domenica 21 Dicembre 2025
Home Blog Pagina 4

Accordo India-Oman: zero dazi su quasi tutti i beni

0

India e Oman hanno firmato un accordo di partenariato economico per rilanciare il commercio bilaterale e gli investimenti, fronteggiando al contempo le tariffe statunitensi. L’Oman ha offerto all’India l’accesso a zero dazi su quasi tutti i prodotti in entrata, tra cui gemme, gioielli, prodotti tessili, farmaceutici e automobili. L’India taglierà a sua volta le tariffe su circa l’80% delle categorie di prodotti, in una mossa che interesserà il 95% dei beni provenienti dall’Oman. L’accordo è il primo patto commerciale dell’Oman dal 2006 e rafforza i rapporti tra l’India e il Golfo Persico.

Assange denuncia la Fondazione Nobel: da simbolo di pace a strumento di guerra

4

Il Premio Nobel per la Pace non è più un simbolo di riconciliazione, ma una leva di potere. A sostenerlo è Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che ha denunciato la Fondazione Nobel accusandola di aver trasformato uno dei riconoscimenti più prestigiosi al mondo in uno strumento di legittimazione geopolitica. Secondo Assange il fatto che il premio nell’ultima edizione sia stato assegnato a María Corina Machado – ritenuta responsabile di aver incoraggiato l’escalation militare degli Stati Uniti contro il Venezuela – significa che il Nobel non celebra più la fine delle guerre, ma ne diventa uno strumento di legittimazione.

«Il fondo di dotazione per la pace di Alfred Nobel non può essere speso per promuovere la guerra. Né può essere utilizzato come strumento per un intervento militare straniero. Il Venezuela, qualunque sia lo status del suo sistema politico, non fa eccezione», scrive infatti nella denuncia evidenziando che il testamento di Nobel, vincolante per la legge svedese, «stabilisce chiaramente che ogni anno il denaro del premio per la pace sarà assegnato alla persona che durante l’anno precedente “ha apportato il massimo beneficio all’umanità” svolgendo “il maggior o il migliore lavoro per la fratellanza tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per l’organizzazione e la promozione di congressi per la pace”». E quindi, siccome «qualsiasi esborso in contrasto con questo mandato costituisce un’appropriazione indebita del fondo di dotazione, il trasferimento in sospeso di 11 milioni di corone svedesi (circa 1 milione di euro) e l’attuale consegna, il 10 dicembre 2025, della medaglia del premio a María Corina Machado, in violazione di questa restrizione all’erogazione, sembrano costituire atti di grave criminalità».

Secondo l’esposto: «Esistono numerose dichiarazioni pubbliche, accessibili ai sospettati, che dimostrano che il governo degli Stati Uniti e María Corina Machado hanno sfruttato l’autorità del premio per fornire loro un casus moralis per la guerra con l’obiettivo di insediarla con la forza al fine di saccheggiare 1,7 trilioni di dollari in petrolio venezuelano e altre risorse». E, per Assange, non si può prescindere «dall’enorme accumulo di forze militari statunitensi al largo delle coste del Venezuela, iniziato ad agosto e che ora conta oltre 15mila effettivi, e ha già commesso innegabili crimini di guerra, tra cui l’attacco letale a imbarcazioni civili e sopravvissuti in mare, che ha ucciso almeno 95 persone». A sostegno della tesi riporta anche la dichiarazione dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che ha definito gli attacchi statunitensi contro imbarcazioni civili come «esecuzioni extragiudiziali».

L’accusa di Assange ha lo scopo di bloccare immediatamente i fondi rimanenti e di avviare un’indagine penale, in un quadro condiviso da 21 organizzazioni pacifiste norvegesi che avevano boicottato la cerimonia di assegnazione. La denuncia penale, rivolta a 30 persone legate alla Fondazione Nobel, inclusi i vertici come la presidentessa Astrid Söderbergh Widding e la direttrice esecutiva Hanna Stjärne, è stata depositata presso le autorità svedesi competenti, in particolare l’Autorità Svedese per i Reati Economici e l’Unità Svedese per i Crimini di Guerra, con richieste che includono il congelamento dei fondi del Premio Nobel per la Pace assegnato a Machado e un’indagine penale completa sui dirigenti coinvolti.

UE: sanzionate 41 presunte navi russe

0

L’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni alle navi che farebbero parte della cosiddetta “flotta ombra” russa, la flotta di navi che Mosca utilizzerebbe per eludere le sanzioni europee sugli idrocarburi. Le nuove sanzioni colpiranno 41 navi, che vanno ad aggiungersi alle oltre 500 già designate. Sarà loro vietato l’ingresso nei porti UE e l’accesso ai servizi legati di trasporto marittimo. Finora l’UE ha imposto 19 pacchetti di sanzioni contro la Russia, coinvolgendo tra gli altri proprio il settore petrolifero.

Torino, Askatasuna sotto sgombero: militarizzato il quartiere, chiuse le scuole

0
Foto di Valeria Casolaro

TORINO – All’Askatasuna è in corso lo sgombero. O almeno, così scrive il ministro dell’Interno Piantedosi su Instagram. Dagli agenti presenti sul posto, per ora, arrivano solo no comment: “saprete poi dal comunicato stampa”. Intanto, una ventina di camionette sono schierate tutto intorno al perimetro del centro sociale, oltre ad almeno tre camion-idranti. Un cordone di agenti antisommossa blocca l’accesso all’edificio dalle prime ore di questa mattina. Ufficialmente, sono entrati per effettuare una perquisizione. Ufficiosamente, l’intenzione è evidentemente quella di sgomberare. Nel frattempo, la circolazione nel quartiere è stata bloccata e le scuole sono state chiuse.

L’operazione è iniziata nelle prime ore di questa mattina. Decine di agenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza si sono presentati al centro sociale, ufficialmente per una perquisizione. “Hanno chiuso per tre giorni anche le due scuole adiacenti all’edificio, ma alle famiglie lo hanno detto solamente stamattina alle 7.30, mentre portavano i bambini a scuola” riferisce a L’Indipendente un militante del centro sociale. I residenti ci descrivono una situazione “mai vista” nel quartiere. Il dispiegamento di polizia e forze di sicurezza non è evidentemente giustificato da quanto accade all’esterno dell’edificio, dove i presenti non arrivano al centinaio di persone. Qualcuno ha in mano un megafono, qualcuno prepara degli striscioni, altri distribuiscono caffè, mentre tutti aspettano che arrivi qualche informazione. “Guarda qui, stanno distruggendo tutto” mi dice un ragazzo, mostrandomi una foto che dovrebbe essere di uno dei lavandini dei bagni interni, completamente spaccato. Dentro, mi dicono altri, stanno iniziando a murare gli accessi e a chiudere l’acqua, segno che lo sgombero è a tutti gli effetti in corso.

Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo ha fatto sapere questa mattina che il patto tra Comune e Askatasuna – che prevedeva la trasformazione graduale del centro sociale in bene comune attraverso lavori di riqualificazione, in cambio della possibilità di continuare le attività ed evitare lo sgombero – è definitivamente saltato. Ufficialmente, perché durante le perquisizioni di oggi sono state trovate sei persone che dormivano all’interno, in “violazione delle prescrizioni relative all’interdizione all’accesso ai locali di corso Regina 47”. Tuttavia, spiega a L’Indipendente Martina dell’Askatasuna, che vi sia effettivamente una violazione è tutto da verificare. “Probabilmente è vero che c’erano persone all’interno, ma le condizioni del patto prevedono la guardiania al piano terra, quindi il fatto che la loro eventuale presenza fosse illecita è tutto da dimostrare”.

Dal cosiddetto “assalto” a La Stampa avvenuto lo scorso 28 novembre, le opposizioni hanno fatto pressing continuo sul sindaco affinché si decidesse a ordinare lo sgombero. L’azione non violenta era avvenuta nell’ambito dello sciopero nazionale indetto contro il riarmo e per la Palestina: decine di persone si erano staccate dal corteo di Torino per avvicinarsi alla sede del quotidiano La Stampa e lanciare letame contro i muri. Qualcuno era poi entrato nella redazione (vuota, perchè era in corso anche lo sciopero dei giornalisti), lanciato qualche foglio in terra e lasciato scritte poco lusinghiere sui muri. L’intero sistema di informazione mainstream ha fatto muro compatto con il quotidiano contro quella che molti hanno definito una “azione squadrista” e in città poco ci è voluto prima che il dito venisse puntato proprio contro l’Askatasuna. Fino ad ora, però, il sindaco si era rifiutato di procedere, dichiarando di non avere motivo per farlo. “Proceda o si dimetta” aveva tuonato Fratelli d’Italia. Ma nel calderone delle accuse contro il centro sociale ci erano finite un po’ tutte le proteste degli ultimi mesi, dal blocco dei binari del treno alle azioni contro Leonardo spa alla protesta alle Officine Grandi Riparazioni in occasione della visita a Torino di Jeff Bezos. Per i militanti del centro sociale, mi spiega Martina, è ipotizzabile che il sindaco abbia subito pressioni direttamente dal governo, fattore che “avrebbe spianato la strada alla perquisizione di oggi”.

“Per noi, c’è una volontà del governo di reprimere il movimento per la Palestina – continua – l’azione di oggi si inserisce in un più ampio attacco del governo in questo senso, si colpisce Askatasuna cercando di distruggere la possibilità di un percorso di bene comune. Bisognerà ora vedere che posizione prenderanno il Comune e il sindaco: se questa rimane su un piano puramente tecnico e non si esprime da un punto di vista politico, allora per noi equivale a uno schierarsi con il governo Meloni“. Governo che “agisce in questo modo perché movimento per la Palestina ha effettivamente creato timore rispetto a quello che la popolazione vuole e può fare quando ha capito di poter contare”. Con la chiusura di Askatasuna, “si attacca l’idea non solo di uno spazio, ma di un progetto, di un mondo e una città diversa. Chi abbia a cuore questi temi si schiererà dalla parte di chi lotta. Per questo, la risposta deve essere trasversale, a livello cittadino e non solo”.

“Domenica scorsa eravamo qui ad addobbare i giardini per Natale con i bambini e l’Askatasuna, domani avrebbe dovuto esserci un pranzo natalizio condiviso anche per le famiglie” ha dichiarato una mamma del Comitato del quartiere Vanchiglia, presente al presidio di stamattina. “Siamo una comunità, l’Aska è casa nostra, è casa di tutto il quartiere e continuerà ad esserlo perchè non molliamo. La cosa importante sono le relazioni che abbiamo costruito, insieme. Il pranzo di domani si farà lo stesso, anche se non sarà all’interno”. L’Askatasuna è infatti un punto di riferimento per le lotte sociali cittadine da ormai trent’anni. L’attivismo sul territorio nell’ambito di varie realtà, dal movimento per la Palestina alla lotta No TAV, passando per la liberazione dell’imam Mohamed Shahin e altre questioni territoriali, insieme alla presenza radicata sul territorio, ne hanno ripetutamente fatto un obiettivo di perquisizioni, sgomberi e repressione da parte delle autorità. L’ultimo atto degno di nota si è concluso questa primavera, quando i 16 attivisti del centro imputati per il reato di associazione a delinquere per varie azioni di protesta avvenute nel contesto torinese della Val di Susa, sono stati assolti per non sussistenza dei fatti. Il portavoce del centro sociale lo dice chiaramente: “la volontà è quella di criminalizzare il dissenso e tutto il movimento per la Palestina”.

A fare l’annuncio ufficiale ci ha pensato il ministro dell’Interno su Instagram, di certo un canale di comunicazione istituzionale non usuale. “Sgomberato il centro sociale Askatasuna di Torino. Dallo Stato un segnale chiaro: non ci deve essere spazio per la violenza nel nostro Paese”. Una violenza che, al momento, è oggetto di discussione su social media e nei salotti, della quale la giustizia ancora deve dimostrare l’esistenza e le eventuali responsabilità.  Nel frattempo, messaggi di solidarietà sono arrivati da svariati contesti di lotta e resistenza del contesto nazionale. Dall’ex OPG occupato Je So Pazz (Napoli) al Collettivo di fabbrica GKN (Firenze) al Quarticciolo Ribelle (Roma), in molti hanno criticato l’operazione di polizia: “giù le mani dall’Aska” è il grido corale che si è sollevato.

Fa freddo su corso Regina, davanti al civico 47. Nemmeno il sole che è uscito negli ultimi minuti riscalda l’inverno torinese. Il presidio, però, è sempre più numeroso: sono stati allestiti tavoli, qualcuno ha portato cibo da condividere, è stato montato un gazebo. Su un lato è stato appeso uno striscione, una scritta in rosso: “Giù le mani dall’Askatasuna”. Per questo pomeriggio alle 18 è prevista poi un corteo di solidarietà, che partirà proprio da qui. È la protesta pacifica di un quartiere che, ancora una volta, vuole far sentire la sua presenza e manda un messaggio chiaro: “noi non ci pieghiamo”.

Cipro diventerà il primo paese europeo a comprare gas da Israele

0

L’isola di Cipro, un tempo nota solo per le spiagge e per il conflitto congelato dai tempi della guerra fredda, sta assumendo oggi un ruolo chiave nel Mediterraneo orientale. Il governo riconosciuto a livello internazionale, quello della metà greco-cipriota dell’isola, si sta consolidando come hub diplomatico-energetico regionale grazie alla vicinanza con Libano, Israele e Palestina. Il presidente cipriota Nikos Christodoulides ha siglato pochi giorni fa a Beirut uno storico accordo con il Libano sulla delimitazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE). L’accordo, definito dal presidente «un traguardo di importanza strategica», mette fine a vent’anni di negoziati e apre la strada a progetti di cooperazione energetica, inclusa la possibile interconnessione elettrica tra i due Paesi. Ma a questo si aggiunge anche il recente accordo che l’isola ha siglato con Israele, che rifornirà Cipro di gas naturale.

La questione del gas, che coinvolge anche l’ENI e prosegue da oltre un quarto di secolo, è tornata al centro dell’attenzione a causa delle tensioni regionali e delle iniziative promosse dagli Stati Uniti per rompere l’isolamento relativo di Israele. In questo contesto, due accordi assumono un ruolo chiave: quello già citato tra Cipro e Libano e un altro, quello tra Cipro e Israele. Non è un caso che l’accordo sulla ZEE con Beirut arrivi ora: parallelamente al negoziato ventennale con il Libano, Cipro ha gettato le basi per l’accordo con Israele attraverso il gasdotto di Energean, un progetto destinato a collegare giacimenti già operativi come Karish e Karish North. Questi due elementi renderebbero possibile una “triangolazione” per evitare di accendere tensioni tra Israele e Libano, in un momento delicato come quello attuale. Anche se, va detto, nel 2022 Beirut e Tel Aviv avevano siglato un’intesa mediata dagli USA che definiva le rispettive zone marittime e la ripartizione dei giacimenti, sebbene Israele avesse ottenuto condizioni più favorevoli.

Il progetto del gasdotto di Energean rappresenta oggi l’opzione più rapida e concreta per fornire gas naturale all’isola, dice il CEO, Mathios Rigas, alla stampa cipriota: l’infrastruttura potrebbe essere completata entro 12 mesi dal rilascio delle licenze governative necessarie, con un costo stimato tra 350 e 400 milioni di dollari. Il progetto è interamente privato, potenzialmente finanziato da Energean stessa, con possibilità di coinvolgere partner in futuro.

In un contesto geopolitico complesso come questo, l’incognita principale rimane la Turchia: Ankara e il governo della Repubblica turco-cipriota non hanno un ruolo nei progetti siglati dalla Nicosia greco-cipriota e hanno sottolineato come le due iniziative unilaterali rappresentino una violazione degli accordi tra le due comunità, garantiti dall’ONU. Per dirla in breve: cosa tornerebbe ai turco-ciprioti dell’iniziativa del presidente del sud, Nikos Christodoulides? La repubblica secessionista considera sotto la sua giurisdizione gran parte della ZEE della Repubblica di Cipro. E questo è tutt’altro che un problema da poco.

Gli USA non sono rimasti a guardare e, per evitare un’escalation improvvisa, hanno aperto un negoziato con la Turchia, sperando di trovare anche una combinazione per affrontare la divisione dell’isola che perdura da oltre 50 anni. Gli incentivi europei non hanno convinto Erdoğan e, se le voci di collegare il ritiro delle truppe turche dall’isola ad accordi energetici fossero fondate, il compromesso sarebbe complesso: le linee tracciate dalla Turchia su sovranità, diritti territoriali e diritto internazionale non sono negoziabili per i greco-ciprioti, ma Ankara non vuole correre il rischio di essere esclusa dai progetti energetici del Mediterraneo orientale.

Per ora, l’accordo in vista tra Nicosia (sud) e Tel Aviv sul gasdotto viene denunciato dai turchi come una violazione, collegata alla crescente presenza di cittadini israeliani a Cipro. Intanto, Energean ha firmato una lettera di intenti con il gruppo industriale ed energetico cipriota Cyfield, per fornire gas alla futura centrale elettrica del gruppo. Il gasdotto avrebbe una capacità di 1 miliardo di metri cubi all’anno, sufficiente a coprire il fabbisogno della centrale e a fornire ulteriori volumi al mercato cipriota. Rigas ha sottolineato che il progetto è immediatamente realizzabile, basandosi su giacimenti già operativi in Israele, Karish e Karish North, attivi da oltre tre anni e che coprono circa il 50% della domanda israeliana. Dal 2027, la produzione aumenterà ulteriormente grazie al nuovo giacimento Katlan.

La proposta non sostituisce ma integra la strategia energetica di Cipro: terminale di Vasilikos, progetto FSRU e sviluppo dei giacimenti ciprioti sono tutti elementi necessari per trasformare l’isola in un hub energetico regionale, come vorrebbe il suo governo in carica. In questo modo, Cipro diventerebbe il primo Stato dell’UE a importare gas israeliano tramite gasdotto, all’interno di un piano sostenuto dagli USA volto a rafforzare l’asse Cipro–Grecia–Israele e la cooperazione strategica “3+1”. Lasciando in sospeso, tuttavia , mille questioni politiche e giuridiche,

Taiwan, armi dagli USA per 11 miliardi di dollari

0

L’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha autorizzato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore complessivo di 11 miliardi di dollari, la seconda dall’inizio del suo secondo mandato. Il pacchetto, annunciato da Taipei, include sistemi missilistici Himars, obici semoventi, missili Atacms, armi anticarro, droni, software militari e componenti per elicotteri e missili Harpoon. Si tratta di un salto di scala rispetto al primo lotto da 330 milioni di dollari approvato a novembre. La Cina ha reagito duramente, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere l’armamento di Taiwan.

Il governo Meloni ha modificato la legge di bilancio aumentando l’età pensionabile

1

Il governo Meloni ha inserito nella legge di bilancio una serie di modifiche che rialzano i requisiti per il pensionamento e allungano i tempi di decorrenza dell’assegno, con effetti progressivi dal 2027 in poi. Accanto al ritorno dell’adeguamento automatico dei requisiti alla speranza di vita (con +1 mese nel 2027 e scatti più consistenti dal 2028), il maxiemendamento introduce anche l’allungamento della “finestra” tra maturazione dei requisiti e percezione della pensione, nonché una parziale sterilizzazione del riscatto della laurea. Le misure hanno scatenato contestazioni sindacali e dissensi nella maggioranza, mentre la premier ha escluso effetti retroattivi sul riscatto già perfezionato. Tale mossa viene inquadrata dai critici come l’ennesimo tradimento al mandato elettorale da parte delle forze di governo, che più volte avevano attaccato gli effetti della riforma Fornero sulle pensioni, ma che ora l’hanno resa addirittura più restrittiva.

L’intervento principale conferma il meccanismo di adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita. Dopo un aumento “soft” di un mese nel 2027, il sistema torna a regime pieno dal 2028. Secondo le ultime proiezioni, ciò comporterà un progressivo innalzamento dei contributi necessari. Per la pensione anticipata, ad esempio, si passerà dagli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini a 43 anni e 1 mese nel 2028, fino a raggiungere 43 anni e 9 mesi dal 2037. La vera novità dell’emendamento riguarda la cosiddetta “finestra mobile”, il periodo di attesa tra la maturazione dei requisiti e la decorrenza della pensione. Attualmente fissata a tre mesi, sarà gradualmente allungata: salirà a quattro mesi per chi matura i requisiti nel 2032-2033, a cinque mesi per il 2034 e a sei mesi a partire dal 2035. Questo posticipo, unito all’adeguamento demografico, comporterà un significativo rinvio dell’uscita effettiva dal lavoro. «Formalmente la finestra non è un requisito contributivo, ma nei fatti costringe lavoratrici e lavoratori a restare più a lungo nel lavoro o senza reddito, rinviando la decorrenza della pensione», hanno fatto notare i sindacati.

La misura che ha scatenato le polemiche politiche, anche all’interno della maggioranza, riguarda il riscatto della laurea. Il testo originario prevedeva una penalizzazione progressiva di questo strumento a partire dal 2031: nel conteggio dei contributi utili per la pensione anticipata, verrebbero “sterilizzati” dai 6 ai 30 mesi degli anni riscattati. Dopo le proteste, la premier Meloni è intervenuta correggendo il tiro: «Nessuno che ha riscattato la laurea vedrà cambiata l’attuale situazione. Qualsiasi modifica che dovesse intervenire varrà solo per il futuro». La Lega, attraverso il senatore Claudio Borghi, ha presentato un subemendamento per cancellare completamente le misure sulle finestre e sul riscatto, definendole «clausole di salvaguardia inserite da qualche tecnico troppo zelante». Ma Meloni appare intenzionata a tirare dritto.

L’impatto sociale è al centro delle critiche: la Cgil evidenzia come l’aumento dei requisiti non colpisca tutti allo stesso modo ma pesi in modo sproporzionato sui redditi più bassi e sulle carriere discontinue. L’analisi del sindacato segnala che 5,1 milioni di dipendenti del settore privato — il 29% del totale — non riescono oggi a maturare un anno pieno di contributi, spesso per contratti brevi, part-time involontari o salari che restano sotto il «minimale contributivo». Dal 2022 al 2026 tale soglia è salita del 16,5%, più rapidamente delle retribuzioni, e per il 2026 per far valere 12 mesi saranno necessari almeno 12.551 euro annui: chi resta al di sotto “perde” settimane di contribuzione anche lavorando tutto l’anno.

A nemmeno due settimane dalla scadenza della conversione in legge alle Camere, per venire incontro ai desiderata di Confindustria il governo ha proposto di prolungare per altri tre anni agevolazioni fiscali sugli investimenti; inoltre, ha stanziato risorse aggiuntive — 1,3 miliardi e 532 milioni — destinate rispettivamente a incentivi legati a Transizione 4.0 e ai crediti d’imposta per gli investimenti nelle Zone economiche speciali (ZES). Parallelamente, c’è stato l’intervento sulle pensioni. Il paradosso evidenziato dai sindacati è che un governo che aveva promesso il superamento della legge Fornero ne ripristina invece la logica degli adeguamenti automatici, scaricando gli oneri della sostenibilità del sistema proprio sulle categorie più fragili. «Flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso facilitato alla pensione, favorendo al contempo il ricambio generazionale», «stop all’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita», «un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo», si leggeva a chiare lettere nel programma con cui Fratelli D’Italia ha vinto le elezioni nel 2022. Il vicepremier Matteo Salvini, nel corso degli anni, ha più volte parlato della legge Fornero come di «una schifezza» e qualcosa di «disumano» e «immorale», annunciando che la sua cancellazione – definita un «impegno morale» – sarebbe stata «la prima cosa da fare una volta al governo». Dal 2018 Salvini è salito al governo per tre volte, ma la Legge Fornero è ancora lì.

In Bulgaria la pazienza è finita: la rivolta della “Gen Z”

4

Mentre le cancellerie europee si preparavano a festeggiare l’ingresso della Bulgaria nell’eurozona, che avverrà il primo gennaio 2026, a Sofia si consumava un evento spartiacque: la caduta del governo di Rosen Zhelyazkov, avvenuta l'11 dicembre, a seguito di massicce proteste popolari. Questa volta, il Parlamento non ha sciolto le righe per calcolo elettorale, non è stata la solita manovra di palazzo a cui la politica bulgara – e non solo – ci ha abituati nell'ultimo decennio. Per comprendere la gravità della situazione, dobbiamo abbandonare la lente deformante che riduce tutto a uno scontro t...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

Torino, maxi operazione di polizia al centro sociale Askatasuna

0
Nelle prime ore di questa mattina centinaia di agenti hanno iniziato una maxi operazione nel centro sociale Askatasuna di Torino. ll centro è stato perquisito insieme alle abitazioni di alcuni dei militanti, mentre le strade intorno sono state bloccate e le scuole adiacenti chiuse. Da quanto si apprende al momento, l’operazione sarebbe avvenuta nell’ambito delle inchieste sulle proteste alle OGR e alla sede di Leonardo degli scorsi mesi, oltre che all’azione nonviolenta nella sede della Stampa. Il sindaco Lo Russo ha riferito che, alla luce degli ultimi eventi, il patto di collaborazione tra il centro e il Comune (per la trasformazione di Askatasuna in bene comune ed evitare dunque lo sfratto) è da considerarsi concluso.

Von der Leyen all’Europarlamento: «la pace è finita, prepariamoci alla guerra ibrida»

1

L’Europa deve prepararsi alla guerra ibrida e deve farlo in fretta. Almeno, così è come la pensa la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «L’Europa deve essere responsabile per la propria sicurezza: non è più un’opzione, ma un dovere. Conosciamo le minacce che dobbiamo affrontare e le affronteremo. Dobbiamo sviluppare e dispiegare nuove capacità per poter combattere una guerra ibrida moderna». La minaccia è sempre la stessa: la Russia. L’unico modo per difendersi da un ipotetico attacco: più armi, più investimenti nella difesa – 800 miliardi entro il 2030, secondo gli obiettivi dell’UE.

«La pace di ieri non c’è più» ha dichiarato von der Leyen all’inizio del proprio discorso. Ora, viviamo in un «mondo di guerre e di predatori». Il riferimento non è chiaramente a Israele, che l’Unione Europea continua ad appoggiare e finanziare nonostante a due mesi dalla firma del cessate il fuoco non abbia ancora fermato il genocidio contro la popolazione palestinese, ma alla Russia. La preoccupazione è chiara: «l’ordine mondiale del dopoguerra sta cambiando in modo irreversibile», con nuove potenze economiche che si affacciano sul mondo. Infatti, mentre «L’Europa ha perso quote del PIL mondiale, passando dal 25% nel 1990 al 14% di oggi» e agli Stati Uniti è toccata la stessa sorte, «solo in Cina, la quota del PIL globale è passata dal 4% nel 1990 al 20% di oggi». Gli equilibri si stanno quindi ribaltando, tanto dal lato economico quanto da quello bellico – d’altronde, non è più nemmeno tempo delle guerre in Kosovo, quando a sganciare le bombe contro i civili nel mezzo del continente era la NATO, o di quelle imperialiste portate avanti dall’Occidente “esportatore di democrazia” in Afghanistan e Medio Oriente. E probabilmente è proprio per recuperare un ruolo attivo nello scacchiere geopolitico globale che pochi giorni fa Giuseppe Cavo Dragone, la più alta carica militare all’interno della NATO, ha suggerito l’ipotesi di un attacco preventivo contro Mosca, proprio per far fronte alla cosiddetta “minaccia ibrida”.

In un mondo che si muove sempre più nella direzione del multipolarismo, insomma, l’Europa deve trovare il modo di ristabilire il proprio ruolo e fare i propri interessi. Anche perchè gli Stati Uniti lo hanno fatto capire chiaramente: per quanto riguarda la difesa, l’UE dovrà cominciare ad arrangiarsi. Per von der Leyen, però, «dalla difesa all’energia» l’Unione sta compiendo passi da gigante verso l’indipendenza. «Stiamo entrando in una nuova era: quella dell’indipendenza energetica dai combustibili fossili russi». Ciò che rimane implicito, nel suo discorso, è che a cambiare non è il modello, ma solo il fornitore: tra i principali fornitori dell’UE scompare Mosca e compare Washington, le cui tariffe non sono certo più convenienti. L’indipendenza nel campo della difesa, invece, può essere ottenuta in un solo modo: più fondi all’industria della guerra. Otto miliardi di euro sono stati investiti negli ultimi dieci anni, ottocento miliardi dovranno essere investiti da qui ai prossimi quattro – entro il 2030. Non solo perchè l’UE deve “difendere sè stessa”, ma perchè «non c’è atto più importante per la difesa europea che sostenere la difesa dell’Ucraina». Che avrà bisogno di “almeno” altri 137 miliardi nel corso dei prossimi due anni, 90 dei quali dovranno essere forniti dall’UE. La cifra è imponente, motivo per il quale von der Leyen invita a non soffermarsi sui numeri: «non si tratta solo di numeri, ma anche di rafforzare la capacità dell’Ucraina di garantire una pace reale, giusta, duratura, che protegga l’Ucraina e quindi anche il resto dell’Europa».

La Russia, insomma, continua ad essere il pretesto per l’Europa per investire nel mercato della guerra, che di questi tempi è sicuramente redditizio. I discorsi di pace, d’altronde, non fanno bene all’economia: basti vedere come i titoli delle aziende produttrici di armi crollino appena si ventilano discorsi di pace, per impennare non appena vengono fatti annunci militaristi. In questo contesto, va segnalato come, mentre von der Leyen insiste nel ripetere come Mosca stia dimostrando tutto il suo «disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale» pretendendo allo stesso tempo di «beneficiare dei privilegi dell’ordine economico mondiale», la Corte Penale Internazionale ha confermato il mandato di cattura contro Netanyahu, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità nel contesto dell’offensiva israeliana contro i palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. Si vedrà ora se l’Europa, al contrario di quanto fatto fino ad ora, sarà capace lei stessa di rispettare gli stessi principi, smettendo di collaborare con un criminale di guerra.