In questi ultimi giorni l’esercito israeliano ha deliberatamente attaccato le basi dell’UNIFIL, la missione di pace dell’Onu presente nel Sud del Libano. Il compito dell’UNIFIL che dispone di circa cinquanta basi è di far rispettare le condizioni di disarmo previste dagli accordi internazionali. Questo episodio apparentemente insignificante all’interno di una guerra sanguinosa come quella portata avanti da Israele merita di essere approfondito. Non tanto per ciò che rivela su Israele, ma per ciò che rivela del modo in cui l’Occidente sta gestendo e sta portando avanti i suoi rapporti con Israele.
Poco dopo l’inizio dell’invasione, l’esercito israeliano aveva ordinato all’UNIFIL di evacuare le proprie basi che si trovavano nelle vicinanze della Blue Line, il confine di fatto tra Israele e il Libano. Quando i paesi che hanno aderito alla missione si sono rifiutati di sottostare all’ordine, l’esercito israeliano ha pensato bene di attaccare l’UNIFIL. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: sbarazzarsi dei miliziani di Hezbollah che si trovavano nelle vicinanze delle basi. Vale la pena sottolineare come la possibilità di decimare i miliziani di Hezbollah sia sempre stata la scusa ufficiale di Israele per giustificare qualsiasi attacco, anche contro i campi profughi, ospedali, tendopoli di civili. Proprio poche ore fa Israele ha bombardato l’ennesimo ospedale e una scuola usata come rifugio nel campo profughi di Nuseirat. Crimini sempre passati in sordina nell’agenda politica dell’UE.
L’effetto immediato degli attacchi contro le basi ONU, invece, è stato di aver sollevato, per la prima volta dal 7 ottobre, una condanna nei confronti delle «azioni di guerra» israeliane. Dopo un anno di silenzio assordante l’Europa sembra essersi destata dal suo torpore. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha condannato gli attacchi alle basi dell’UNIFIL. «Un attacco contro una missione di pace delle Nazioni Unite è irresponsabile e non è accettabile». E ha chiesto a Israele di rispettare il diritto umanitario internazionale. Proteste e accuse si sono sollevate dai paesi membri dell’Unione Europea.
Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha parlato addirittura di crimini di guerra: «Gli atti ostili compiuti e reiterati dalle forze israeliane potrebbero costituire crimini di guerra, si tratta di gravissime violazioni alle norme del diritto internazionale, non giustificate da alcuna ragione militare». Subito dopo gli si è accodata Giorgia Meloni, accusando Tel Aviv di avere violato la legge internazionale e definendo «inammissibile» l’attacco sferrato.
Se si dovessero sintetizzare le accuse mosse a Tel Aviv, non ci sarebbe parola più opportuna di pantomima. Per mesi Israele ha bombardato indiscriminatamente i civili di Gaza, uccidendo uomini, donne e bambini. Per mesi il governo israeliano ha preso volutamente e coscientemente di mira i campi profughi, derubricando le vittime tra i civili come uno spiacevole ma necessario effetto collaterale della sua guerra contro Hamas. Israele ha collezionato una serie impressionante di crimini di guerra, eppure non si è mai levata una voce in difesa di questi morti. Ma non appena Israele ha colpito le basi e gli interessi dell’Onu, i leader dei vertici europei hanno fatto tuonare la loro voce e si sono riempiti la bocca di parole come «crimini di guerra» e «violazioni del diritto internazionale».
Naturalmente queste prime accuse di crimini di guerra riguardando esclusivamente gli attacchi mossi contro le basi dell’UNIFIL, e non nascono da un improvviso risveglio di solidarietà nei confronti dei civili sterminati dall’esercito Israeliano. Ecco perché si tratta di una pantomima, una pantomima che diventa grottesca quando per dare enfasi allo sdegno contro uno stato che minaccia interessi di natura politica, ci si serve di parole come crimini di guerra, quando sui veri crimini di guerra commessi da Israele il silenzio è stato assoluto.
Vale la pena allora rispolverare un concetto espresso nel saggio di Hanna Arendt, La banalità del male: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfiga come ho detto il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato e non trova nulla».
Poco dopo la Arendt aggiunge che il «male non ha radici» ecco perché non conosce limiti. Cosa significa che il male non ha radici? Per spiegare questo concetto la Arendt porta come esempio Adolf Eichmann, un uomo insignificante in termini di comando, ordinario, apparentemente inoffensivo che fu però il responsabile dello sterminio di migliaia di ebrei. Eichmann era l’uomo che materialmente provvedeva ad organizzare i convogli che trasportavano i deportati verso Auschwitz. Al termine della guerra il processo contro Eichmann durò otto mesi. Emersero nel corso di questo processo dettagli raccapriccianti. Molti di coloro che dovevano essere deportati ad Auschwitz, venivano fucilati prima di giungere a destinazione a gruppi di tre/quattrocento. Coloro che non morivano all’istante per i colpi inferti, venivano letteralmente sepolti vivi assieme ai cadaveri. Per difendersi da queste accuse Eichmann diede la risposta più banale e scontata di tutte: «obbedivo a degli ordini».
Per la Arendt il male non ha radici, perché resta in superficie, coglie soltanto l’ovvio, ciò che accade e ciò che sta accadendo in un determinato momento senza cogliere né il prima né il dopo di un determinato evento né il suo perché. Il vero responsabile della Shoah non fu Hitler o il suo stato maggiore, così come i responsabili del genocidio dei palestinesi non sono Netanyahu e i ministri israeliani. Il male non ha una struttura piramidale ma è una catena di montaggio: ogni singolo individuo, ogni singolo soldato israeliano che si è reso partecipe dei bombardamenti contro i civili è il diretto corresponsabile, l’esecutore di tali crimini.
Se Netanyahu condivide con Hitler l’assoluto disprezzo per la vita umana e il disinteresse verso la morte che provoca, anche se la sua politica non è sorretta da un’ideologia razziale o da qualche delirio eugenetico, in questo teatro di guerra l’Occidente interpreta la parte di Adolf Eichmann. L’uomo cioè che nel saggio della Arendt è la personificazione del muto consenso tanto necessario quanto imprescindibile che rende effettivamente possibile il male.
[di Guendalina Middei, in arte Professor X]