venerdì 19 Dicembre 2025
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Il nuovo piano israeliano per controllare i campi profughi palestinesi in Cisgiordania

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TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Eliminare la denominazione di “campi profughi”, cancellando quella che è la radice storica dei refugee camp di Tulkarem e Jenin, e vietare l’accesso ai tre campi alle organizzazioni internazionali, con l’obbligo che sia l’Autorità Palestinese a fornire i servizi necessari e non più UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 si occupa dei profughi palestinesi. Sono queste le prime due condizioni sancite da Israele per il ritorno delle oltre 40mila persone sfollate dalle proprie case da 11 mesi. Imprescindibili, per Tel Aviv, che continua così nella sua lotta per cancellare il concetto di “profughi palestinesi” e quindi negare il “diritto al ritorno” che avrebbero alle terre dalla quale sono stati mandati via ormai 77 anni fa. Ma non solo. Israele pretende l’installazione di posti di blocco militari gestiti dall’Autorità Nazionale Palestinese all’ingresso degli “ex-refugee camp”, trasformati quindi in quartieri di Tulkarem e Jenin, e il dispiegamento della polizia palestinese al loro interno.

Tel Aviv ha inoltre dichiarato che il ritorno dei rifugiati nei campi sarà consentito solo dopo che l’esercito israeliano avrà completato la “riorganizzazione dell’area”, sottolineando che la ricostruzione delle strade deliberatamente distrutte durante le operazioni militari sarà effettuata in pieno coordinamento con l’esercito. La nuova data per la fine delle operazioni sarebbe il 31 gennaio. Ma è la terza volta che rimandano la ritirata dai territori di Jenin e Tulkarem, secondo gli accordi di Oslo classificati zona A, quindi sotto il completo controllo palestinese, dove teoricamente l’esercito israeliano non potrebbe nemmeno accedere. All’inizio l’esercito aveva detto che l’operazione Iron Wall – e la conseguente occupazione dei campi – sarebbe durava solo qualche giorno. Poi, avevano dichiarato che avrebbero lasciato il territorio il 31 agosto. Ad agosto la data è slittata il 31 ottobre, e i primi di novembre hanno rimandato ancora al 31 gennaio.

I campi profughi del nord della Cisgiordania occupata ricordano sempre di più Gaza. Interi quartieri sono stati distrutti, la geografia interna è stata modificata per adattarla alle esigenze dell’esercito di Tel Aviv. Centinaia di case sono state cancellate per lasciare il posto a grosse strade e ora i campi profughi del nord rischiano di diventare un terreno di sperimentazione militare e amministrativa per tutti i refugee camp palestinesi nei territori occupati da Israele. Le condizioni per porre fine all’operazione militare erano già state delineate dal coordinatore statunitense per gli affari di sicurezza in Cisgiordania, Michael R. Wenzel, e dai comandanti militari israeliani, nel corso di una serie di incontri tenutisi in estate ed esplicitate un paio di mesi fa, ma ora sono state riproposte con qualche modifica di contorno.

Le richieste israeliane di fine agosto includevano anche il reinsediamento di circa il 50% dei residenti dei campi profughi in alloggi dispersi lontano dal campo e restrizioni alla ricostruzione delle case distrutte da Israele. Gli abitanti di Tulkarem e Jenin denunciano che si tratta di un attacco all’esistenza dei campi profughi stessi, con lo sfollamento di quasi il 50% dei loro abitanti e la possibilità di tornare solo a coloro ai quali Tel Aviv concederà di farlo. Ossia uno sfollamento forzato definitivo per tutti coloro che sono sulle black-list israeliane, e per le loro famiglie. Una condizione che, anche se non approvata, vuole essere de facto, dato che le case delle famiglie dei martiri o di chiunque fosse identificato come membro della resistenza o suo solidale sono state sistematicamente distrutte, abbattute o bruciate durante questo quasi un anno di occupazione permanente. Insieme ad altre centinaia di altre. Una nuova, minore, seconda Nakba, nel silenzio della comunità internazionale. Si tratta infatti del più importante e lungo sfollamento della popolazione palestinese dal 1967.

Fino ad oggi l’Autorità Palestinese aveva limitati poteri sui campi profughi e la maggior parte dei servizi erano forniti da UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupava dei profughi palestinesi e che Israele sta da tempo cercando di eliminare. L’ANP non è benvoluta nei campi profughi del nord: accusata di collaborazionismo con Tel Aviv, molti dei rifugiati la considerano ormai una seconda forza di occupazione, specialmente dopo l’operazione durata 40 giorni contro il campo profughi di Jenin l’anno scorso. In quell’occasione la polizia palestinese ha circondato il campo rifugiati, ha distrutto infrastrutture civili e ha ucciso almeno 8 persone, dichiarando che l’operazione fosse fatta per proteggere la patria dai “fuorilegge”, ossia dai gruppi di resistenza palestinese che avevano la loro base a Jenin.

Per ora, tuttavia, l’ANP ha respinto la proposta di Tel Aviv, descrivendola come politicamente delicata e indicativa di un tentativo di “cancellare” la questione dei rifugiati.
Molti dei rifugiati credono comunque che le trattative in corso tra l’Autorità Palestinese e Israele non termineranno a loro favore. L’ANP ha interesse nel controllare i campi profughi, e vuole sradicare la resistenza armata che ha terreno fertile in quelle aree. Ma l’accordo con Israele deve ancora essere trovato.

Mohamed Shahin è vittima di una persecuzione politica: gli atti che lo dimostrano

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Nessun legame con i terroristi, nessuna apologia di terrorismo: solo semplici «espressioni di pensiero» che, anche quando non condivise, in uno Stato di diritto sono «pienamente lecite». Lo stabilisce la Costituzione stessa e anche la Convenzione sui diritti dell’uomo. Queste le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Torino ha disposto la liberazione di Mohamed Shahin, detenuto in un CPR di Caltanissetta. L’imam di una delle moschee di Torino era stato oggetto di un decreto di espulsione lo scorso 24 novembre per aver definito Hamas un movimento di resistenza e aver dichiarato che quanto accaduto il 7 ottobre va inserito in un contesto di violenze commesse da Israele contro il popolo palestinese dal 1948 ad oggi. Su queste frasi il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, archiviata una settimana dopo perchè evidentemente il fatto non costituisce reato. Il ministero dell’Interno ha tuttavia deciso di procedere lo stesso con il decreto di espulsione, commettendo una grave violazione, non motivata da ragioni oggettive ma meramente politiche, che il provvedimento della Corte d’Appello smonta pezzo per pezzo.

A portare all’attenzione le frasi di Shahin, pronunciate lo scorso 9 ottobre, erano stati alcuni post della deputata e vice capogruppo di FdI, Augusta Montaruli. Il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, poi archiviata lo scorso 16 ottobre: quanto detto da Shahin rappresenta infatti «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato». Lo sottolinea la Corte d’Appello stessa, che ricorda come le sue dichiarazioni siano «pienamente lecite» secondo quanto previsto dalla nostra stessa Costituzione, all’art. 21, e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 10. Giudicare la condivisibilità o meno delle sue affermazioni non è compito dei giudici, insomma. E, in uno Stato di diritto, queste non possono incidere da sole sul giudizio di pericolosità del soggetto. «Contrariamente rispetto a quanto sostenuto dalla Questura», quindi, il fatto che Shahin ritratti o meno quanto detto non costituisce elemento di interesse per decidere in merito alla convalida di trattenimento in CPR. In aggiunta a ciò, sottolinea la Corte, va ricordato che le frasi di Shahin comprendevano anche un esplicito e netto rifiuto di ogni forma di violenza.

Eppure, il 24 novembre (oltre un mese l’archiviazione del procedimento sulle frasi incriminate), alcuni agenti di polizia lo fermano mentre accompagna i figli a scuola e lo portano in Questura. Qui gli viene notificato il decreto di espulsione verso l’Egitto, firmato dal ministro dell’Interno Piantedosi. Al centro del decreto vi sono le frasi pronunciate da Shahin, ma non solo. Il ministro, infatti, cita anche quanto avvenuto lo scorso 17 maggio, quando l’imam, insieme a un gruppo di circa 300 persone, aveva bloccato per circa una mezz’ora il traffico sulla tangenziale di Torino. Fino al 5 giugno di quest’anno l’azione, evidentemente di carattere non violento, ha rappresentato un illecito amministrativo, punibile con una multa. Con l’entrata in vigore del dl Sicurezza, questo si è trasformato in un reato penale. Sulla base di ciò, «la competente Autorità Giudiziaria ha concesso il nulla osta all’esecuzione dell’espulsione», riporta il decreto del ministro. La Corte d’Appello di Torino, nel riesaminare la richiesta di trattenimento in CPR, sottolinea proprio la natura non violenta delle azioni di Shahin e che non vi fosse altro «fattore peculiare concreto e indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». L’uomo, insomma, si trovava «meramente presente» sulla tangenziale insieme ad altre decine di attivisti.

Nel decreto di espulsione, il ministero riporta poi come Shahin sia «emerso all’attenzione sotto il profilo della sicurezza dello Stato per aver intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da una spiccata ideologia antisemita e poichè risultato in contatto con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». Eppure, sottolinea ancora la Corte di Torino, i contatti con i soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono «isolati e decisamente datati» (risalgono al 2012 e al 2018, in quest’ultima occasione peraltro si trattava di una conversazione tra terzi) e sono stati «ampiamente spiegati e giustificati» dall’uomo. «Gli unici elementi che la Digos aveva in mano – spiega a L’Indipendente Feirus Jama, una degli avvocati di Shahin – erano antecedenti al 2018 e riguardavano il fatto che lui fosse stato avvicinato da un certo soggetto convertitosi all’Islam, che poi è morto nel 2013».

A corredare l’istanza del ministero dell’Interno, inoltre, vi sono motivazioni la cui natura politica è esplicita. Tra queste, il fatto che Shahin sia «promotore delle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese» o che le sue affermazioni abbiano avuto una «vasta risonanza mediatica». Posizioni che sarebbero «del tutto incompatibili con i principi democratici e i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano», oltre ad «una totale mancanza di integrazione sociale e culturale nel Paese ospitante». Anche qui, la Corte d’Appello interviene smentendo il ministero. Shahin ha infatti «prodotto documentazione che denota un concreto e attivo impegno del trattenuto in ordine alla salvaguardia dei valori su cui si fonda l’ordinamento dello Stato italiano, circostanza che si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità» nei suoi confronti. Shahin è infatti una figura di riferimento di spicco a Torino anche per il lavoro che svolge all’interno della comunità che rappresenta, nel quartiere di San Salvario. Come ricorda il magistrato Livio Pepino, l’uomo è impegnato nelle attività di integrazione della comunità musulmana anche tramite l’insegnamento della Costituzione, oltre che essere stato insegnante di arabo.

Sono tanti gli elementi critici di questa storia. Tra questi, il fatto che l’uomo, invece che essere portato nel CPR di Torino, sia stato mandato fino a Caltanissetta. «Non abbiamo una risposta alla domanda sul perchè di questa decisione» riferisce Feirus Jama. Non si tratta di certo, come da lei sottolineato, di una questione di mancanza di spazio. In questo modo, tuttavia, l’imam è stato tenuto lontano dal suo territorio, dove la cittadinanza ha organizzato manifestazioni continue per il suo rilascio, oltre che dai suoi avvocati e dalla sua famiglia. Certo è che quanto avvenuto nei suoi confronti segna una precisa linea politica del governo: i critici del discorso ufficiale, soprattutto se arabi musulmani e con un ruolo di riferimento nella comunità, rischiano di veder calpestati i propri diritti, sanciti dai documenti fondanti del nostro Stato, pur di essere silenziati.

Brescia, ancora armi all’aeroporto civile: oggi sciopero dei lavoratori

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Le armi continuano a transitare nello scalo aeroportuale commerciale di Montichiari (Brescia). La denuncia giunge ancora una volta dai lavoratori dello scalo, che, insieme all’Unione Sindacale di Base, hanno indetto per oggi uno sciopero e un presidio solidale in segno di protesta. Non si tratta della prima denuncia del genere avanzata dai lavoratori: in numerose occasioni i dipendenti hanno segnalato, negli scorsi mesi, che dall’aeroporto civile transita materiale bellico, sottolineando come questo determini anche un rischio per la propria incolumità, oltre che non essere previsto tra le loro mansioni. Nell’ottobre 2024, un dipendente era stato sottoposto a provvedimento disciplinare per aver denunciato il fatto.

USA: la militarizzazione delle città e del dissenso

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Lo scorso 26 novembre Rahmanullah Lakanwal, cittadino afghano, ha sparato a due militari della Guardia Nazionale, a Washington, uccidendone uno e lasciando l'altro in gravi condizioni. Lakanwal era regolarmente presente nel Paese, dove era giunto per mezzo dell'operazione Allies Welcom del 2021, quando gli USA si ritirarono in fretta e furia dall'Afghanistan, ed era stato un collaboratore della CIA. Tuttavia, il suo gesto - al momento ancora senza spiegazioni - è servito a Trump come pretesto per alzare i toni contro la migrazione, alimentando una retorica che spinge i cofnini dello Stato di s...

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Trump annuncia blocco petroliere sanzionate in Venezuela

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Il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato su Truth di aver ordinato «un blocco totale e completo di tutte le petroliere soggette a sanzioni che entrano ed escono dal Venezuela», affermando che il Paese è «circondato dalla più grande flotta navale mai assemblata nel Sud America» e che l’azione continuerà finché Caracas non restituirà petrolio e beni ritenuti “rubati” agli USA. Trump è tornato ad accusare il governo di Nicolás Maduro di finanziare terrorismo, narcotraffico e tratta di esseri umani. Il governo venezuelano ha reagito definendo “sconsiderato” il blocco navale e di violazione del diritto internazionale, del libero scambio e della libertà di navigazione.

UE, retromarcia sullo stop a benzina e diesel: resteranno anche dopo il 2035

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L’Unione Europea continua a fare passi indietro nelle politiche ambientali. La Commissione ha infatti approvato una revisione del divieto di vendita dei motori a combustione interna, abbassando ulteriormente gli obiettivi per la decarbonizzazione. La proposta rivede l’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2035, abbassando la soglia al 90%, e reintroduce la possibilità di utilizzare auto con motore a benzina e diesel anche dopo quell’anno, segnando un notevole passo indietro rispetto a quella che era una norma centrale nel Green Deal. La decisione si inserisce in un generale contesto di revisione degli obiettivi sul clima, soprattutto a seguito delle pressioni esercitate dai governi per tutelare le imprese.

Le auto ibride plug-in, quelle con range extender, le ibride leggere e i veicoli con motore a combustione interna potranno dunque continuare a essere prodotte anche dopo il 2035. Per quanto riguarda il 10% delle emissioni restanti, questo dovrà essere compensato dall’impiego di acciaio a basse emissioni di carbonio «prodotto nell’Unione» o di e-fuel e biocarburanti, come richiesto da Giorgia Meloni e da una manciata di altri leader dell’UE. La Commissione dichiara che, in questo modo, «gli standard di CO2 offrono una maggiore flessibilità per sostenere l’industria e migliorare la neutralità tecnologica, garantendo al contempo prevedibilità ai produttori e mantenendo un chiaro segnale di mercato verso l’elettrificazione». La decisione asseconda le richieste di molti produttori e Stati membri, a fronte della forte crisi del settore automobilistico. In Italia, dove Stellantis ha dovuto sospendere le attività in diversi stabilimenti tanto in casa quanto all’estero, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha esultato commentando come in Europa sia passata «la linea di Forza Italia» e che la scelta «mette al ripato 70 mila posti di lavoro» solo in Italia. «Sì alla tutela dell’ambiente, ma sempre salvaguardando la dignità della persona, di chi fa impresa e crea occupazione» ha aggiunto il ministro, dichiarando che gli obiettivi contro l’inquinamento vanno perseguiti «tenendo sempre in conto la questione sociale».

Nel nome della semplificazione e di una maggiore competitività sul mercato – retorica che torna anche in questo contesto -, la Commissione ha notevolmente ridimensionato gli obiettivi generali di neutralità climatica entro il 2050. A partire da quest’anno, grazie a un pacchetto di riforme che intervengono sullle precedenti disposizioni del Green Deal, la gran parte delle aziende non è più tenuta a riportare l’impatto dei fattori di sostenibilità sul loro business, sull’ambiente e sulla società, mentre la rendicontazione per classificare le proprie attività economiche in base alla sostenibilità ambientale non è più obbligatoria. Per quanto riguarda la Due Diligence, predisposta per obbligare le aziende a identificare, prevenire e mitigare gli impatti negativi ambientali e sui diritti umani per le operazioni nell’ambito delle catene di fornitura, questa è stata notevolmente indebolita, riducendo le valutazioni relative ai fattori di rischio ai soli fornitori diretti e dilunedone la periodicità da una volta all’anno a una volta ogni cinque anni. È stato anche rimosso l’obbligo di porre termine ai contratti con i fornitori non conformi alla normativa e rimossa la responsabilità civile in caso di inadempienze.

California, la tribù nativa Miwuk riacquisisce la propria terra dopo 175 anni

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tribù Miwuk | Fonte outhernsierramiwuknation.org

Dopo 175 anni di espulsioni, sfratti e perdita forzata del territorio, una comunità indigena delle montagne Sierra Nevada, in California, è tornata finalmente a casa. La Southern Sierra Miwuk Nation ha riacquistato circa 364 ettari di terra ancestrale nei pressi dell’attuale Parco nazionale di Yosemite. Un’area da cui i loro antenati erano stati cacciati a partire dalla metà dell’Ottocento, prima durante la corsa all’oro e poi con l’espansione dell’industria del legname e delle politiche di conservazione federali che, paradossalmente, escludevano i popoli originari dai territori che avevano ab...

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UE: revocata immunità ad Alessandra Moretti

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Il Parlamento europeo ha revocato l’immunità alla eurodeputata del PD Alessandra Moretti nell’ambito dell’inchiesta Qatargate. La votazione si è tenuta oggi, 16 dicembre, e ha visto 497 voti a favore della revoca, 139 contrari e 15 astenuti. Nell’ambito della stessa richiesta, è stata confermata l’immunità per l’eurodeputata Elisabetta Gualmini, sempre del PD, con 382 voti a favore, 254 contrari e 19 astenuti. Moretti è accusata dalla procura belga di fare parte di una rete di parlamentari europei che hanno lavorato portando avanti gli interessi di Paesi extra-UE, come il Qatar, in cambio di denaro. I deputati sono accusati di corruzione.

La persecuzione del governo contro le lezioni di Francesca Albanese: ispettori anche a Bologna

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Il governo non ferma le ispezioni verso gli istituti scolastici che hanno ospitato le lezioni di Francesca Albanese. Dopo l’invio di ispettori in due scuole toscane toccherà ad altri due istituti emiliani, rei di avere lasciato svolgere una presentazione alla Relatrice ONU, connessa in videoconferenza. Secondo la versione ripresa dai media, gli istituti coinvolti hanno permesso agli studenti di partecipare all’iniziativa senza avvertire i genitori; il seminario via internet, coordinato dalla rete Docenti per Gaza, consisteva in una presentazione dell’ultimo libro di Albanese, Quando il mondo dorme, che racconta «storie di persone comuni – rifugiati, attivisti, intellettuali, bambini – che hanno in qualche modo segnato il personale cammino professionale e soprattutto umano» della Relatrice. Contro di esso, si legge in un comunicato del sindacato FLC CGIL, il ministro avrebbe invocato una recente nota ministeriale che chiede che sia assicurata la par condicio anche all’interno delle iniziative scolastiche extracurricolari.

Le scuole interessate dalla vicenda sono l’Istituto Mattei di San Lazzaro – in provincia di Bologna, e l’Istituto Cattaneo di Castelnovo dei Monti – in provincia di Reggio Emilia. Valditara ha affermato che «bisognerà accertare il contenuto di questi corsi, bisognerà capire se queste lezioni hanno, come qualche giornale ha scritto, accusato il governo di essere fascista, complice di genocidio, se è vero o non è vero che sono stati invitati gli studenti a occupare le scuole»,  affermando inoltre di volere verificare che i dirigenti scolastici fossero stati avvertiti delle lezioni. «La scuola democratica e costituzionale deve prevedere il pluralismo e non l’indottrinamento» ha commentato il ministro.

A proposito delle parole del ministro, il sindacato FLC CGIL ha menzionato la circolare n. 6545 del Ministero dell’Istruzione, che invita le scuole ad «organizzare attività su temi politici e sociali scegliendo relatoricon contraddittorio”», affermando che «alla luce di questi ultimi accadimenti sembra agita di proposito contro la relatrice dell’ONU Francesca Albanese. Come se questo fosse possibile sempre su temi sui quali la storia si è già pronunciata». La circolare fa riferimento a un’altra nota ministeriale, la n. 5836, che, nelle righe finali, invita le scuole a «promuovere iniziative che siano coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e che contribuiscano, attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo in tal modo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione».

La scelta di mandare gli ispettori nelle scuole emiliane segue un analogo avvio di ispezioni in due istituti toscani per gli stessi motivi. Valditara ha dichiarato «di aver letto su organi di stampa che la relatrice avrebbe rilasciato dichiarazioni che, se comprovate, potrebbero costituire ipotesi di reato». A chiedere l’intervento del ministro era stata un’interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Amorese, secondo cui «iniziative scolastiche di questo tipo, se svolte in assenza di un adeguato contraddittorio, rischiano di assumere il carattere di un indottrinamento ideologico, lontano dai principi di pluralismo, equilibrio formativo e imparzialità che devono guidare l’attività educativa nelle scuole italiane». Anche nel caso delle scuole toscane, insomma, il richiamo era alla mancata presenza di un “contradditorio”. Resta tuttavia da comprendere che cosa potrebbe garantire la par condicio in quello che risulta un seminario di stampo storico e culturale nel quale è stato presentato l’ultimo libro di una esperta internazionale; forse le scuole avrebbero dovuto invitare un soldato dell’IDF o, meglio ancora, un esponente del governo Netanyahu.

Repubblica Democratica del Congo: i ribelli si ritireranno da Uvira

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I ribelli congolesi dell’M23 hanno annunciato che si ritireranno dalla città di confine Uvira, conquistata qualche giorno fa. L’annuncio risponde a una richiesta degli Stati Uniti, che hanno chiesto al movimento di lasciare la città. Uvira era stata conquistata poco dopo la ratifica dell’accordo di cessate il fuoco tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, accusato di sostenere il movimento ribelle; l’amministrazione Trump aveva definito la presa della città una violazione del cessate il fuoco. Dopo la conquista di Uvira, i ribelli hanno annunciato di avere rapito centinaia di soldati del Burundi, Paese confinante con l’area della città.