sabato 23 Novembre 2024
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Benjamin Netanyahu e la banalità del male

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In questi ultimi giorni l’esercito israeliano ha deliberatamente attaccato le basi dell’UNIFIL, la missione di pace dell’Onu presente nel Sud del Libano. Il compito dell’UNIFIL che dispone di circa cinquanta basi è di far rispettare le condizioni di disarmo previste dagli accordi internazionali. Questo episodio apparentemente insignificante all’interno di una guerra sanguinosa come quella portata avanti da Israele merita di essere approfondito. Non tanto per ciò che rivela su Israele, ma per ciò che rivela del modo in cui l’Occidente sta gestendo e sta portando avanti i suoi rapporti con Israele.

Poco dopo l’inizio dell’invasione, l’esercito israeliano aveva ordinato all’UNIFIL di evacuare le proprie basi che si trovavano nelle vicinanze della Blue Line, il confine di fatto tra Israele e il Libano. Quando i paesi che hanno aderito alla missione si sono rifiutati di sottostare all’ordine, l’esercito israeliano ha pensato bene di attaccare l’UNIFIL. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: sbarazzarsi dei miliziani di Hezbollah che si trovavano nelle vicinanze delle basi. Vale la pena sottolineare come la possibilità di decimare i miliziani di Hezbollah sia sempre stata la scusa ufficiale di Israele per giustificare qualsiasi attacco, anche contro i campi profughi, ospedali, tendopoli di civili. Proprio poche ore fa Israele ha bombardato l’ennesimo ospedale e una scuola usata come rifugio nel campo profughi di Nuseirat. Crimini sempre passati in sordina nell’agenda politica dell’UE.

L’effetto immediato degli attacchi contro le basi ONU, invece, è stato di aver sollevato, per la prima volta dal 7 ottobre, una condanna nei confronti delle «azioni di guerra» israeliane. Dopo un anno di silenzio assordante l’Europa sembra essersi destata dal suo torpore. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha condannato gli attacchi alle basi dell’UNIFIL. «Un attacco contro una missione di pace delle Nazioni Unite è irresponsabile e non è accettabile». E ha chiesto a Israele di rispettare il diritto umanitario internazionale. Proteste e accuse si sono sollevate dai paesi membri dell’Unione Europea. 

Il presidente del consiglio Giorgia Meloni visita il contingente italiano in missione nel Libano

Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha parlato addirittura di crimini di guerra: «Gli atti ostili compiuti e reiterati dalle forze israeliane potrebbero costituire crimini di guerra, si tratta di gravissime violazioni alle norme del diritto internazionale, non giustificate da alcuna ragione militare». Subito dopo gli si è accodata Giorgia Meloni, accusando Tel Aviv di avere violato la legge internazionale e definendo «inammissibile» l’attacco sferrato.  

Se si dovessero sintetizzare le accuse mosse a Tel Aviv, non ci sarebbe parola più opportuna di pantomima. Per mesi Israele ha bombardato indiscriminatamente i civili di Gaza, uccidendo uomini, donne e bambini. Per mesi il governo israeliano ha preso volutamente e coscientemente di mira i campi profughi, derubricando le vittime tra i civili come uno spiacevole ma necessario effetto collaterale della sua guerra contro Hamas. Israele ha collezionato una serie impressionante di crimini di guerra, eppure non si è mai levata una voce in difesa di questi morti. Ma non appena Israele ha colpito le basi e gli interessi dell’Onu, i leader dei vertici europei hanno fatto tuonare la loro voce e si sono riempiti la bocca di parole come «crimini di guerra» e «violazioni del diritto internazionale». 

Naturalmente queste prime accuse di crimini di guerra riguardando esclusivamente gli attacchi mossi contro le basi  dell’UNIFIL, e non nascono da un improvviso risveglio di solidarietà nei confronti dei civili sterminati dall’esercito Israeliano. Ecco perché si tratta di una pantomima, una pantomima che diventa grottesca quando per dare enfasi allo sdegno contro uno stato che minaccia interessi di natura politica, ci si serve di parole come crimini di guerra, quando sui veri crimini di guerra commessi da Israele il silenzio è stato assoluto.

Vale la pena allora rispolverare un concetto espresso nel saggio di Hanna Arendt, La banalità del male: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfiga come ho detto il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato e non trova nulla». 

Poco dopo la Arendt aggiunge che il «male non ha radici» ecco perché non conosce limiti. Cosa significa che il male non ha radici? Per spiegare questo concetto la Arendt porta come esempio Adolf Eichmann, un uomo insignificante in termini di comando, ordinario, apparentemente inoffensivo che fu però il responsabile dello sterminio di migliaia di ebrei. Eichmann era l’uomo che materialmente provvedeva ad organizzare i convogli che trasportavano i deportati verso Auschwitz. Al termine della guerra il processo contro Eichmann durò otto mesi. Emersero nel corso di questo processo dettagli raccapriccianti. Molti di coloro che dovevano essere deportati ad Auschwitz, venivano fucilati prima di giungere a destinazione a gruppi di tre/quattrocento. Coloro che non morivano all’istante per i colpi inferti, venivano letteralmente sepolti vivi assieme ai cadaveri. Per difendersi da queste accuse Eichmann diede la risposta più banale e scontata di tutte: «obbedivo a degli ordini».

”L’uomo nella cabina di vetro”: il responsabile della ”soluzione finale” Adolf Eichmann a processo

Per la Arendt il male non ha radici, perché resta in superficie, coglie soltanto l’ovvio, ciò che accade e ciò che sta accadendo in un determinato momento senza cogliere né il prima né il dopo di un determinato evento né il suo perché. Il vero responsabile della Shoah non fu Hitler o il suo stato maggiore, così come i responsabili del genocidio dei palestinesi non sono Netanyahu e i ministri israeliani. Il male non ha una struttura piramidale ma è una catena di montaggio: ogni singolo individuo, ogni singolo soldato israeliano che si è reso partecipe dei bombardamenti contro i civili è il diretto corresponsabile, l’esecutore di tali crimini.

Se Netanyahu condivide con Hitler l’assoluto disprezzo per la vita umana e il disinteresse verso la morte che provoca, anche se la sua politica non è sorretta da un’ideologia razziale o da qualche delirio eugenetico, in questo teatro di guerra l’Occidente interpreta la parte di Adolf Eichmann. L’uomo cioè che nel saggio della Arendt è la personificazione del muto consenso tanto necessario quanto imprescindibile che rende effettivamente possibile il male.

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

Nigeria, esplode un’autocisterna: almeno 94 morti

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Martedì sera, nei pressi di Majiya, villaggio nello Stato nigeriano di Jigawa, è esplosa un’autocisterna, uccidendo almeno 94 persone, e ferendone gravemente almeno 50. La notizia è stata data oggi da un portavoce della polizia, che ha comunicato che il veicolo si sarebbe cappottato, e avrebbe così «iniziato a versare il carburante in un canale di scolo». I residenti locali si sarebbero dunque «precipitati a raccogliere il carburante» e poi, in una dinamica ancora poco chiara, l’autocisterna sarebbe esplosa. Secondo le autorità, questo primo bilancio delle vittime è destinato ad aumentare.

L’azienda di Stato Leonardo S.p.a. dà vita al colosso europeo delle armi

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Dopo mesi dall’annuncio estivo, l’azienda italiana di difesa Leonardo S.p.A. ha ufficializzato una partnership con l’azienda tedesca Rheinmetall per la costituzione di un colosso europeo delle armi. L’accordo prevede investimenti di oltre 20 miliardi di euro in dieci anni che, essendo Leonardo S.p.A. un’azienda a partecipazione statale, saranno finanziati con fondi pubblici. La nuova joint venture (associazione di imprese di natura temporanea finalizzata all’esecuzione di un progetto) produrrà centinaia di carri armati e cingolati leggeri, e intende lanciare sul mercato un nuovo modello di carro armato pesante europeo nell’ambito del progetto Main Ground Combat System. Il progetto Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (LRMV) prevede una partecipazione paritetica, con la maggior parte delle attività da svolgersi in Italia, principalmente nella provincia di La Spezia, dove Leonardo sta già pensando di cercare nuove aree da acquisire e destinare alla produzione bellica.

Il progetto LRMV era stato preannunciato a luglio, e dopo l’ufficializzazione di ieri attende solo il perfezionamento degli accordi e la costituzione della società, che dovrebbero arrivare entro il primo trimestre del 2025. Il piano prevede il rinnovamento delle flotte terrestri Dardo (la flotta di fanteria) e Ariete (l’attuale carro armato da combattimento standard dell’esercito italiano), con la costruzione di un migliaio di veicoli cingolati leggeri, 280 carri armati, ma anche varianti antiaeree, da ricognizione e anticarro, nonché veicoli da recupero, da ingegneria e posaponti. I mezzi pesanti dell’attuale flotta Ariete verranno ammodernati con la messa a punto del nuovo IMBT, Italian Main Battle Tank. Quest’ultimo sarà basato sul carro armato tedesco Panther, prodotto proprio da Rheinmetall, e sarà dotato della piattaforma da combattimento di Lynx, altro carro armato Rheinmetall, che andrà a integrare l’attuale sistema AICS, Armored Infantry Combat System.

L’accordo, insomma, prevede l’ammodernamento e il potenziamento delle flotte terrestri italiane, che si baseranno sulle tecnologie tedesche, adattandole al contesto italiano. Il nuovo carro IMBT prevede un investimento di oltre 8 miliardi di euro (di cui 5,5 finanziati), mentre per il programma di aggiornamento di AICS sono previsti 15 miliardi (di cui 6,4 già finanziati) per un valore complessivo di oltre 23 miliardi. Rheinmetall e Leonardo saranno azionisti paritari della nuova LRMV. Il 50% di Rheinmetall sarà posseduto al 40% da Rheinmetall AG (l’azienda tedesca) e al 10% da Rheinmetall Italia. La società avrà sede a Roma, e le attività si svolgeranno al 40% in Germania e al 60% in Italia, principalmente nella città di La Spezia.

La joint venture Leonardo-Rheinmetall rispetta a pieno titolo i consigli forniti dal cosiddetto “Rapporto Draghisulla competitività europea, in cui il banchiere invita allo sviluppo di progetti congiunti, sottolineando particolarmente l’importanza strategica del settore della difesa per il futuro del Vecchio Continente. Leonardo e Rheinmetall sono infatti rispettivamente le maggiori industrie italiana e tedesca nel campo degli armamenti. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, uno dei più importanti e longevi istituti indipendenti per gli studi sulla pace al mondo, Leonardo, con i suoi oltre 12 miliardi di fatturato, risulta la dodicesima produttrice di armi per guadagno al mondo, seconda nel continente, e prima nell’Unione Europea. Molti dei suoi guadagni del 2023 derivano anche dalla guerra a Gaza. L’annuncio dell’accordo, inoltre, sembra essere particolarmente in linea con i piani del governo Meloni, che durante il suo mandato ha aumentato la spesa per la difesa, nonché per l’acquisto di aerei e carri armati. La stessa città di La Spezia è al centro di un grande progetto che intende riqualificare la base militare della città così da adeguarle allo standard NATO. In generale, negli ultimi anni l’Italia ha aumentato l’esportazione di armamenti, così come la spesa militare, che nell’ultimo decennio risulta più che raddoppiata.

[di Dario Lucisano]

Global Gateway: come i soldi pubblici europei vengono drenati verso i colossi privati

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Nel 2021 la Commissione Europea, sotto la guida di Ursula von der Leyen, ha lanciato il programma Global Gateway, che si propone di investire circa 300 miliardi di euro in progetti infrastrutturali in vari Paesi del Sud del mondo, soprattutto in Africa. I settori cardine sono il digitale, il clima e l’energia, i trasporti, la salute, l’istruzione e la ricerca. L’iniziativa è stata vista come un’alternativa alla Nuova via della Seta cinese: a differenza di quest’ultima, secondo la Commissione, Global Gateway vorrebbe incoraggiare i legami e non le dipendenze. Tuttavia, secondo un rapporto redatto da Oxfam, Counter Balance ed Eurodad, il programma dirotterà ingenti risorse pubbliche verso multinazionali e gruppi privati, riservando solamente una quantità irrisoria di risorse a progetti di lunga durata e di beneficio per le comunità.

Global Gateway mobiliterà circa 300 miliardi di euro fino al 2027, provenienti dalle istituzioni economiche e finanziare dell’UE, dei suoi Stati membri e dal budget per gli aiuti allo sviluppo. Come spiegato dalla Commissione Europea, il piano garantirà «investimenti per progetti sostenibili e di alta qualità, tenendo conto delle esigenze dei Paesi partner e garantendo benefici duraturi per le comunità locali. Ciò consentirà ai partner dell’UE di sviluppare le loro società ed economie, ma creerà anche opportunità per il settore privato degli Stati membri dell’UE di investire e rimanere competitivo, garantendo nel contempo i più elevati standard ambientali e del lavoro, nonché una sana gestione finanziaria [..] Global Gateway è il contributo dell’UE alla riduzione del divario globale in termini di investimenti a livello mondiale. È in linea con l’impegno assunto dai leader del G7, a partire dal giugno 2021, di avviare un partenariato infrastrutturale basato sui valori, di alto livello e trasparente, per soddisfare le esigenze globali di sviluppo delle infrastrutture. Il Global Gateway è inoltre pienamente allineato con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile, nonché con l’Accordo di Parigi». Come sottolineato dal nuovo report Who profits from the Global Gateway? The EU’s new strategy for development cooperation, redatto da Oxfam, Counter Balance e Eurodad, tra il 2023 e il 2024 Global Gateway ha lanciato 225 progetti di cui il 49% riguarda il clima e l’energia, il 22% i trasporti, il 13% il digitale, il 9% la sanità e il 7% l’istruzione. Solo il 16% riguarda settori chiave, come istruzione e sanità, in grado di avere un impatto duraturo sulle comunità più povere.

Non solo. Su 40 progetti presi in esame dal rapporto, 25 sosterranno multinazionali europee come Siemens, Moller Group, Suez o BioNTech. Almeno 7 aziende (Moller Maersk, Enel, Meridiam, Orange, Nokia, Total Energies e Siemens) che fanno parte del Global Gateway Business Advisory Group, il gruppo di esperti istituito dalla Commissione Europea e composto da 59 grandi aziende e associazioni imprenditoriali, hanno firmato contratti finanziati con i fondi del Global Gateway, andando quindi a creare un enorme conflitto di interessi. Come punto di partenza del suo nuovo mandato a capo della Commissione UE, Ursula Von der Leyen ha spiegato che un pilastro importante della politica estera economica dell’UE sarà costituito dalle partnership e dagli investimenti comuni attraverso il Global Gateway. Quest’ultimo, come spiegato nel rapporto, è quindi divenuto un «approccio centrale all’azione esterna, influenzando sempre di più altre politiche chiave dell’UE, come il Green Deal Industrial Plan e il Critical Raw Materials Act. Allo stesso tempo, le azioni dell’UE per implementare il Global Gateway rischiano di contraddire i suoi stessi impegni a sostenere elevati standard di diritti umani, sociali e dei lavoratori, trasparenza, creazione di partnership paritarie anziché dipendenze e offerta di un programma di investimenti democratico»

D’altronde, però, già dalla sua realizzazione, il Global Gateway è stato concepito unilateralmente dalla Commissione, escludendo i Paesi del Sud del mondo dal suo processo di progettazione, governance e definizione delle priorità fin dall’inizio. Gli organi eletti, la società civile e gli esperti indipendenti nei Paesi beneficiari non hanno avuto, e non hanno, alcun ruolo significativo nel processo decisionale o nella responsabilità. Questo è esplicativo di come l’intento iniziale, al di là della retorica utilizzata nella sua presentazione, fosse principalmente quello di soddisfare le esigenze economiche e geopolitiche dell’UE, specie dei suoi colossi privati.

[di Michele Manfrin]

Australia, annunciato piano da 250 miliardi per la flotta sottomarina

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Il ministro della Difesa australiano ha annunciato un piano ventennale per potenziare la flotta sottomarina del Paese. Il progetto prevede l’espansione di un cantiere navale nell’area occidentale del Paese, che diventerà un centro di manutenzione per i sottomarini a propulsione nucleare, e produrrà nuovi mezzi da sbarco e fregate multiuso per la marina. Gli investimenti fanno parte dell’accordo AUKUS tra Australia, USA e Regno Unito, che include l’acquisto di cinque sottomarini statunitensi entro il 2030 e un programma di produzione congiunta con il Regno Unito entro il 2040. Dopo un investimento iniziale di 85 milioni in tre anni, il governo investirà circa 245 miliardi di dollari entro il 2055.

Il Brasile è riuscito a debellare la grave malattia tropicale della filariosi linfatica

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filariosi linfatica

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ufficialmente riconosciuto al Brasile l'eliminazione della filariosi linfatica come minaccia di salute pubblica. Questa malattia tropicale debilitante, trasmessa dalle zanzare, ha per secoli colpito milioni di persone, causando gonfiori cronici, disabilità gravi e grandi sofferenze. La filariosi linfatica si contrae solitamente durante l’infanzia, quando parassiti filariali penetrano nell'organismo attraverso le punture di zanzara - in sostanza, piccoli vermi si sviluppano nei vasi linfatici, mettendosi in circolo nel sangue. Sebbene l’infezione ...

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UE, approvata la direttiva su rider e lavoratori digitali

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Dopo quasi tre anni di negoziati, la direttiva europea sui diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali è diventata legge. Ieri, i Paesi membri hanno dato l’ultimo via libera, chiudendo un processo iniziato nel dicembre 2021 con la proposta della Commissione Europea. La nuova normativa prevede una maggiore trasparenza nell’uso degli algoritmi per la gestione delle risorse umane e il diritto per i lavoratori di contestare decisioni automatizzate. Punto centrale della direttiva è il contrasto al lavoro autonomo fittizio, fenomeno che colpisce circa 5,5 milioni di lavoratori in Europa. Gli Stati membri avranno ora due anni per adattare la legislazione nazionale alle nuove regole.

La rivoluzione del Senegal: sovranità economica e indipendenza energetica

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Lunedì il governo del Senegal ha presentato un piano di sviluppo della durata di 25 anni che ha come principale obiettivo quello di porre le basi per la sovranità economica della Nazione, migliorando così la prosperità e le condizioni di vita della popolazione. Il piano punta a rendere il Senegal autosufficiente dal punto di vista energetico, aumentando l’accesso all’elettricità dall’84% al 100%, attraverso lo sviluppo dei giacimenti di petrolio e di gas nazionali e alla revisione dei termini dei contratti con le compagnie straniere. «Puntiamo a costruire un’economia diversificata e resiliente» ha affermato il presidente Bassirou Diomaye Faye, eletto con una schiacciante vittoria sette mesi fa con la promessa di migliorare le condizioni di vita degli abitanti del Senegal, restituendo allo Stato dell’Africa occidentale la sua sovranità e indipendenza dall’egemonia occidentale. Secondo Faye, «La nostra economia è stata neutralizzata da un modello di sfruttamento delle materie prime senza alcuna significativa trasformazione o valorizzazione locale, lasciando il nostro settore privato nazionale troppo debole e i nostri giovani talenti alla disperata ricerca di opportunità».

Il nuovo piano economico appena presentato, dunque, è l’inizio di quel percorso di rinnovamento promesso da Faye per avviare lo sviluppo di Dakar, dopo anni di sfruttamento coloniale. La trasformazione e i cambiamenti radicali all’insegna dell’indipendenza (anche monetaria) e dell’autonomia strategica promessi dal segretario del PASTEF (Patrioti Africani del Senegal per il Lavoro, l’Etica e la Fratellanza) – il partito dagli ideali panafricanisti ricostituito a marzo con la vittoria dello stesso Faye – rappresentano una vera e propria “rivoluzione” per il Senegal. La prima fase del piano economico costerà 30,1 miliardi di dollari e sarà attuata nel periodo 2025-2029, grazie ad un mix di finanziamenti pubblici, privati e di partenariato pubblico-privato. Questa prima parte del programma economico si basa su un tasso di crescita medio del 6,5% e un aumento del carico fiscale medio al 21,7%, come spiega l’agenzia di stampa britannica Reuters. Nell’ambito di questa strategia per la sovranità economica e l’indipendenza energetica, che rappresenta un punto fondamentale del programma elettorale di Faye, il governo del Paese africano ha istituito ad agosto una commissione di esperti del settore legale, fiscale ed energetico per rivedere i suoi contratti di petrolio e gas e lavorare per riequilibrarli nell’interesse nazionale. L’iniziativa è stata messa in atto subito dopo che la nazione è diventata produttrice di petrolio a giugno, quando l’australiana Woodside Energy ha avviato la produzione nel suo campo di petrolio e gas di Sangomar. Entro la fine dell’anno è previsto anche l’inizio della produzione di gas naturale liquefatto (GNL).

La presentazione del piano, tuttavia, avviene in un contesto difficile per il nuovo governo senegalese, ossia a circa un mese dalle elezioni parlamentari anticipate. A settembre, infatti, il presidente ha dovuto sciogliere il parlamento, in quanto messo in difficoltà dall’Assemblea nazionale – dove il partito di Faye ha solo 26 seggi – che gli impedisce di mettere in atto le riforme promesse nel programma elettorale, tra cui la lotta alla corruzione, il ripristino della «sovranità nazionale» e la stessa rinegoziazione dei contratti minerari con le società straniere. «Sciolgo l’assemblea nazionale per chiedere al popolo sovrano i mezzi istituzionali per realizzare la trasformazione sistemica che ho promesso di realizzare», aveva affermato Faye nel suo breve discorso, fissando la data delle elezioni il prossimo 17 novembre.

Anche il Senegal rientra in quei Paesi dell’Africa Subsahariana che stanno lottando per affrancarsi dall’egemonia occidentale e in particolare dall’influenza francese (Dakar ha ottenuto l’indipendenza da Parigi nel 1960): le nazioni del Sahel, infatti, sono teatro di un grande fermento politico, economico e geostrategico che ha portato, dal 2020 in avanti, anche a diversi colpi di Stato con l’intento di sostituire i governi filoccidentali con giunte militari ostili alle ingerenze politiche europee – e in particolare francesi – e americane nell’area. Tra i Paesi dove si sono verificati i golpe rientrano Burkina Faso, Mali e Niger. Questi tre Stati  hanno dato vita all’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) con l’obiettivo di affrancarsi dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS)  e soprattutto di costruire una comunità libera dal controllo di potenze straniere. Allo stesso tempo, in diversi di questi Paesi le truppe francesi e americane sono state espulse, mentre le nazioni dell’Africa occidentale guardano con sempre maggiore interesse alla Russia con la quale stanno stringendo accordi economici e militari. In Senegal, la “rivoluzione” è avvenuta con elezioni regolari, segno che la popolazione africana è animata dalla voglia di rinnovamento e di riscatto. Tuttavia, la strada del cambiamento iniziata a Dakar lo scorso marzo è messa in difficoltà da un’opposizione che evidentemente strizza l’occhio all’interesse di multinazionali e Paesi stranieri, rallentando così potenzialmente quella trasformazione promossa da Faye e da Ousmane Sonko (attuale primo ministro) all’insegna dei principi del panafricanismo e del socialismo.

[di Giorgia Audiello]

Un pianeta racconta come potrebbe essere la Terra fra 8 miliardi di anni

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Gelida, arida, totalmente inospitale per la vita e situata oltre l’orbita di Marte, ruotando intorno a un Sole ormai invecchiato e trasformato in una nana bianca: è il viaggio nel futuro offerto dalle immagini ottenute dal telescopio Keck e inserite in uno studio condotto da ricercatori dell’Università della California (UC) a Berkeley, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Astronomy. Tali risultati sono stati ottenuti grazie alle analisi condotte su un pianeta simile al nostro e situato a 4.000 anni luce di distanza che, scoperto grazie a un raro fenomeno chiamato “microlensing”, ci permette di gettare uno sguardo verso il nostro futuro: sulla Terra l’umanità potrà rimanere al massimo per un altro miliardo di anni ma, come spiegano i ricercatori, con l’espansione del Sole potremmo spostarci e colonizzare le lune di Giove, che diventeranno potenzialmente abitabili e ricche di oceani.

Immagini dell’area dell’evento di microlensing, indicata da linee bianche perpendicolari, anni prima dell’evento (a), poco dopo il picco di ingrandimento della stella di sfondo nel 2020 (b) e nel 2023 dopo la sua scomparsa (c). Il sistema planetario con una nana bianca, un pianeta simile alla Terra e una nana bruna non può essere visto; il punto di luce in (c) proviene dalla stella sorgente di sfondo che non è più ingrandita. Credit: OGLE, CFHT, WM Keck Observatory

Il sistema, costituito da una nana bianca, da un pianeta simile alla Terra e da almeno un altro corpo celeste ancora da classificare, è stato scoperto grazie al fenomeno chiamato “microlensing”: si tratta di un evento in cui la luce di una stella lontana viene amplificata a causa di un oggetto interposto – in questo caso la nana bianca del sistema poi analizzato – che spesso, spiegano i ricercatori, permette agli astronomi di rilevare oggetti che altrimenti sarebbero invisibili. Secondo le analisi, il passaggio del sistema planetario davanti a una stella più grande ha aumentato la luce di quest’ultima di un fattore 1.000, rendendo nulla la possibilità di non notarlo. «Il microlensing si è trasformato in un modo molto interessante di studiare altri sistemi stellari che non possono essere osservati e rilevati con i mezzi convenzionali, vale a dire il metodo del transito o il metodo della velocità radiale. C’è un intero set di mondi che ora si stanno aprendo a noi attraverso il canale del microlensing, e ciò che è entusiasmante è che siamo sul punto di trovare configurazioni esotiche come questa», ha spiegato Joshua Bloom, astronomo dell’Università della California e coautore della ricerca. Gli studi successivi hanno mostrato che il corpo simile alla Terra si trovava a una distanza compresa tra 1 e 2 unità astronomiche dalla stella – ovvero circa il doppio della distanza Terra-Sole – e che presentava caratteristiche simili al nostro, consentendoci di inferire i diversi scenari possibili per il futuro del nostro pianeta.

È infatti noto che, nei prossimi miliardi di anni, il Sole si gonfierà come un pallone più grande dell’orbita terrestre odierna, inghiottendo Mercurio e Venere. Tuttavia, durante il processo perderà massa e offrirà ai pianeti come la Terra una piccola opportunità di sopravvivere “scappando”, ovvero ingrandendo l’orbita intorno al Sole. Alla fine però, gli strati esterni della gigante rossa saranno spazzati via per lasciare dietro di sé una densa nana bianca non più grande di un pianeta ma con la massa di una stella e, secondo le analisi effettuate, se la Terra sopravviverà entro quella data, probabilmente finirà in un’orbita doppia rispetto a quella attuale. «Non si sa se la vita possa sopravvivere sulla Terra durante quel periodo (di gigante rossa). Ma certamente la cosa più importante è che la Terra non venga inghiottita dal Sole quando diventa una gigante rossa. Questo sistema scoperto è un esempio di pianeta, probabilmente un pianeta simile alla Terra originariamente su un’orbita simile alla Terra, che è sopravvissuto alla fase di gigante rossa della sua stella ospite», ha affermato Jessica Lu, professoressa associata di astronomia presso la UC Berkeley e coautrice della ricerca. Tuttavia, anche se la Terra venisse inghiottita durante la fase di gigante rossa che inizierà entro un miliardo di anni, potrebbe esistere un rifugio situato nel sistema solare esterno: «Diverse lune di Giove, come Europa, Callisto e Ganimede, ed Encelado attorno a Saturno, sembrano avere oceani di acqua ghiacciata che probabilmente si scongeleranno man mano che gli strati esterni della gigante rossa si espandono. Quando il Sole diventerà una gigante rossa, la zona abitabile si sposterà attorno all’orbita di Giove e Saturno, e molte di queste lune diventeranno pianeti oceanici. Penso che, in quel caso, l’umanità potrebbe migrare là fuori», conclude Keming Zhang, un ex studente di dottorato presso l’UC Berkeley e anche lui coautore dello studio.

[di Roberto Demaio]

All’interno di un luogo che invecchia: lo spopolamento del Salento

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Secondo il rapporto Svimez del 2023, la popolazione italiana nel ventennio 2001-2022 è cresciuta di solo un milione e 858.000 individui, ma questo dato non riguarda l’intero paese, bensì denota un’ulteriore spaccatura tra Centro-Nord e Sud. La fascia centro-settentrionale della penisola, infatti, ha registrato una crescita di ben 2 milioni e 555.000 residenti, mentre il Sud ha segnato una decrescita di 698.000 unità. A questo dato, si aggiunge il fatto che nello stesso lasso di tempo, 2 milioni di persone hanno lasciato il Mezzogiorno, stabilendosi (81%) al nord, mentre soltanto la metà ha fat...

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