giovedì 26 Dicembre 2024
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I giudici contro il governo Meloni: la partita sulla “esternalizzazione” dei migranti

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Continua la battaglia tra governo Meloni e magistratura sulla deportazione dei migranti in Albania. La sezione migrazione del Tribunale di Roma ha infatti sospeso la convalida del trattenimento degli ultimi sette migranti approdati in Albania, perché provenienti da Bangladesh ed Egitto. È la seconda volta in meno di un mese che i giudici annullano le misure sui migranti spediti da Roma a Tirana e la prima dall’emanazione del cosiddetto decreto “Paesi sicuri”. In occasione del primo rimpatrio si erano espressi diversi tribunali, che avevano contestato le ordinanze di trattenimento all’esecutivo poiché i migranti non provenivano da Paesi giudicati sicuri secondo una recente sentenza UE. Meloni ha dunque varato un decreto legge specifico per ovviare al problema, nel tentativo di imporre il cosiddetto modello di “esternalizzazione”. Che, però, non è bastato a evitare l’ennesimo stop.

Per il tribunale di Roma, anche il decreto “Paesi sicuri” si pone in contrasto con le norme europee, dal momento che Bangladesh ed Egitto, i due Paesi di provenienza dei sette migranti trasferiti in Albania, non possono essere considerati sicuri in tutto il loro territorio e verso qualsiasi persona. A dettagliare le ragioni alla base della pronuncia è una nota diramata dalla presidente della sezione immigrazione del Tribunale, in cui si legge che «i criteri per la designazione di uno Stato come Paese di origine sicuro sono stabiliti dal diritto dell’Unione europea» e pertanto, «ferme le prerogative del legislatore nazionale, il giudice ha il dovere di verificare sempre e in concreto» la «corretta applicazione del diritto dell’Unione, che, notoriamente, prevale sulla legge nazionale ove con esso incompatibile, come previsto anche dalla Costituzione italiana». A ogni modo, il Tribunale non ha disapplicato direttamente la norma interna in contrasto con quella europea, scegliendo invece di sospendere il provvedimento di convalida del trattenimento e rimettere il caso alla Corte di giustizia europea. A quest’ultima si chiede se la direttiva consenta a uno Stato la formazione di liste di Paesi di origine “sicuri”, se possa farlo «senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate», se il giudice possa attingere alle informazioni sul Paese di provenienza dai rapporti dell’agenzia ONU per i rifugiati e di altri organismi internazionali e, infine, se un Paese possa essere reputato “sicuro” anche ove vi siano «categorie di persone per le quali esso non soddisfa le condizioni sostanziali».

La palla passerà anche alla Corte di Cassazione, che il prossimo 4 dicembre dovrà rendere il parere che il Tribunale di Roma le ha richiesto per sapere se debba volta per volta toccare al giudice della convalida sancire che l’indicazione di un Paese d’origine come “sicuro” corrisponda ai parametri sanciti dalla direttiva europea. Gli ermellini dovranno inoltre esprimersi sul ricorso presentato dal Ministero dell’Interno contro la mancata convalida dei primi 12 trattenimenti in Albania di metà ottobre. Secondo il Viminale, infatti, l’ordinanza sarebbe viziata, poiché non avrebbe applicato la norma italiana sui “Paesi sicuri” e avrebbe «travisato» la sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia europea, in cui si è stabilito che il diritto UE non consente attualmente agli Stati membri di designare come Paese sicuro «solo una parte del territorio del Paese terzo interessato». Secondo il dicastero retto da Matteo Piantedosi, il tribunale avrebbe dovuto valutare caso per caso i motivi gravi per i quali i singoli richiedenti asilo non potevano essere riportati nel loro Paese d’origine, spiegando i motivi delle mancate convalide dei trattenimenti.

Per correre ai ripari, il governo italiano ha allora approvato un decreto legge, entrato in vigore il 24 ottobre, che ha confermato per la maggior parte la lista di Stati considerati sicuri, eliminando Camerun, Colombia e Nigeria. I fatti hanno però dimostrato che l’effetto sperato non è stato ottenuto. C’è poi un tema legato a quella che appare, a tutti gli effetti, una pura battaglia di propaganda. «La questione è molto più ampia dell’Albania, perché i giudici dicono che non esistono paesi sicuri. Quindi comunico ufficialmente che nessun migrante potrà mai essere rimpatriato», aveva dichiarato Giorgia Meloni a poche ore dalle non convalide dei primi trattenimenti. A rimettere i puntini sulle i è stata però ancora la presidente della sezione immigrazione del Tribunale nella nota diffusa ieri: «Deve essere chiaro – ha scritto – che la designazione di Paese di origine sicuro è rilevante solo per l’individuazione delle procedure da applicare; l’esclusione di uno Stato dal novero dei Paesi di origine sicuri non impedisce il rimpatrio e/o l’espulsione della persona migrante la cui domanda di asilo sia stata respinta o che comunque sia priva dei requisiti di legge per restare in Italia». I rimpatri dipendono infatti solo dagli accordi con i Paesi d’origine.

Il tema del patto con l’Albania per il trasferimento dei migranti è evidentemente una questione su cui il governo Meloni ha investito molto da un punto di vista politico, mettendo sul piatto anche molto denaro. Si parla, infatti, di costi pari a 160 milioni di euro all’anno per ciascuno dei cinque anni della durata del Protocollo, portando così la cifra totale a ben 800 milioni di euro. I risultati paiono modesti anche al netto dell’intervento della magistratura: nonostante migliaia di arrivi, prima di vederseli tornare indietro, il governo era riuscito a imbarcare alla volta di Tirana poco più di venti persone. Alcuni dei quali, come è emerso dai primi controlli di accoglienza, non soddisfacevano nemmeno i requisiti necessari per essere trattenuti.

[di Stefano Baudino]

Senza darci il tempo per accorgercene, le nostre città stanno profondamente cambiando

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Ovunque nel mondo persone decidono, più o meno consapevolmente, di aggregarsi e vivere insieme, ripartendosi diritti e doveri, accatastandosi in edifici, in alcuni casi spaziosi e disposti tra loro orizzontalmente e in altri angusti e affastellati verticalmente. Ci possono sembrare indubbiamente remote quelle società pioniere che, durante la rivoluzione neolitica, scelsero di stanziarsi in comune accordo lungo i corsi dei fiumi, per poter usufruire dei primordiali servizi che l’acqua poteva donare loro. Agricoltura, commercio, religione, difesa, gerarchia furono solo alcune delle conseguenze d...

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Mense scolastiche, controlli dei NAS: irregolare una su quattro

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I carabinieri dei NAS hanno effettuato controlli all’interno delle mense delle scuole di ogni ordine e grado. D’intesa col ministero della Salute, gli specialisti hanno controllato 700 mense, appurando irregolarità in 170 (quasi 1 mensa su 4). I NAS hanno appurato varie criticità ad ampio raggio, tra cui carenze igienico-strutturali, mancanza di autorizzazioni, mancata segnalazione di allergeni, cibi non tracciabili e carenti per qualità e quantità. In tutto sono state accertate 225 violazioni amministrative o penali e sono state irrogate sanzioni per circa 130mila euro.

Amsterdam sta vietando tutte le manifestazioni per la Palestina e arresta chi partecipa

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In seguito agli scontri di giovedì 7 novembre ad Amsterdam, descritti dalla stampa mainstream in termini di “pogrom organizzati” e “caccia all’ebreo”, l’amministrazione della capitale olandese ha deciso di varare il pugno di ferro, vietando tutte le manifestazioni per la Palestina. I divieti dovevano inizialmente durare solo il fine settimana, ma sono già stati estesi fino a, almeno per ora, giovedì 14 novembre. In tanti hanno deciso di scendere comunque in piazza, ignorando il divieto, e rifiutandosi di «permettere che l’accusa di antisemitismo venga utilizzata come arma per sopprimere la resistenza palestinese». In risposta, le forze dell’ordine hanno arrestato almeno 50 manifestanti, pescando indiscriminatamente tra tutti i presenti, giornalisti, osservatori, politici, e membri del consiglio comunale compresi. Nel mentre, in sella ai cavalli e imbracciando gli sfollagente, le forze dell’ordine olandesi sembrano pattugliare la città fermando chiunque di remotamente collegabile alla Palestina.

Dopo i fatti di giovedì scorso, la tensione ad Amsterdam è aumentata notevolmente. La decisione di fermare tutte le iniziative a favore della Palestina è arrivata dalla stessa prima cittadina, Femke Halsema, lo scorso venerdì, e inizialmente doveva durare solo fino a domenica. Malgrado il divieto, diversi gruppi solidali con la causa palestinese hanno deciso di scendere comunque in piazza e di non farsi intimidire dall’iniziativa dell’amministrazione comunale. In particolare, i manifestanti, provenienti da varie aree del Paese, intendevano denunciare la scelta di Halsema di tacciare «gli eventi del 7 novembre come attacchi antisemiti» e contestare «il conseguente divieto draconiano di protestare nel fine settimana», giudicando strumentali sia le accuse che il divieto legati ai fatti avvenuti in occasione della partita di Europa League Ajax-Maccabi Tel Aviv. A riprova dei sospetti dei manifestanti, la corrispondente olandese di Al Jazeera, Step Vaessen, ha spiegato che «ad Amsterdam vietare le proteste è un evento unico», che «non si era mai verificato nell’ultimo anno, in cui si sono svolte molte proteste di solidarietà con i palestinesi».

I manifestanti si sono organizzati pubblicamente e riuniti in piazza Dam nel primo pomeriggio di domenica 10 novembre. Secondo i numeri forniti dalla polizia, si sarebbero presentate all’appello solo 340 persone. In occasione dell’iniziativa, le forze dell’ordine hanno schierato decine di agenti, che avrebbero fermato e identificato chiunque portasse simboli palestinesi. Mentre si tenevano la proteste, alcuni di essi sono entrati nel presidio con l’intento di strappare le bandiere palestinesi dalle mani dei presenti, facendosi strada coi pugni. In un video che gira in rete, si vede inoltre una squadra di agenti in tenuta antisommossa disperdere una folla di manifestanti situata in una via adiacente a piazza Dam, gettandone qualcuno a terra per tenerlo fermo. Stando a un primo bilancio, 50 persone sarebbero state arrestate e caricate su un bus (anche se altre fonti, tra cui la stessa Al Jazeera, parlano di 100 arresti), e 4 di esse, tra cui 2 minorenni, sarebbero ancora in custodia con l’accusa di atti violenti; 40 persone avrebbero ricevuto multe per condotta disordinata, mentre 10 sarebbero state sanzionate per reati come vandalismo.

Da una testimonianza video sembra sia stato inizialmente arrestato un giornalista, e pare siano stati presi anche politici, membri del consiglio comunale, e due osservatori; alcuni di essi sono stati rilasciati in seguito. Una signora è stata inoltre trasportata in ospedale, dopo essere stata colpita alla testa. La sera, poi, su una strada centrale della città, un gruppo di dieci persone è stato circondato da 8 agenti a cavallo, nonostante non pare stessero facendo niente; tra di essi era presente lo stesso politico autore di alcune delle testimonianze, il quale ha registrato la scena. In seguito al presidio, il Comune ha deciso di ampliare la messa al bando delle proteste fino a giovedì mattina.

Quello di Amsterdam è solo l’ultimo di una lunga lista di casi che vedono i Paesi europei vietare le manifestazioni di solidarietà alla Palestina, di cui l’Italia fornisce uno degli esempi più significativi. Nell’ultimo periodo, i casi di soppressione delle voci a sostegno della Palestina, stanno emergendo con più vigore. Solo il mese scorso, in Italia, è stata vietata la manifestazione nazionale di Roma del 5 ottobre. A Udine, invece, in occasione della partita di calcio Italia-Israele, è stato impedito a un corteo di sfilare vicino allo stadio, la cui zona circostante è stata completamente militarizzata.

[di Dario Lucisano]

Tiziano: a processo per aver pestato un poliziotto, ma i video smentiscono le accuse

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Il prossimo 14 novembre si svolgerà a Roma, in piazzale Clodio, l’udienza del processo di Tiziano Lovisolo, 24 anni, accusato di aggressione, lesione e resistenza a pubblico ufficiale, reati per i quali rischia fino a 4 anni di reclusione. Nel corso della manifestazione pro-Palestina svoltasi a Roma lo scorso 5 ottobre, infatti, Tiziano è stato protagonista di uno scontro con la polizia. Secondo la versione degli agenti, il ragazzo avrebbe causato la frattura del bacino di un dirigente della Digos, assestandogli anche alcuni calci una volta che questo era a terra. Le immagini diffuse nei giorni successivi alla vicenda, tuttavia, rivelano una dinamica ben diversa, e sembrerebbero mostrare come il ragazzo non abbia avuto alcun ruolo nella caduta dell’agente nè abbia cercato di aggredirlo in alcun modo. In attesa del processo, i compagni di Tiziano hanno lanciato una raccolta fondi per sostenere le spese legali e organizzato un presidio solidale di fronte al tribunale nel giorno dell’udienza, a partire dalle 11.30 del mattino.

Durante la manifestazione svoltasi a Roma, la polizia ha effettuato una carica contro i manifestanti che si trovavano in Piazzale Ostiense, dopo essere già intervenuta con gli idranti per cercare di disperdere la folla. Una ricostruzione dei fatti effettuata da INDEX (organizzazione indipendente che effettua inchieste video «contro la violenza di Stato») confrontando vari video disponibili online mostra come Tiziano si trovasse in mezzo alla folla e, alla carica degli agenti, abbia cercato di scappare. Le immagini del video mostrano che, mentre il ragazzo è di spalle, un agente in borghese cerca di afferrarlo e negli istanti seguenti entrambe cadono rovinosamente a terra. Non è chiaro cosa abbia causato la caduta, ma le immagini raccolte da INDEX mostrano chiaramente come il ragazzo non abbia alcun contatto con l’agente dal momento in cui entrambe perdono l’equilibrio e finiscono sull’asfalto, già bagnato per l’uso degli idranti. Al contrario, i video mostrano come sia un altro manifestante ad avvicinarsi e a sferrare alcuni calci a Luigi C., l’agente a terra, che uscirà dalla vicenda con una frattura al bacino e 40 giorni di prognosi. L’informativa di reato redatta dagli agenti della Digos e diffusa dalla ONG, tuttavia, accusa Tiziano di aver sferrato alcuni calci al poliziotto, approfittando della sua «posizione di minorata difesa».

Al momento, Tiziano si trova agli arresti domiciliari, in attesa dell’udienza del prossimo 14 novembre. «Ciò che è accaduto a Tiziano sarebbe potuto accadere a chiunque – dichiarano i suoi compagni – è stato il capro espiatorio su cui accanirsi per criminalizzare l’intera piazza che il 5 ottobre denunciava il genocidio e sosteneva la resistenza». Quel giorno, infatti, migliaia di persone provenienti da tutta Italia si erano ritrovate in piazza a Roma, nonostante il divieto del ministero dell’Interno, per protestare contro l’aggressione israeliana a Gaza e il genocidio della popolazione palestinese. «La repressione e la violenza che ha subito Tiziano e le altre persone fermate, perquisite e denunciate, ci deve servire per riflettere su come l’abuso di potere delle forze dell’ordine pervada questa società per innestare una narrazione filo sionista» proseguono i compagni del ragazzo, che hanno lanciato una raccolta fondi per aiutarlo a sostenere le ingenti spese legali. Nel caso venissero raccolti più soldi del necessario, fanno sapere, questi saranno donati a un’associazione che sostenga la causa palestinese.

[di Valeria Casolaro]

ITA Airways, trovato l’accordo per la vendita a Lufthansa

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Il ministero dell’economia e delle finanze italiano ha firmato l’accordo per la vendita della compagnia aerea ITA Airways alla società tedesca Lufthansa. Lufthansa acquisirà inizialmente il 41% della società, e si impegna ad acquistare il 100% di ITA Airways entro il 2033, con un investimento totale di 829 milioni di euro. La vendita era stata annunciata un anno fa, ma per venire approvata doveva rispettare una serie di condizioni relative alla concorrenza imposte dalla Commissione Europea, che sarebbero dovute essere comunicate entro lunedì 11 novembre. Il via libera è arrivato ieri sera, a qualche minuto dalla scadenza. Ora si attende l’approvazione definitiva dalla Commissione.

Corea del Nord, ratificato il trattato di partenariato con la Russia

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La Corea del Nord ha ratificato il “Trattato di partenariato strategico globale” firmato con la Russia a Pyongyang lo scorso 19 giugno. Il presidente russo, Vladimir Putin, aveva già ratificato il documento il 9 novembre. Tra le disposizioni principali, il trattato, entrato in vigore ieri, prevede la fornitura immediata di assistenza militare nel caso in cui una delle parti subisca un attacco armato, ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Entrambi i Paesi si impegnano, inoltre, a non stipulare accordi con Stati terzi che possano minacciare la sovranità, la sicurezza, l’integrità territoriale, o il diritto alla libera scelta e allo sviluppo politico, sociale, economico e culturale dell’altra parte.

La deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è diminuita di quasi il 31% rispetto al 2023

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La deforestazione dell'Amazzonia brasiliana ha raggiunto il tasso annuale più basso degli ultimi nove anni, con una riduzione del 30,6% rispetto alla precedente valutazione. Secondo i dati dell’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale del Brasile, tra agosto 2023 e luglio 2024 sono stati distrutti poco più di 6mila chilometri quadrati di foresta, una superficie comparabile a quella dello stato americano del Delaware. Un risultato ancora evidentemente migliorabile ma che, paragonato al passato,  rappresenta un passo avanti significativo nella lotta contro la distruzione della foresta pluviale...

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Nel Canale d’Otranto nasce la più grande zona di restrizione alla pesca del Mediterraneo

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La Commissione Generale della Pesca nel Mediterraneo, nel Canale d'Otranto tra Italia e Albania, ha istituito la più estesa zona di restrizione alla pesca del bacino del Mare Nostrum. La decisione, adottata all’unanimità, prevede il divieto alla pesca di fondo in un’area centrale di oltre 1.900 km2, e una forte riduzione della pesca in una zona cuscinetto di circa 700 km2. In gergo tecnico, ad essere istituita è stata una Fisheries Restricted Area (FRA), una misura che si inserisce in una visione più ampia che punta a una gestione sostenibile dell’intero Mediterraneo. La proposta di istituzion...

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Gli indigeni maori stanno marciando sulla capitale della Nuova Zelanda

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Centinaia di Maori hanno iniziato una grande marcia verso la capitale neozelandese, Wellington, per protestare contro un’iniziativa di legge che reinterpreterebbe il Trattato di Waitangi, il documento che da quasi duecento anni definisce le relazioni politiche tra il governo della Nuova Zelanda e la popolazione indigena. Il disegno di legge, introdotto da Associazione Consumatori e Contribuenti (ACT), un partito di minoranza del governo di centro-destra, è stato presentato la prima settimana di novembre e mira a rendere «più chiari, coerenti e specifici i principi del trattato», includendolo di fatto nella legislazione neozelandese e dando al parlamento il potere di ridefinirne i contenuti. Sin dal lancio della proposta, le proteste sono esplose in tutto il Paese e si sono intensificate dopo la decisione di anticipare la discussione di circa due settimane. Gli indigeni hanno così deciso di riunirsi nella parte settentrionale del Paese, a Capo Reinga, da dove marceranno per nove giorni verso sud, tenendo manifestazioni in villaggi e città neozelandesi.

La marcia del popolo Maori verso Wellington è iniziata all’alba di oggi, lunedì 11 novembre, in seguito a una cerimonia svoltasi a Capo Reinga. Sebbene la marcia sia stata lanciata in opposizione al disegno di legge attualmente sotto inchiesta parlamentare, gli organizzatori sperano che essa possa innescare un dibattito più ampio sulla relazione della Nuova Zelanda con i Maori. I manifestanti dovrebbero arrivare mercoledì ad Auckland, la più grande città della Nuova Zelanda, dove è in programma una grande manifestazione per la quale si attendono decine di migliaia di adesioni. In generale, gli organizzatori contano di raggiungere sempre più persone man mano che si spostano per il Paese. L’arrivo a Wellington è previsto per il prossimo martedì. Una serie di proteste era scoppiata già lo scorso giovedì 7 novembre, quando il governo neozelandese aveva deciso di anticipare la discussione della legge di circa due settimane. In quell’occasione i manifestanti si erano concentrati a Auckland, e un piccolo gruppo di indigeni era giunto anche nella stessa Wellington, davanti al palazzo del parlamento.

Il cosiddetto “Trattato sui Principi di legge” sancirebbe un’interpretazione più ristretta delle Carte di Waitangi. Esse sono state firmate nel 1840 e sono rimaste immutate fino al 1975, quando l’allora governo laburista approvò la “legge sul Trattato di Waitangi”. Questa stabiliva che il compito di interpretare i principi del Trattato spettasse al Tribunale di Waitangi, una commissione permanente di inchiesta istituita appositamente. Da allora, il Tribunale e il servizio pubblico hanno gradualmente elaborato questi principi, in modo autonomo rispetto alle istituzioni neozelandesi, rilasciando giudizi perlopiù non vincolanti in merito al loro rispetto da parte della Corona. Al di là delle questioni di merito, il Trattato sui Principi di legge intende inserire il Trattato di Waitangi nella legislazione del Paese, dando al parlamento il potere di cambiarne i principi e togliendo spazio al Tribunale di Waitangi. L’opposizione ha già dichiarato che non appoggerà la riforma e, almeno per ora, anche gli altri due partiti che formano il governo di maggioranza sembrano essere schierati contro ACT.

[di Dario Lucisano]