giovedì 20 Novembre 2025
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COP30: tra le proteste indigene i Paesi del mondo cercano un accordo sul clima

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Al trentesimo vertice globale sul clima (COP30) si è conclusa la prima settimana di lavori tra avanzamenti disomogenei, tensioni politiche e qualche spiraglio di progresso. I negoziatori, riuniti a Belém in Brasile, sono ora chiamati a trasformare anni di discussioni in scelte politiche concrete. Più che di scelte per l’ambiente si parla di soldi. Sul tavolo, infatti, alle richieste di compensazioni da parte dei Paesi del sud globale fanno da contraltare le reticenze delle grandi nazioni industrializzate, restie a saldare il conto storico del proprio sviluppo industriale basato sulle fonti fossili per convincere gli Stati emergenti ad accettare di non seguire la medesima traiettoria. Sullo sfondo rimangono le proteste dei popoli indigeni che chiedono di rimettere al centro delle discussioni la protezione dell’ambiente e dei territori. Tutti i negoziati dovranno chiudersi necessariamente con un accordo entro venerdì, in caso contrario le discussioni slitteranno ai colloqui di Bonn del 2026 o, peggio, alla COP31.

La plenaria conclusiva della prima settimana ha restituito un clima sospeso. Molti governi hanno espresso apertamente la loro delusione per la lentezza dei lavori, tanto che il maestro di cerimonia del Vertice, il presidente brasiliano Lula, sta valutando di tornare personalmente a Belém per imprimere nuovo slancio dopo esser stato chiaro fin dal suo discorso inaugurale: la COP30 deve segnare la traiettoria per l’uscita progressiva dalle fonti fossili. Non più le vaghe sfumature linguistiche prive di impegni concreti come phase down (riduzione graduale) o transitioning away (transizione graduale), con cui si erano chiuse all’insegna degli accordi al ribasso i precedenti vertici, ma impegni concreti e databili. Alcune potenze, tra cui Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito, sostengono apertamente la proposta. Altri Paesi, come l’Italia, restano scettici quando non apertamente ostili. La divisione emerge chiaramente anche sull’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro gli +1,5 °C. Le piccole isole e diversi Paesi latinoamericani chiedono che sia richiamato in modo netto, mentre i Paesi arabi e l’India preferiscono riferirsi all’intero Accordo di Parigi, lasciando aperta la soglia dei 2°C. Intanto, anche il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha intuito che serve una svolta per evitare che la COP30 si risolva in un nulla di fatto come le precedenti. Motivo per cui ha indetto un Mutirão, una “mobilitazione collettiva”, che prenderà la forma di una riunione a livello ministeriale e dei capi-delegazione in queste ore.

Tra i pochi accordi, di facciata ratificati fino ad ora, c’è quello per la lotta contro la “disinformazione climatica”, così come richiesto da tredici Paesi per la prima volta nella storia dei vertici sul clima. Al riguardo è stata anche firmata una dichiarazione che stabilisce impegni internazionali comuni per promuovere un’informazione corretta e fondata su ciò che indica la comunità scientifica. Contraria, l’Italia, la cui Presidente del Consiglio Meloni ha tra l’altro scelto di non essere presente alla COP30, seguendo la linea dell’alleato Donald Trump che da gennaio ritirerà di nuovo gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.

Ad ogni modo, come preannunciato, è la finanza climatica il grande nodo ancora irrisolto. Il percorso “Road to Belém” prevede di mobilitare la cifra di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Una somma apparentemente enorme ma che, in realtà, rappresenta poco più dello 1% del PIL globale, che nel 2024 è stato di circa 110.000 miliardi. Tuttavia, per comprendere l’entità del passo da fare, basta sapere che nel 2022 ci si accordò per 190 miliardi l’anno, una cifra di sette volte inferiore, oltretutto mai erogata totalmente. I cosiddetti fondi di compensazione sono le risorse che i Paesi del Sud globale chiedono ai Paesi ricchi perché hanno contribuito molto meno alla crisi climatica, ma ne subiscono gli impatti peggiori. Non sono aiuti caritatevoli, bensì soldi ritenuti dovuti per finanziare adattamento, transizione energetica e riparare perdite e danni causati in larga parte dalle emissioni storiche del Nord globale. Questo principio è già riconosciuto negli accordi ONU sul clima (dalla Convenzione del 1992 all’Accordo di Parigi), che impegnano i Paesi industrializzati a fornire finanza climatica e hanno portato alla creazione di un fondo ad hoc per «perdite e danni». Ma al di là del principio, c’è appunto da trovare un accordo sulla somma da destinare.

Ed oltretutto non è nemmeno la questione economica più difficile da stabilire. Il nodo più esplosivo è infatti stabilire precisamente quali Stati devono pagare e quali devono ricevere: le regole ONU sul clima sono ancora basate sulla divisione del 1992 tra “Paesi sviluppati” e “in via di sviluppo”. In questa seconda categoria restano anche grandi emettitori come Cina, India o Arabia Saudita, che rivendicano lo status di Paesi in via di sviluppo e quindi il diritto a ricevere fondi, non l’obbligo di contribuire in modo paragonabile a UE o USA. Molti Paesi occidentali insistono invece perché questi grandi emergenti diventino anche donatori netti, dato il loro peso economico e climatico attuale. Lo scontro su come aggiornare – o meno – questa mappa del mondo è uno dei punti che rischia di bloccare il nuovo sistema di finanza climatica.

Si cerca ancora un accordo anche sulla riduzione delle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDC). Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sono giudicati insufficienti, ma solo 114 Paesi su 194 hanno presentato nuovi impegni aggiornati. Secondo le stime ONU, con gli impegni attuali il mondo viaggia verso un riscaldamento ben oltre 1,5 °C, più vicino ai 2,5-3 °C. Per restare negli obiettivi di Parigi servirebbero tagli molto più rapidi entro il 2030, e proprio su quanto accelerare – e chi deve farlo per primo – si sta consumando il braccio di ferro tra Nord globale e grandi economie emergenti.

In questo quadro difficile, arriva però qualche notizia positiva. La prima è che il fondo “perdite e danni”, cioè il meccanismo istituito per fornire assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è diventato operativo: nella prima settimana di negoziati è stato anche pubblicato il primo bando per le richieste di finanziamento. La seconda sarebbe l’istituzione del nuovo Tropical Forest Forever Facility, un fondo d’investimento che punta a difendere le aree forestali e che ha raccolto 5,5 miliardi di dollari da 53 Paesi per proteggere un miliardo di ettari di foreste tropicali. Un risultato significativo, ma non privo di incognite e potenziali punti critici, dato che si è scelto di subordinare la tutela delle foreste a logiche di investimento finanziario.

USA-eSwatini: accordo per esternalizzare i migranti

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Gli Stati Uniti hanno firmato un accordo con l’eSwatini, stato dell’Africa meridionale, per esternalizzare le persone migranti che entrano nel Paese. I dettagli dell’accordo non sono ancora stati pubblicati, ma secondo indiscrezioni mediatiche il Paese africano ospiterebbe fino a 160 persone; è noto, inoltre, che l’eSwatini riceverà 5,1 milioni di dollari in cambio dell’accoglienza delle persone migranti. L’eSwatini è solo l’ultima degli Stati africani ad avere accettato di accogliere cittadini di Paesi terzi espulsi dagli USA. Tra gli altri paesi figurano il Sud Sudan, il Ghana e il Ruanda.

La Svizzera vuole legalizzare la cannabis

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La Commissione Federale per la Sanità svizzera ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che verrà discussa nei prossimi mesi. Il risultato è frutto di un percorso intrapreso dalla Svizzera oltre trent’anni fa e che l’ha portata, nel 2021, a iniziare a sperimentare la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Dopo i primi risultati positivi dei progetti pilota avviati in città come Basilea, Zurigo e Losanna, ora l’iter parlamentare per una legge nazionale di legalizzazione ha preso il via, con l’obiettivo dichiarato di tutelare la salute pubblica e i minori, riducendo il mercato nero e i rischi per la salute.

Correvano gli anni ’90 quando la Svizzera, da sempre liberale nei confronti della cannabis e del suo utilizzo, venne soprannominata la Giamaica delle Alpi. Senza nessuna regolamentazione particolare in Ticino diversi negozianti avevano iniziato a vendere infiorescenze di cannabis con livelli medio-alti di THC, come profumatori per armadi ed ambienti. Un’operazione resa possibile da un vuoto legislativo che aveva messo in moto due processi: la nascita del primo settore moderno su larga scala di produzione di cannabis, con serre e capannoni sterminati, e la gran parte dei contadini svizzeri trasformati nel giro di due anni in canapicoltori, e il flusso interminabile di “turisti”, specialmente italiani, che andavano oltreconfine per godere dei frutti della pianta delle meraviglie, non di rado cercando – con scarso successo vista la solerzia delle dogane – di riportare a casa un po’ di quelle verdi emozioni. L’esperimento durò pochi anni e fu stroncato da diverse procure che, di punto in bianco, arrestarono produttori e rivenditori. Ma il piglio antiproibizionista del Paese neutrale per eccellenza, che prospera nel cuore dell’Europa senza far parte dell’unione, non si è mai spento. E oggi, mentre diversi esperimenti di legalizzazione sono attivi in città come Zurigo, Berna, Basilea e Losanna, la Commissione federale per la Sanità, forte dei primi buoni risultati ottenuti, ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che si discuterà nei prossimi mesi.

Il 15 maggio del 2021 la legge federale svizzera sugli stupefacenti viene modificata per permettere studi pilota con la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Siccome però la legge prevede che venga utilizzata solo cannabis biologica espressamente prodotta nel Paese elvetico, la partenza vera e propria è il febbraio del 2023, con la città di Basilea, a cui hanno poi fatto seguito Zurigo, Losanna e altri, per un totale di 6 progetti ad oggi autorizzati. Il più grande è quello della città di Zurigo, che è appena stato rinnovato fino al 2028 e attualmente coinvolge 2300 persone che aumenteranno fino a 3 mila. Tutti i progetti prevedono la vendita, in farmacia o negozi appositi, di infiorescenze di cannabis, alcuni anche hashish, estratti, prodotti edibili e cartucce per le vape-pen. I partecipanti devono rispondere a diversi criteri (cittadinanza nel cantone, già consumatore di cannabis, etc). Dopo i colloqui per l’idoneità, si riceve una tessera di ammissione allo studio, che consente di accedere ai punti vendita autorizzati. Una volta selezionato, al partecipante viene assegnato un profilo da seguire: monitoraggio del consumo, questionari periodici e raccolta dati attraverso strumenti validati nella fase di ricerca.

Nel frattempo stanno già arrivando i primi risultati, come quelli del Grashaus Project, in corso a Basilea, dai quali si evince che la prima tendenza riscontrata è quella dello spostamento dei consumatori verso vendite regolamentate e metodi di consumo “a basso rischio”, come prodotti edibili ed estratti, con un calo del mercato nero fino al 50%. Il professor Michael Schaub, direttore scientifico dell’Istituto svizzero per le dipendenze, che dirige lo studio, ha commentato così: “Il fatto che abbiamo potuto registrare tali primi successi, anche grazie a una consulenza professionale mirata nei punti vendita, è uno sviluppo promettente. Perché l’obiettivo del progetto pilota, ovvero mettere a disposizione dei consumatori prodotti sicuri e di alta qualità provenienti da fonti controllate e quindi ridurre al minimo in particolare i rischi per la salute, è ovviamente sempre al centro dell’attenzione. Speriamo di destigmatizzare l’uso della cannabis e di creare una base basata sull’evidenza per l’ulteriore dibattito sulla legalizzazione in Svizzera”.

Nel frattempo però, senza nemmeno aspettare la fine di questi progetti sperimentali, che hanno una durata media di 5 anni, in Svizzera è stata approvata dalla Commissione federale una legge per la legalizzazione della cannabis. La fase di consultazione pubblica è stata aperta il 29 agosto e si è chiusa il primo dicembre 2025. Da lì è iniziata la discussione parlamentare, che durerà circa due anni, prima dell’approvazione finale. “La salute pubblica e la tutela dei minori dovrebbero essere al centro di una rinnovata politica sulla cannabis. Agli adulti dovrebbe essere garantito un accesso alla cannabis rigorosamente regolamentato”, si legge in un comunicato del Parlamento svizzero che spiega la bozza di legge, che prevede di rendere legale l’autoproduzione casalinga di cannabis, divieto di pubblicità e vendita ai minori e controlli rigorosi sulla qualità. Le novità riguarderebbero il fatto che lo Stato vuole assicurarsi che il sistema non generi incentivi commerciali al consumo. E quindi prevede dispensari nei vari cantoni, con apposita licenza, ma che per la vendita online si prospetta un unico sito gestito dal governo. Inoltre le vendite sono orientate verso un modello non-profit, regolato dallo Stato, che prevede che i profitti vengano reinvestiti “nella prevenzione, nella riduzione del danno e nel supporto alle dipendenze”. Altro discorso per coltivatori e produttori, per i quali “dovrebbe essere consentita la produzione commerciale a scopo di lucro”.

Prato: operai aggrediti dai padroni della fabbrica perché chiedono il rispetto del contratto

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Il sindacato di base Sudd Cobas ha denunciato una aggressione ai lavoratori in presidio presso la Euroingro di Prato, il centro di distribuzione all’ingrosso dell’abbigliamento più grande di Prato. Un gruppo di una trentina di persone, «tra cui alcuni padroni delle aziende interne alla Euroingro», ha attaccato il presidio fuori dal centro di distribuzione presso il Macrolotto 1, devastando i gazebi. Nell’aggressione sono rimasti feriti anche due agenti della digos; fermati due aggressori. I lavoratori erano in presidio per denunciare le condizioni di sfruttamento lavorativo che gli imporrebbe l’azienda: il sindacato parla di turni da 12 ore 7 giorni su 7, e chiede regolari contratti da 8 ore per 5 giorni. Quella dei lavoratori di Euroingro è solo una delle tante situazioni denunciate dal sindacato negli ultimi anni. I lavoratori che si sollevano non sono nuovi nemmeno ad aggressioni e altre forme di intimidazione; l’ultimo episodio di violenza segnalato risale allo scorso settembre.

L’attacco ai lavoratori di Euroingro è avvenuto ieri, 17 novembre. I video diffusi da Sudd Cobas mostrano un gruppo di sindacalisti avvicinarsi verso il presidio seguiti da un folto gruppo di persone. Arrivato vicino ai lavoratori, gli aggressori hanno tirato dritto verso il gazebo, che si trovava alle spalle del gruppo in presidio, scaraventando a terra un’agente della polizia; subito dopo sono scoppiati brevi scontri che hanno interessato altri agenti delle forze dell’ordine, sindacalisti e lavoratori, colpiti dagli aggressori; tra questi, Sudd Cobas ha riconosciuto alcuni dei datori di lavoro. Nel caos generatosi, un uomo è riuscito ad avvicinarsi al gazebo, buttandolo a terra; dopo le colluttazioni, la polizia ha fermato due degli aggressori, portandoli via.

I lavoratori di Euroingro erano in presidio per denunciare le proprie condizioni di lavoro di sfruttamento, con turni da 12 ore al giorno 7 giorni su 7, spesso senza contratto o con contratto part time. La vertenza dei lavoratori era stata lanciata lo scorso 1° novembre, quando più di cinquanta operai avevano organizzato un presidio proprio davanti al Macrolotto 1, per poi muoversi in corteo davanti a un negozio. Il 7 novembre era stato messo in piedi un altro presidio. Il sindacato chiede di regolarizzare i lavoratori in nero e “grigi”, riconoscendo loro contratti da 8 ore per 5 giorni.

Negli ultimi mesi, “8X5” è diventato una sorta di motto per i lavoratori del settore tessile di Prato: gli operatori a denunciare analoghe condizioni di sfruttamento sono infatti diversi, e lavorano per altrettante aziende. Nei mesi sono stati lanciati diversi presidi e manifestazioni per scardinare quello che pare ormai essere un fenomeno sistematico, che coinvolge la maggior parte dei lavoratori del settore. A essere ricorrente sembra essere anche l’uso della violenza da parte dei datori di lavoro: quella di ieri non è infatti la prima volta che il sindacato denuncia l’uso della violenza da parte dei proprietari delle aziende. L’ultimo episodio risale allo scorso settembre, e ha coinvolto i lavoratori della stireria industriale Alba Srl, presi a calci e pugni dalla stessa proprietaria dell’azienda. Nemmeno un anno prima, a ottobre del 2024, i lavoratori e i sindacalisti in presidio presso uno stabilimento tessile a Seano erano stati aggrediti da un gruppo di persone incappucciate e vestite di nero, armate di spranghe di ferro. In queste due occasioni, le richieste e le denunce dei lavoratori erano le stesse dei colleghi di Euroingro: venire regolarizzati e smettere di lavorare a ritmi massacranti.

Dalla Corte dei Conti una nuova bocciatura al Ponte sullo Stretto

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La magistratura contabile ha inferto un nuovo colpo al progetto del Ponte sullo Stretto: la Sezione centrale di controllo di legittimità della Corte dei Conti non ha concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spa, ampliando la crisi amministrativa aperta dal precedente rifiuto sul provvedimento Cipess. Questo nuovo stop, strettamente collegato alla precedente bocciatura della delibera Cipess di fine ottobre, blocca di fatto la definizione degli impegni amministrativi e finanziari necessari per la progettazione e realizzazione dell’opera, mettendo in discussione l’intero impianto giuridico del progetto.

La Corte dei Conti, in una nota ufficiale, ha comunicato di aver respinto il decreto n. 190 del primo agosto 2025, adottato «ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto-legge 31 marzo 2023, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2023, n. 58, recante “Disposizioni urgenti per la realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria”». Mentre si attendono le motivazioni complete – le prime previste entro fine novembre, le seconde per metà dicembre – gli scenari possibili per l’esecutivo si delineano tra due opzioni principali. La prima, più rischiosa, sarebbe procedere con una “registrazione con riserva”, procedura tecnicamente consentita ma che aprirebbe un nuovo fronte di scontro con la magistratura contabile. L’alternativa, preferibile ma potenzialmente più lunga, consisterebbe nell’apportare le correzioni necessarie per superare i rilievi della Corte, eventualmente ricorrendo a una nuova delibera.

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha commentato la decisione affermando: «Nessuna sorpresa: è l’inevitabile conseguenza del primo stop della Corte dei conti. I nostri esperti sono già al lavoro per chiarire tutti i punti. Resto assolutamente determinato e fiducioso». Una posizione condivisa dal suo ministero, che in una nota ufficiale ha espresso fiducia «sulla prosecuzione dell’iter amministrativo in attesa delle motivazioni della Corte». Anche la società concessionaria Stretto di Messina Spa ha cercato di minimizzare l’accaduto. Il presidente Giuseppe Recchi ha definito la decisione «non un atto nuovo» poiché «gli argomenti trattati sono strettamente collegati» al primo stop, annunciando un Consiglio di Amministrazione per il 25 novembre per esaminare la situazione. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha aggiunto che l’esito era «prevedibile perché l’atto convenzionale è funzionalmente collegato alla delibera di approvazione del progetto definitivo del ponte del Cipess del 6 agosto», confermando la «piena collaborazione» della società per fornire «tutti i nuovi approfondimenti richiesti».

A fine ottobre era arrivata la prima pronuncia della Corte dei Conti, che aveva respinto la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess) che impegna 13,5 miliardi di euro per la costruzione del Ponte. Secondo le prime ricostruzioni giornalistiche le motivazioni ricalcherebbero i dubbi già espressi dalla Corte lo scorso settembre nella sua richiesta di chiarimenti: documentazione carente, calcoli poco chiari, e mancato rispetto delle norme ambientali. Tra le altre cose, i magistrati avevano evidenziavano la mancata coerenza dei calcoli relativi alle spese per il Ponte, rilevando un «disallineamento tra l’importo asseverato dalla società Kpmg in data 25 luglio 2025 – quantificato in euro 10.481.500.000 – e quello di euro 10.508.820.773 attestato nel quadro economico approvato il 6 agosto 2025», evidenziando come diverse voci, dagli oneri per le condizioni contrattuali (cct) a quelli per la sicurezza, fossero lievitate rispetto al progetto preliminare. L’esecutivo si è scagliato contro la decisione dei magistrati: la presidente del consiglio Giorgia Meloni l’ha definita «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento», mentre il ministro Salvini ha affermato che il governo andrà avanti per la propria strada. Ora è arrivato il secondo colpo.

Cadono così ancora nel vuoto i fragorosi annunci del Ministro Salvini sull’inizio dei lavori, che ormai si fanno fatica a contare. Nel marzo del 2023, durante la trasmissione “Cinque minuti su Rai 1”, Salvini dichiarò che i lavori sarebbero iniziati «entro l’estate 2024», per poi ripeterlo due mesi dopo in occasione della conferenza stampa di presentazione del decreto che ha riattivato la Società Stretto di Messina, e poi a settembre, in seguito a un incontro del cda della società. A fine maggio 2024, Salvini aveva sbandierato l’obiettivo di «aprire i cantieri entro l’anno 2024». L’“annuncite” è ricomparsa nell’aprile di quest’anno, quando Salvini ha annunciato che l’inizio della costruzione fosse distante solo «poche settimane». Lo scorso 19 maggio, il Ministro ha invece affermato che i cantieri sarebbero stati aperti entro l’estate di quest’anno. In ultimo, l’orizzonte temporale si è spostato all’autunno 2025, ma come un macigno sono arrivate le pronunce dei giudici amministrativi.

Ecuador, sconfitta per il governo neoliberista: al referendum vince il no alle basi USA

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L’Ecuador si è risvegliato con un verdetto che ribalta i piani del governo: la proposta di permettere la presenza di basi militari straniere, in particolare statunitensi, promossa dal presidente Daniel Noboa, è stata respinta con un netto “no” da 6 elettori su 10. Il risultato del referendum che si è tenuto domenica è un duro colpo per Noboa, che aveva condotto una campagna per modificare la Costituzione e revocare un divieto di ospitare sul territorio nazionale basi militari di Paesi stranieri, approvato dal parlamento nel 2008. La consultazione, che l’esecutivo aveva legato alla propria agenda di sicurezza e allineamento con Washington, si è trasformata in un giudizio politico incarnato dal presidente neoliberista. Il risultato ha messo a nudo la fragilità del governo di Quito, confermando un malessere sociale che da mesi attraversa il Paese.

Una volta reso noto l’esito del referendum, Noboa ha dichiarato su X che il suo governo «rispetterà la volontà del popolo» e continuerà a lottare per il Paese che «tutti meritano». Il referendum, che comprendeva tre quesiti, ha visto gli elettori rifiutare anche la fine dei finanziamenti pubblici ai partiti politici, la riduzione delle dimensioni del Congresso e l’istituzione di un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Il cuore politico della consultazione era, però, quello relativo al possibile ritorno di basi militari statunitensi sul territorio nazionale, ipotesi caldeggiata dal governo come parte di una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico e al crimine organizzato. Alleato del presidente Donald Trump, negli scorsi mesi il governo ecuadoriano aveva espresso l’interesse per l’apertura di una base statunitense e a marzo Noboa e Trump si erano incontrati per discuterne. Quito aveva puntato fortemente su questo voto, presentandolo come un passaggio fondamentale per rafforzare la sicurezza interna e proiettare l’Ecuador in una dimensione internazionale più stabile. La sconfitta, dunque, non è soltanto un risultato avverso: è un fallimento simbolico per un presidente che aveva cercato di legare la propria legittimazione alla capacità di imprimere una svolta liberista e filo-USA nel Paese.

Il contesto in cui si è arrivati alle urne era tutt’altro che sereno. Il consenso raccolto da Noboa alle elezioni di aprile scorso non si è tradotto in un sostegno solido e diffuso. Liberale e rappresentante della destra imprenditoriale, figlio del magnate ecuadoriano Alvaro Noboa, la sua impostazione economica orientata alle privatizzazioni e alla riduzione del ruolo dello Stato, unita alla crescente dipendenza da Washington in materia di sicurezza, ha alimentato sospetti e ostilità in ampie fasce della popolazione. L’Ecuador è un Paese che storicamente diffida della presenza militare straniera e l’idea di affidare a Washington un ruolo diretto nelle strategie interne ha riacceso tensioni sopite. Nei mesi precedenti al voto, manifestazioni diffuse avevano già messo sotto pressione l’esecutivo. Le proteste e gli scioperi contro le misure economiche neoliberiste, il caro vita e la gestione della sicurezza avevano coinvolto studenti, lavoratori, categorie produttive e, soprattutto, le comunità indigene.

In questo clima, il referendum è diventato una sorta di plebiscito sull’intero progetto politico del governo di Quito. Non a caso, il voto negativo sulle basi USA è stato accompagnato da un ampio dissenso anche sugli altri quesiti, che molti hanno interpretato come parte di un disegno volto a concentrare maggiormente il potere nelle mani dell’esecutivo. La bocciatura del pacchetto referendario segnala dunque una resistenza più ampia: non si tratta solo di rifiutare la presenza di truppe straniere, ma di contestare un modello politico-economico percepito come lontano dalle esigenze della popolazione. Ora, l’asse con Washington ne esce incrinato e la cooperazione militare con gli Stati Uniti diventa più difficile. La vittoria del “no” lascia il presidente più debole e costretto a rivedere un progetto che la società ha respinto, mentre il Paese rivendica il diritto di decidere autonomamente il proprio futuro senza pressioni né ingerenze esterne.

Internet sta avendo un malfunzionamento globale

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Diversi siti internet stanno avendo un malfunzionamento a causa di un problema tecnico di Cloudfare, piattaforma che offre servizi per la gestione dei siti. Cloudfare è una delle piattaforme maggiori al mondo e tra i siti che stanno avendo difficoltà ve ne sono alcuni di molto noti e trafficati, come il social X (ex Twitter) e ChatGPT. Clodufare ha fatto sapere di stare lavorando per ripristinare l’erogazione dei propri servizi; l’azienda ha identificato la causa del malfunzionamento e alcuni siti stanno lentamente tornando a funzionare.

“I.A. BASTA!”: l’appello dei docenti contro l’intelligenza artificiale a scuola

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Un appello, una mozione e un questionario per dire “basta” all’intelligenza artificiale nella scuola. È questo il cuore della mobilitazione lanciata dal gruppo auto-organizzato di lavoratrici e lavoratori della scuola, che vede la partecipazione di docenti, personale ATA, rappresentanti del sindacalismo di base. Il 18 novembre sarà il giorno del lancio pubblico dell’appello nazionale I.A. BASTA!, rivolto alle «comunità educanti d’Italia».

Da Torino a Palermo, gli insegnanti denunciano quello che definiscono «l’attacco finale alla scuola della Repubblica» da parte del Ministero dell’Istruzione, accusato di voler imporre strumenti di IA centralizzati nelle attività didattiche. «L’intelligenza artificiale, lasciata in mano a una manciata di miliardari, diviene una minaccia esistenziale alla scuola. La scuola non è una mensa in cui si consumano pasti pronti, ma una cucina», si legge nel testo.

L’appello richiama i principi costituzionali — in particolare gli articoli 33 e 11 — per ribadire che la libertà d’insegnamento e il rifiuto della guerra passano anche attraverso la scelta consapevole delle tecnologie. «Ripudiare la guerra significa anche rifiutare chi la rende possibile: Google, Amazon, Meta, Microsoft, OpenAI, Palantir…»: il documento collega la critica all’IA con una più ampia riflessione sul potere dei colossi tecnologici. «Il nostro settore non è quello produttivo, pertanto non vogliamo foraggiare quattro bifolchi miliardari», spiega Gianluca Maestra, professore della scuola pubblica e portavoce dell’appello.

Il gruppo si definisce erede di 35 anni di lotte nella scuola italiana e denuncia la precarietà strutturale e la crescente subordinazione dell’istruzione pubblica agli interessi privati. «Noi docenti siamo 900 mila professionisti che ogni giorno praticano l’unico ingrediente indispensabile per l’apprendimento: la relazione umana», scrivono. Il movimento invita il personale scolastico a rifiutare l’adozione di piattaforme come ChatGPT, Gemini o Claude, considerate strumenti di «addestramento alla sottomissione», e propone invece l’uso di tecnologie open source, controllate dalla comunità educativa. Ai genitori, agli studenti, come a tutti i cittadini della Repubblica, viene chiesto di unirsi per «rigettare strumenti di asservimento». «Non siamo apocalittici, nessuno dice che l’IA non sarà il futuro… ma sarà efficace?», chiede Maestra.

Nell’appello si rivendica una posizione luddista: «Come i lavoratori di Nottingham, anche noi amiamo le tecnologie che si integrano con la società, ma rifiutiamo quelle che distruggono il lavoro e i legami sociali». Il 18 novembre segnerà dunque l’avvio pubblico di una campagna che si annuncia diffusa e combattiva. Con un obiettivo chiaro: riportare il governo della scuola nelle mani di chi la vive ogni giorno e difendere la libertà di insegnamento dalle logiche del profitto e del controllo algoritmico.

In questo contesto, il CESP Veneto promuove un corso di aggiornamento per tutto il personale scolastico dal titolo Intelligenza artificiale e scuola: uno sguardo critico alla luce delle linee guida ministeriali, che si terrà martedì 25 novembre 2025 presso l’Istituto Giovanni Valle di Padova.

INPS: donne retribuite -29% rispetto agli uomini

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Nel 2024, su una platea di 17,7milioni di persone con almeno un giorno di lavoro retribuito nel settore privato non agricolo, le donne sono state retribuite in media con 19.833 euro. Il dato indica che la retribuzione femminile si attesta al 29% in meno degli uomini, che invece vengono pagati 27.967 euro in media. Il calcolo è stato effettuato dall’Osservatorio Inps del settore. Le giornate medie lavorate sono 247: 251 per gli uomini, 11 in meno per le donne. Sulla retribuzione, evidenzia l’Osservatorio, pesano il maggior ricorso femminile al part-time, la precarietà del lavoro e la qualifica inferiore.

Il governo Meloni approva: altre armi all’Ucraina e ok al riarmo europeo

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Il governo Meloni conferma il suo sostegno a Kiev nonostante le tensioni nella maggioranza, approvando il dodicesimo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina. La decisione, confermata al termine di una lunga riunione del Consiglio supremo di difesa presieduto dal Presidente della Repubblica, rilancia la partecipazione italiana alle iniziative di Unione Europea e NATO verso l’Ucraina e segna al contempo una spinta decisa al riarmo e all’adeguamento delle capacità europee alle nuove minacce. Secondo quanto programmato, il pacchetto verrà illustrato dal ministro della Difesa Guido Crosetto al Copasir il prossimo 2 dicembre. Sembrano dunque essere rientrati i malumori del capo della Lega Matteo Salvini, che nei giorni scorsi – in seguito allo scoppio dello scandalo sulla corruzione in Ucraina – si era detto scettico su nuovi invii di armi.

Nel comunicato finale si legge che il Consiglio «osserva con preoccupazione l’accanimento della Russia nel perseguire, ad ogni costo, i propri obiettivi di annessione territoriale». Viene sottolineato come «Kiev resta bersaglio di continui bombardamenti contro infrastrutture critiche e civili, con gravi interruzioni energetiche e numerose vittime» e che «il prezzo sostenuto dalla popolazione è sempre più pesante e iniquo». Da questa analisi discende la conferma del sostegno militare: «In questo senso si inquadra il dodicesimo decreto di aiuti militari. Fondamentale rimane la partecipazione alle iniziative dell’Unione Europea e della NATO di sostegno a Kiev e il lavoro per la futura ricostruzione del Paese». Il conflitto ha inoltre spinto il governo a riflettere sulla necessità di un adeguamento delle capacità difensive europee. «Il conflitto ha mostrato una trasformazione nella condotta delle azioni militari soprattutto per quanto riguarda l’impiego di droni, che la Russia utilizza anche violando lo spazio areo della NATO e dei Paesi dell’Unione Europea» si legge nel documento. «Se da un lato tali azioni hanno confermato la prontezza dell’Alleanza Atlantica, dall’altro evidenziano anche la necessità per l’Europa di adeguare le capacità ai nuovi scenari attraverso la definizione di progetti d’innovazione come quelli contenuti nel Libro bianco per la difesa 2030».

Guardando alla situazione sul campo, l’Ucraina sta affrontando una situazione sempre più critica sui fronti di Donetsk e Zaporizhzhia, dove l’intensificarsi degli attacchi russi ha costretto le truppe ucraine alla ritirata in diversi punti. Nell’oblast di Zaporizhzhia, l’esercito di Kiev si è ritirato da cinque insediamenti, mentre a Pokrovsk i russi sono riusciti a penetrare nella città approfittando della fitta nebbia, che ha favorito l’ingresso di circa trecento soldati. Il comandante in capo Oleksandr Syrskyi ha ammesso che le forze russe godono di una posizione «dominante», con la situazione notevolmente peggiorata specialmente nelle direzioni di Oleksandrivsky e Gulyaipol, dove il vantaggio numerico e di mezzi ha permesso a Mosca di conquistare tre villaggi. Combattimenti con pesanti perdite ucraine si sono verificati anche a Rivnopillia e Yablukove. A complicare ulteriormente la situazione politica interna di Kiev è esploso uno scandalo per corruzione che ha travolto il ministero dell’Energia: l’anticorruzione ha arrestato cinque persone — tra dirigenti e un imprenditore — accusate di aver intascato tangenti per circa 100 milioni di dollari, sottraendo fondi destinati a proteggere i civili dai blackout.

Al tavolo del Quirinale, convocato per tre ore, hanno partecipato i principali esponenti dell’esecutivo e i vertici militari: la premier, i ministri competenti e il Capo di Stato maggiore della difesa. La scelta italiana arriva in un clima politico non privo di tensioni: la Lega aveva espresso negli scorsi giorni pesanti riserve sui nuovi invii, sottolineando la portata di «fatti nuovi di assoluta gravità e grande rilevanza». Lo stesso Matteo Salvini aveva dichiarato: «Mi sembra che stiano emergendo gli scandali legati alla corruzione, poi coinvolgono il governo ucraino, quindi non vorrei che con quei soldi dei lavoratori, dei pensionati italiani si andasse ad alimentare ulteriore corruzione». Eppure, come attesta il via libera dell’esecutivo, la linea ufficiale resta il pieno supporto a Kiev.