene si sia rilevato che continua a violare i suoi obblighi, in materia di diritti umani, ai sensi dell’accordo di associazione. È dall’inizio della guerra che l’Europa si rifiuta di fermare la strage di civili a Gaza, le violenze e sfollamenti da parte dei coloni e dell’esercito israeliano, ma la sua complicità si mostra con maggiore cinismo quando assicura che non finanzia progetti che colpiscono Gaza. L’immagine che ne emerge è quella di un’azienda a controllo pubblico che prospera mentre a Gaza si consuma una catastrofe umanitaria.
Il mondo delle fibre tessili non accenna a rallentare la sua corsa. Stando ai dati dell’ultimo report di Textile Exchange (Settembre 2025), la produzione globale di fibre è aumentata da circa 125 milioni di tonnellate nel 2023 fino a toccare un record di 132 milioni di tonnellate nel 2024 (negli anni 2000 era intorno ai 58 milioni di tonnellate) e con previsioni future che potrebbero raggiungere i 169 milioni di tonnellate nel 2030 se le produzioni seguiranno allo stesso ritmo. Ingenti quantità che si vanno ad inserire in un quadro produttivo vertiginoso, dove tutto quel che si produce non viene smaltito, trasformandosi in pericolosi rifiuti tessili.
A guidare la classifica delle fibre più prodotte è ancora il poliestere e, più in generale, tutti i materiali sintetici a base fossile, vergine. La produzione di fibre riciclate, infatti, è ancora a livelli minimi (7,6%) e gira sempre intorno al poliestere riciclato ricavato da bottiglie di plastica (quindi non da fibra a fibra, ma da altro materiale).
Aumenti produttivi ai quali corrispondono aumenti delle emissioni di gas serra (del 20% negli ultimi cinque anni) associate alla produzione totale di materie prime per l’industria dell’abbigliamento, dei tessuti per la casa e delle calzature. Il che fa allontanare tutto il settore dall’Accordo di Parigi: contenere le emissioni per mantenere il riscaldamento globale entro un limite di 1,5 °C, con questa dipendenza da materiali sintetici a base fossile, è quasi impossibile.
Un dato positivo che emerge dal report riguarda il numero di aziende impegnate in materia di sostenibilità, che ha raggiunto un livello di partecipazione record, dimostrando un discreto slancio verso la responsabilità collettiva.
Le fibre tessili prodotte globalmente sono tante e di varia natura, che rispondono alle richieste del mercato per i più svariati usi (moda sì, ma anche arredamento, calzature, automobili, ecc). Da un rapido sguardo alla situazione attuale, risultano ancora in testa alla classifica le fibre sintetiche. Il cotone rimane la seconda fibra più prodotta dopo il poliestere, nonostante abbia registrato una piccola flessione nell’ultimo anno, passando da 24,8 milioni di tonnellate nel 2022/23 a 24,5 milioni di tonnellate nel 2023/24. La produzione di fibre cellulosiche artificiali, tra cui viscosa (rayon), lyocell, modal, acetato e cupro, è aumentata da 7,9 milioni di tonnellate nel 2023 a 8,4 milioni di tonnellate nel 2024. La produzione globale di lana di pecora si è attestata a circa 1 milione di tonnellate di fibra di lana pulita nel 2024, con la lana che rappresenta lo 0,9% del mercato globale delle fibre (una percentuale irrisoria che si può facilmente constatare dalle etichette dei maglioni, dove incontrare un capo 100% lana è diventata una caccia al tesoro)! Altre fibre, dalla canapa all’elastan, stanno iniziando a guadagnare sostegno nel settore, rimanendo però ancora una percentuale marginale nella produzione globale.
Il sintetico comanda, non certo per le sue incredibili qualità o prestazioni, ma sempre per quell’aspetto di convenienza che permette di mantenere costi bassi e margini che aumentano, mentre il mondo si continua a riempire di plastica dalle fogge più svariate.
Il Materials Market Reportmette anche in evidenza lo stato attuale delle fibre riciclate, che presenta luci e ombre: se da una parte la domanda e le iniziative stanno crescendo, dall’altra la quota effettivamente riciclata resta una frazione ridotta rispetto al totale delle fibre tessili prodotte. La quota di tessili riciclati globali (tutte le fibre) rimane intorno all’8% del totale, leggermente diminuita rispetto al passato a causa del calo del poliestere riciclato. Poliestere che, ad oggi, deriva dal riciclo di bottiglie in PET, mentre il riciclo vero e proprio da “tessile a tessile” resta ancora marginale e rappresenta meno dell’1% del mercato.
Nonostante ciò, sono circa 116 aziende hanno aderito alla 2025 Recycled Polyester Challenge, impegnandosi a utilizzare dal 45% fino al 100% di poliestere riciclato per i loro prodotti. Il 58% dei firmatari ha già raggiunto l’obiettivo di rimpiazzare completamente il poliestere vergine fossile con quello riciclato, ma solo il 26% delle aziende partecipanti ha effettivamente raggiunto già nel 2025 il proprio target di poliestere riciclato. Anche per quanto riguarda le altre fibre le percentuali del riciclato sono ancora molto basse. Questo rallentamento in parte è dovuto ai costi alti per la selezione e la lavorazione dei rifiuti tessili, in parte alla mancanza di infrastrutture impediscono una crescita più rapida del riciclo da tessile a tessile.
Una fotografia controversa, che se da una parte fa ben sperare nell’impegno delle aziende e nello sviluppo di nuove tecnologie, dall’altra mostra che la strada più facile è ancora quella più percorsa e che se non si rallenta la corsa, presto saremo seppelliti dalle stesse fibre di cui ci vestiamo quotidianamente.
Dall’inizio della tregua, almeno 97 civili palestinesi sono stati uccisi e oltre 230 feriti dal fuoco israeliano, secondo quanto riferito dal governo di Hamas, che accusa Israele di 80 violazioni documentate, tra bombardamenti, sparatorie e arresti di civili. Tuttavia, a livello internazionale cresce la pressione su Hamas, accusata di usare la tregua per riorganizzarsi militarmente e ostacolare gli sforzi diplomatici per una pace duratura. Intanto, nelle prossime ore il vice presidente JD Vance e gli inviati Steve Witkoff e Jared Kushner si recheranno in Israele per incontrare il premier Benjamin Netanyahu.
Vi sono componenti degli organi di amministrazione, responsabili tecnici e direttori di cantiere tra i 12 indagati a vario titolo per i reati di inquinamento ambientale e omessa bonifica nell’ambito dei lavori di realizzazione della Superstrada Pedemontana Veneta. Le notifiche di conclusione delle indagini sono state inviate dalla procura di Vicenza, che da mesi indagava sulla presenza di sostanze tossiche nelle acque di scolo dell’infrastruttura, la quale avrebbe comportato la contaminazione dell’ecosistema e delle fonti idriche potabili di Vicenza e Padova. Secondo le ipotesi, gli indagati non avrebbero rispettato le prescrizioni tecniche relative alla composizione del calcestruzzo, impiegando un accelerante contenente PFBA, una tipologia di PFAS – sostanze chimiche “eterne” che, accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani, provocano gravi danni alla salute.
La contaminazione sarebbe avvenuta in un periodo compreso tra il 28 giugno 2021 e il 23 gennaio 2024 nei territori di Castelgomberto, Malo e Montecchio Maggiore (tutti in provincia di Vicenza), come riporta una nota dell’Arma dei carabinieri. Gli indagati avrebbero «omesso di rispettare le prescrizioni tecniche relative alla composizione di calcestruzzo proiettato utilizzato per varie opere in sotterraneo, impiegando un additivo accelerante denomiato “Mapequick AF1000” contenente acido perfluorobutanoico (PFBA) in concentrazioni superiori ai valori di soglia indicati dal parere dell’Istituto Superiore di Sanità n.24565/2015». In questo modo, si sarebbe determinata «una contaminazione significativa delle acque superficiali e sotterranee insistenti nelle aree interessate dai lavori». Contro gli indagati sono state anche formulate le accuse di omessa bonifica e mancato ripristino dei luoghi, «nonostante la piena coscienza dell’avvenuto inquinamento».
I fatti avevano cominciato a venire alla luce a seguito di un esposto del Comitato Veneto Pedemontana Alternativa (Covepa), il quale nel 2023 aveva sollecitato il ministero dell’Ambiente a indagare sugli scarichi di acque di drenaggio provenienti dalle gallerie della superstrada. A seguito di mesi di approfondimenti, il ministero aveva chiesto un’indagine tecnico-scientifica, la quale aveva confermato la presenza di PFBA nelle acque delle falde. Una relazione dell’ISPRA aveva riportato che «le acque di drenaggio in uscita dalle gallerie di Malo e di Sant’Urbano rappresentano delle fonti, tuttora attive, di inquinamento da PFBA delle acque superficiali e sotterranee e, inoltre, il PFBA è individuabile come fattore di potenziale danno ambientale alle acque superficiali, in quanto suscettibile di incidere sullo stato ecologico delle stesse, nonché sullo stato di qualità delle acque sotterranee destinate ad uso potabile».
Lo scorso 8 ottobre, Andrea Zanoni, consigliere regionale, aveva presentato una interrogazione alla Giunta Regionale, dopo aver visionato dati di un tavolo tecnico risalente al 17 giugno di quest’anno nei quali emerge come 3 milioni di metri cubi di terre da scavo contaminate da PFBA siano state depositate in 20 siti, in particolare nelle acque di “ruscellamento”, con concentrazioni dell’inquinante fino a 2000 ng/litro. Si tratta di valori «spaventosi», sostiene Zanoni, che confermano che «l’opera è stata realizzata senza il rispetto per l’ambiente e la salute pubblica, come dimostrano i valori già rilevati a Castelgomberto, dove sono stati trovati PFAS in concentrazioni elevatissime, pari a 263.000 ng/litro». Nell’interrogazione viene sottolineato come 7 dei 31 pozzi idropotabili di Caldogno siano stati chiusi.
Negli ultimi anni, il Veneto è stato interessato anche da un’altra vicenda giudiziaria legata all’inquinamento da PFAS, che amplifica l’allarme per l’attuale contaminazione. Nel 2013 è stata infatti scoperta la contaminazione di una vasta falda acquifera che ha coinvolto circa 350 mila cittadini nelle province di Vicenza, Verona e Padova. Tra il 2015 e il 2016, rilevazioni a campione hanno evidenziato la presenza di elevate concentrazioni di PFAS nel sangue dei residenti, fino a che non è stato dichiarato lo stato di emergenza, nel 2018, insieme all’istituzione di una zona rossa che ha interessato 30 Comuni, con divieto di utilizzo dell’acqua potabile. Per quei fatti, nel processo di primo grado contro i dirigenti della Miteni di Trissino, sono state emesse condanne fino a 17 anni contro 11 imputati.
La Pedemontana Veneta, oltre che una bomba a orologeria per la salute dell’ambiente e dei residenti, si è rivelata anche un’opera dai costi esorbitanti per i cittadini veneti. In soli nove mesi, nelle casse della Regione Veneto si è generato un buco da 47 milioni di euro, per via del canone annuo (destinato a salire fino a superare i 332 milioni di euro nel 2059) che la Regione deve versare alla società costruttrice SIS. Per questo motivo, l’opera è da tempo finita nel mirino della Corte dei Conti, che ha inoltre raccomandato l’applicazione di sanzioni per i ritardi nel terminare i lavori (il termine fissato era il 2020, ma l’ultima tratta è stata aperta solamente nel 2023, mentre l’interconnessione con l’A4 è stata conclusa solamente nel 2024). Vi sono inoltre 20 milioni di euro che la Regione ha versato al concessionario anche se non dovuti, nonché il nodo della possibile riclassificazione della superstrada, che consentirebbe di aumentare il limite di velocità da 110 a 130 km/h, equiparandolo a quello delle autostrade.
Un autista è morto lungo la superstrada Rieti-Terni, nei pressi di Contigliano, dopo l’assalto al pullman che trasportava i tifosi del Pistoia Basket. Il mezzo stava lasciando la città al termine della partita di Serie A2 contro la Sebastiani Rieti, vinta dai toscani nel pomeriggio. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo sarebbe stato colpito da una pietra lanciata contro il parabrezza da alcuni tifosi della squadra reatina durante l’aggressione.
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