Continua la battaglia tra governo Meloni e magistratura sulla deportazione dei migranti in Albania. La sezione migrazione del Tribunale di Roma ha infatti sospeso la convalida del trattenimento degli ultimi sette migranti approdati in Albania, perché provenienti da Bangladesh ed Egitto. È la seconda volta in meno di un mese che i giudici annullano le misure sui migranti spediti da Roma a Tirana e la prima dall’emanazione del cosiddetto decreto “Paesi sicuri”. In occasione del primo rimpatrio si erano espressi diversi tribunali, che avevano contestato le ordinanze di trattenimento all’esecutivo poiché i migranti non provenivano da Paesi giudicati sicuri secondo una recente sentenza UE. Meloni ha dunque varato un decreto legge specifico per ovviare al problema, nel tentativo di imporre il cosiddetto modello di “esternalizzazione”. Che, però, non è bastato a evitare l’ennesimo stop.
Per il tribunale di Roma, anche il decreto “Paesi sicuri” si pone in contrasto con le norme europee, dal momento che Bangladesh ed Egitto, i due Paesi di provenienza dei sette migranti trasferiti in Albania, non possono essere considerati sicuri in tutto il loro territorio e verso qualsiasi persona. A dettagliare le ragioni alla base della pronuncia è una nota diramata dalla presidente della sezione immigrazione del Tribunale, in cui si legge che «i criteri per la designazione di uno Stato come Paese di origine sicuro sono stabiliti dal diritto dell’Unione europea» e pertanto, «ferme le prerogative del legislatore nazionale, il giudice ha il dovere di verificare sempre e in concreto» la «corretta applicazione del diritto dell’Unione, che, notoriamente, prevale sulla legge nazionale ove con esso incompatibile, come previsto anche dalla Costituzione italiana». A ogni modo, il Tribunale non ha disapplicato direttamente la norma interna in contrasto con quella europea, scegliendo invece di sospendere il provvedimento di convalida del trattenimento e rimettere il caso alla Corte di giustizia europea. A quest’ultima si chiede se la direttiva consenta a uno Stato la formazione di liste di Paesi di origine “sicuri”, se possa farlo «senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate», se il giudice possa attingere alle informazioni sul Paese di provenienza dai rapporti dell’agenzia ONU per i rifugiati e di altri organismi internazionali e, infine, se un Paese possa essere reputato “sicuro” anche ove vi siano «categorie di persone per le quali esso non soddisfa le condizioni sostanziali».
La palla passerà anche alla Corte di Cassazione, che il prossimo 4 dicembre dovrà rendere il parere che il Tribunale di Roma le ha richiesto per sapere se debba volta per volta toccare al giudice della convalida sancire che l’indicazione di un Paese d’origine come “sicuro” corrisponda ai parametri sanciti dalla direttiva europea. Gli ermellini dovranno inoltre esprimersi sul ricorso presentato dal Ministero dell’Interno contro la mancata convalida dei primi 12 trattenimenti in Albania di metà ottobre. Secondo il Viminale, infatti, l’ordinanza sarebbe viziata, poiché non avrebbe applicato la norma italiana sui “Paesi sicuri” e avrebbe «travisato» la sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia europea, in cui si è stabilito che il diritto UE non consente attualmente agli Stati membri di designare come Paese sicuro «solo una parte del territorio del Paese terzo interessato». Secondo il dicastero retto da Matteo Piantedosi, il tribunale avrebbe dovuto valutare caso per caso i motivi gravi per i quali i singoli richiedenti asilo non potevano essere riportati nel loro Paese d’origine, spiegando i motivi delle mancate convalide dei trattenimenti.
Per correre ai ripari, il governo italiano ha allora approvato un decreto legge, entrato in vigore il 24 ottobre, che ha confermato per la maggior parte la lista di Stati considerati sicuri, eliminando Camerun, Colombia e Nigeria. I fatti hanno però dimostrato che l’effetto sperato non è stato ottenuto. C’è poi un tema legato a quella che appare, a tutti gli effetti, una pura battaglia di propaganda. «La questione è molto più ampia dell’Albania, perché i giudici dicono che non esistono paesi sicuri. Quindi comunico ufficialmente che nessun migrante potrà mai essere rimpatriato», aveva dichiarato Giorgia Meloni a poche ore dalle non convalide dei primi trattenimenti. A rimettere i puntini sulle i è stata però ancora la presidente della sezione immigrazione del Tribunale nella nota diffusa ieri: «Deve essere chiaro – ha scritto – che la designazione di Paese di origine sicuro è rilevante solo per l’individuazione delle procedure da applicare; l’esclusione di uno Stato dal novero dei Paesi di origine sicuri non impedisce il rimpatrio e/o l’espulsione della persona migrante la cui domanda di asilo sia stata respinta o che comunque sia priva dei requisiti di legge per restare in Italia». I rimpatri dipendono infatti solo dagli accordi con i Paesi d’origine.
Il tema del patto con l’Albania per il trasferimento dei migranti è evidentemente una questione su cui il governo Meloni ha investito molto da un punto di vista politico, mettendo sul piatto anche molto denaro. Si parla, infatti, di costi pari a 160 milioni di euro all’anno per ciascuno dei cinque anni della durata del Protocollo, portando così la cifra totale a ben 800 milioni di euro. I risultati paiono modesti anche al netto dell’intervento della magistratura: nonostante migliaia di arrivi, prima di vederseli tornare indietro, il governo era riuscito a imbarcare alla volta di Tirana poco più di venti persone. Alcuni dei quali, come è emerso dai primi controlli di accoglienza, non soddisfacevano nemmeno i requisiti necessari per essere trattenuti.
[di Stefano Baudino]