martedì 18 Novembre 2025
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Premio Nobel per la Chimica 2025 a Kitagawa, Robson e Yaghi

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Il Premio Nobel per la Chimica 2025 è assegnato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar M. Yaghi «per lo sviluppo di strutture metallo-organiche». Queste architetture molecolari formano cavità in cui molecole possono entrare e uscire: applicazioni concrete includono estrazione dell’acqua dall’aria in climi aridi, purificazione da sostanze inquinanti, cattura dell’anidride carbonica e stoccaggio di idrogeno. Con questo riconoscimento, si celebra non solo l’eleganza teorica, ma anche il potenziale rivoluzionario per sfide ambientali e energetiche globali.

Crosetto operato d’urgenza al colon, condizioni buone

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Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è stato sottoposto lunedì 8 ottobre a un intervento chirurgico presso l’ospedale Fatebenefratelli di Roma per l’asportazione di tre polipi al colon. Secondo il comunicato ufficiale del Ministero, l’operazione è andata a buon fine, senza complicazioni e Crosetto è vigile e stabile. L’equipe medica ha eseguito l’intervento con tecniche tradizionali, in un quadro clinico stabile e il ministro è stato seguito nelle ore successive in regime di degenza ordinaria. Il personale medico è in attesa dell’esame istologico per accertare la natura delle formazioni rimosse. Al momento non è stato comunicato alcun dettaglio ufficiale sui tempi di recupero né sull’eventuale ripresa dell’attività istituzionale del ministro.

Israele attacca illegalmente anche la nuova Flotilla: 150 arresti, 10 italiani

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Alle 04:34 del mattino, a circa 120 miglia nautiche, circa 220 chilometri, dalla costa di Gaza, l’esercito israeliano ha attaccato e intercettato le imbarcazioni della Freedom Flotilla Coalition (FFC) e della Thousand Madleens to Gaza (TMTG), che avevano lasciato i porti del sud Italia sabato 27 settembre. Nove navi, di cui otto a vela battenti bandiere italiana e francese e una motonave registrata a Timor Est, sono state circondate, abbordate e prese sotto controllo dalle forze navali israeliane. A bordo c’erano circa 150 persone, di cui dieci italiani, provenienti da 30 Paesi diversi, tra cui medici, giornalisti, volontari e alcuni funzionari eletti, tutti disarmati. Secondo quanto dichiarato dai coordinamenti delle due missioni, l’attacco è avvenuto in acque internazionali, al di fuori di ogni giurisdizione israeliana, e si è concluso con il sequestro dei membri dell’equipaggio e degli aiuti umanitari destinati agli ospedali di Gaza, per un valore stimato di oltre 110.000 dollari in medicinali, attrezzature respiratorie e forniture alimentari. La nota diffusa dalla Freedom Flotilla Coalition accusa Israele di aver commesso un atto di pirateria e di aver violato apertamente il diritto internazionale del mare. «I nostri volontari non sono soggetti alla giurisdizione israeliana – si legge – e non possono essere criminalizzati per aver partecipato a una missione umanitaria in acque internazionali». La sorte degli equipaggi rimane incerta: secondo le fonti della Coalizione, i contatti radio sono stati interrotti subito dopo l’abbordaggio e le comunicazioni oscurate. L’intervento, descritto come «un sequestro in piena regola», avrebbe avuto luogo senza alcuna avvertenza o negoziazione preliminare. Tel Aviv ha confermato l’operazione, parlando di un’azione «necessaria per impedire la violazione del blocco navale imposto su Gaza». Fonti militari israeliane affermano che le imbarcazioni sono state scortate in un porto israeliano e che i passeggeri «sono in buone condizioni e saranno rimpatriati appena possibile».

La Freedom Flotilla Coalition e la Thousand Madleens to Gaza denunciano una «deliberata escalation militare» da parte di Israele, ricordando che si tratta del quarto episodio di questo tipo in meno di un anno. I coordinatori delle missioni sottolineano come questo attacco segua il sequestro della Global Sumud Flotilla, della Handala e della Madleen, e l’attacco con droni israeliani alla nave Conscience nelle acque europee nei mesi scorsi. In tutte le circostanze, civili disarmati sono stati intercettati o detenuti mentre tentavano di consegnare aiuti umanitari a Gaza. «Israele continua ad agire nella totale impunità», scrive il Coordinamento Thousand Madleens Italia, sfidando «gli ordini vincolanti della Corte Internazionale di Giustizia che impongono l’apertura di corridoi umanitari e l’accesso senza ostacoli alla Striscia». La dichiarazione accusa inoltre i governi occidentali di un «fallimento totale» nell’applicare e nel far rispettare il diritto internazionale oltre che a tutelare i civili impegnati in missioni umanitarie. A livello diplomatico, la reazione europea appare cauta. Alcuni parlamentari italiani e francesi chiedono l’intervento urgente dell’Unione Europea per ottenere la liberazione dei volontari. A Roma, il Ministero degli Esteri ha dichiarato di «monitorare la situazione» e di essere «in contatto con le autorità israeliane». «L’Ambasciata ed il Consolato d’Italia a Tel Aviv stanno seguendo fin dall’alba il blocco della nuova Flotilla da parte della marina israeliana. Sono una decina gli italiani fermati. A loro verrà prestata tutta l’assistenza consolare necessaria con la richiesta al governo israeliano di garantire il rispetto dei diritti individuali fino al momento dell’espulsione. Al lavoro anche l’Unità di crisi della Farnesina», ha scritto su X il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. In Francia, un gruppo di deputati ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiarire le circostanze dell’attacco, tuttavia, nessuna condanna ufficiale è stata ancora formulata. Nel frattempo, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto l’apertura di un’indagine indipendente, sottolineando che l’abbordaggio in acque internazionali costituisce una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. L’episodio, osservano diversi analisti, rischia di aprire un nuovo fronte di tensione tra Israele e la comunità internazionale, già divisa sull’intervento militare nella Striscia e sulle accuse di genocidio.

La vicenda della Freedom Flotilla ripropone un copione già noto. Ogni volta che civili tentano di rompere simbolicamente l’assedio di Gaza, la risposta israeliana è immediata e sproporzionata. A oltre un decennio dal raid del 31 maggio 2010 contro la nave turca della Freedom Flotilla Mavi Marmara, costato la vita a dieci attivisti, Israele continua a rivendicare il diritto di bloccare qualsiasi accesso via mare, nonostante le condanne internazionali e le risoluzioni ONU. L’uso della forza in acque internazionali resta un punto di frattura giuridico e morale, ma la comunità internazionale evita di intervenire. L’indifferenza delle istituzioni internazionali alimenta un senso di impunità e svuota di valore le risoluzioni della Corte Internazionale di Giustizia, che da mesi impone a Israele l’apertura di corridoi umanitari verso Gaza. Intanto, mentre il mare si trasforma in un confine militarizzato, la protesta torna nelle strade. Già alla vigilia dell’attacco era partita la mobilitazione. «L’8 ottobre tutti in piazza» è stato l’appello diffuso sui canali social di Freedom Flotilla Coalition, Giovani Palestinesi Italia, Movimento Studenti Palestinesi in Italia e Unione Democratica Arabo-Palestinese. Gli attivisti avevano lanciato l’allarme: «Nelle prossime ore la seconda spedizione entrerà nelle acque internazionali vicino a Gaza, dove esiste il concreto rischio che venga intercettata e sequestrata dalle forze israeliane come accaduto in passato», un chiaro riferimento all’intercettazione della Sumud avvenuta pochi giorni prima. Da Nord a Sud, in Italia si moltiplicano i presidi e le manifestazioni di solidarietà. Mentre i governi occidentali restano fermi su una linea di “equilibrio diplomatico”, migliaia di persone tornano a manifestare per chiedere la fine del blocco e la libertà dei civili trattenuti. L’eco delle piazze italiane accompagna un silenzio istituzionale sempre più assordante. Nel Mediterraneo, la solidarietà civile continua a essere criminalizzata; sulla terraferma, si alza una voce che tenta di rompere l’assedio mediatico. In questo spazio sospeso tra mare e piazza, si misura la distanza tra la legalità proclamata e quella negata, tra la retorica umanitaria e la realtà di un’umanità lasciata sola a resistere.

ISTAT: in Italia una famiglia su tre costretta a tagliare le spese alimentari

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Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2024 il 31,1% delle famiglie italiane è stato costretto a tagliare per le spese alimentari, diminuendo quantità o qualità del cibo acquistato. Il dato, in continuità con quello dell’anno precedente, disegna un quadro analogo anche per quanto riguarda le bevande. In generale, la spesa media mensile per i consumi è rimasta la stessa del 2023, ma in parallelo è diminuito il potere d’acquisto. Forte il divario tra Nord e Sud: secondo i dati, nel Nordest si spendono in media 834 euro in più rispetto al Meridione, con Puglia e Calabria che registrano i tassi medi di spesa mensile più bassi del Paese.

Se, infatti, nelle regioni nordorientali del Paese la spesa media si attesta sui 3.032 euro, in quelle meridionali la media è di 2.199 euro, con uno scarto pari al 37,9% – passando per i 2.999 del Centro, i 2.973 del Nordovest e i 2.321 delle Isole. Il divario tra le due zone del Paese supera dunque i livelli raggiunti durante il Covid, quando era sceso di qualche punto, per avvicinarsi nuovamente ai livelli del 2019 (37,7%). In Calabria e in Puglia, la media è la più bassa a livello nazionale, attestandosi rispettivamente a 2.075 e 2.000 euro mensili. Una significativa differenza è segnata anche dalla tipologia di spesa effettuata: in Meridione, dove le disponibilità economiche delle famiglie sono in linea generale minori, la spesa delle famiglie residenti si concentra su beni e servizi destinati ai bisogni primari (es. alimentari), mentre nel Centro-Nord è più elevata quella per servizi di ristorazione e alloggio, trasporti, ricreazione, sport e cultura.

In generale, se dal 2019 al 2024 la spesa per consumi delle famiglie è cresciuta del 7,6%, tale aumento è stato accompagnato da un aumento dell’inflazione del 18,5%. A questi dati va aggiunto quello secondo il quale le famiglie composte unicamente da italiani spendono in media un terzo in più (31,8%) di quelle composte solo da stranieri.

Federconsumatori commenta che il dato «non fa che confermare le preoccupazioni che manifestiamo da tempo sulle condizioni economiche delle famiglie, sempre più precarie, e su un andamento dei prezzi poco trasparente che, a seguito dell’impennata dei prezzi (motivata in parte dal caro energia), son rimasti su livelli troppo elevati, senza mai riposizionarsi in maniera adeguata al ribasso». Di fronte a questa situazione, prosegue Federconsumatori, sono dunque necessari provvedimenti urgenti, quali la rimodulazione dell’IVA sui generi di largo consumo (che potrebbe consentire un risparmio superiore ai 516 euro a famiglia all’anno), la creazione di un Fondo di contrasto alla povertà energetica e azioni più decise contro la povertà alimenare, stanziamento di fondi adeguati per il diritto alla sanità e allo studio, una riforma fiscale equa e il contrasto alla speculazione sui prezzi lungo le filiere.

L’oro supera i 4mila dollari l’oncia e fissa il record

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La corsa dell’oro non si ferma: i futures con scadenza dicembre hanno superato per la prima volta la soglia dei 4.000 dollari l’oncia, attestandosi a circa 4.006 dollari. Contestualmente, il prezzo spot si avvicina anch’esso a quota 3.982 dollari, con un rialzo dello 0,57%. Dietro il rally si celano incertezze globali: lo shutdown negli Stati Uniti, le tensioni geopolitiche, la guerra commerciale dei dazi, le turbolenze politiche in Francia e le attese sui tagli ai tassi da parte della Fed sono tra i fattori principali che alimentano la domanda del metallo come bene rifugio.

In 40 Paesi i finanziamenti ai combustibili fossili sono crollati dell’80% in tre anni

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I finanziamenti pubblici internazionali destinati ai combustibili fossili sono crollati drasticamente nei Paesi firmatari della Clean Energy Transition Partnership (CETP), un’alleanza nata alla COP26 di Glasgow nel 2021 per porre fine al sostegno pubblico all’energia fossile. I fondi stanziati da 40 Paesi membri (35 governi e 5 istituzioni pubbliche) sono calati fino al 78% nel 2024 rispetto alla media del periodo 2019–2021. Una diminuzione ancora più smaccata se si escludesse il contributo elargito alle proprie multinazionali petrolifere dagli Stati Uniti (usciti dall'accordo dopo l'insediame...

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“Il diritto internazionale conta fino a un certo punto” e altre amenità dette dal ministro Tajani

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In un Paese come l’Italia, la cui capitale dà il nome a uno dei più importanti trattati costitutivi della legge internazionale, ci si aspetterebbe che il rispetto del diritto internazionale funga da punto di riferimento centrale nella delineazione della politica estera nazionale. Eppure, non sembra essere così. «Il diritto internazionale conta fino a un certo punto», ha detto infatti il vicepremier Antonio Tajani, che ricopre quella carica che la politica estera del Paese dovrebbe dettarla. Una dichiarazione a dir poco controversa che ha scatenato diverse polemiche, ma che certamente non è la prima a venire rilasciata dall’autodefinitosi «ministro degli Esteri più sfigato della storia», specialmente quando si tratta di Palestina. Le coste di Gaza sono «territorio israeliano», lo Stato palestinese non può essere riconosciuto «perché non esiste», e nonostante le sanzioni statunitensi l’Italia non fornirà assistenza alla Relatrice speciale ONU per la Palestina Francesca Albanese, perché «non è stata sanzionata come cittadina italiana».

L’ultima dichiarazione di Tajani è stata rilasciata dal ministro degli Esteri durante una puntata del programma televisivo Porta a Porta. Tajani stava parlando del fermo che la marina israeliana ha imposto alle navi della Global Sumud Flotilla, e sul ruolo che l’Italia ha giocato nella tutela degli attivisti arrestati. Il ministro ha detto che l’Italia ha chiesto a Israele di abbordare le navi senza usare violenza, e di «non intercettarle in acque internazionali»; l’operazione, tuttavia, è avvenuta proprio in acque internazionali. Dalla sala è dunque giunta una domanda di chiarimento a riguardo. «Sì, credo che sia avvenuto in acque internazionali, ma molto vicino alla zona dove c’è il blocco navale», ha detto Tajani titubante. Perché il blocco navale, secondo il ministro, comincerebbe in acque internazionali. Interrogato sulla sua personale posizione riguardo alla legittimità del blocco, Tajani ha iniziato un giro di parole che è stato prontamente interrotto dal conduttore. Ripreso il discorso, Tajani ha tagliato corto: «Comunque quello che dice il diritto è importante fino a un certo punto. Lì c’è un’area di guerra. Israele non poteva permettere che qualcuno violasse il blocco navale perché sarebbe stato un segno di debolezza» e avrebbe favorito Hamas.

Le dichiarazioni del ministro hanno scatenato una ondata di polemiche, ma non sono le prime a destare scalpore. Sempre parlando della Flotilla, Tajani sosteneva che la missione avrebbe provocato una reazione di Israele perché prevedeva di entrare nel territorio dello Stato ebraico; le navi della Flotilla tuttavia navigavano in acque internazionali e contavano di sbarcare sui litorali gazawi, ossia in acque che il diritto internazionale riconosce alla Palestina. Il territorio marittimo palestinese è infatti tracciato in una dichiarazione del 2019, che risponde alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNLOCS), di cui la Palestina è firmataria dal 2015; la UNLOCS è il principale trattato internazionale che regola la gestione dei territori marittimi e riconosce come parte del territorio degli Stati tutte le acque entro le 12 miglia dalla costa. L’Italia stessa ha ratificato la Convenzione, e, con essa, oltre 160 Paesi. Lo stesso blocco navale su Gaza, inoltre, non è riconosciuto dalle istituzioni internazionali e, anche se lo fosse, non permetterebbe a Israele di bloccare imbarcazioni umanitarie o arrestare attivisti a bordo di navi che trasportano aiuti.

 

Nonostante l’illegalità del blocco, Tajani ha di fatto legittimato le operazioni israeliane sulle navi della GSF. Tajani ha così indirettamente legittimato lo stesso blocco navale su Gaza e scaricato la responsabilità degli attacchi israeliani sugli stessi attivisti. Il fatto che Tajani abbia indebitamente riconosciuto le acque gazawi come israeliane e il blocco navale come legale non stupisce se si considera che il ministro ha negato la stessa esistenza dello Stato palestinese: «Riconoscere lo Stato palestinese non è possibile perché non esiste uno Stato palestinese», ha detto, dimenticandosi non solo che la Palestina è riconosciuta da 157 Stati, ma che se manca dei requisiti per la sovranità è perché Israele glieli nega da decenni. Secondo il diritto internazionale, infatti, i requisiti fondamentali perché uno Stato possa dirsi sovrano sono tre: una popolazione permanente, un territorio definito e un governo che abbia potere su quel territorio in maniera indipendente; Israele caccia la popolazione dalle proprie case, occupa il territorio palestinese e impedisce all’amministrazione di esercitare i propri poteri.

Nel corso della puntata di Porta a Porta Tajani suggerisce che il diritto internazionale non sarebbe poi così importante quando si tratta di prove di forza. Una posizione che pare poco da ministro degli Esteri di uno Stato del G7, firmatario di tutte le maggiori carte e convenzioni internazionali e sui diritti umani. Di queste vale la pena ricordarne almeno una, lo Statuto di Roma, con cui è stata istituita la Corte Penale Internazionale: il fatto che a Roma sia stata firmata la carta fondamentale della CPI, tuttavia, sembra contare poco. Il ministro lo dimostrava lo scorso gennaio quando, dopo l’emissione di mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Gallant, affermava apertamente che l’Italia non avrebbe arrestato il premier israeliano se si fosse trovato in Italia. Secondo Tajani, non solo Netanyahu non sarebbe stato arrestato, ma la CPI sarebbe dovuta finire sotto inchiesta per le sue decisioni considerate politiche.

Non è stata invece considerata politica, o comunque degna di essere questionata, la scelta di sanzionare Francesca Albanese da parte degli Stati Uniti. Albanese è una cittadina italiana che ricopre un incarico internazionale presso le Nazioni Unite e in quanto tale dovrebbe ricevere un supporto diplomatico dal governo del proprio Paese. Secondo Tajani, tuttavia, l’Italia può fare poco, perché le sanzioni USA «non sono contro una cittadina italiana in quanto cittadina italiana» e sono unilaterali. Per assurdo, le stesse ragioni per cui Tajani sostiene che l’Italia non può fare nulla contro le sanzioni sono quelle per cui dovrebbe muoversi: le sanzioni ad Albanese violano infatti l’immunità funzionale della giurista garantita dall’incarico che ricopre.

Russia e India avviano una esercitazione militare

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Russia e India hanno avviato esercitazioni militari congiunte nello stato nord-occidentale del Rajasthan, in ‘India. Le esercitazioni denominate “Indra 2025” sono volte a migliorare le operazioni antiterrorismo congiunte; i militari si addestreranno in azioni tattiche congiunte, testeranno i sistemi di comunicazione e condivideranno pratiche per operazioni di combattimento con truppe miste. Si stanno svolgendo presso il poligono di Mahajan e proseguiranno fino al 15 ottobre.

Cronache dall’oblio: 9 guerre invisibili di cui non si parla

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Guerre invisibili

Non è il numero di bombe e purtroppo nemmeno il numero delle vittime a misurare la “vicinanza” di una guerra, ma la presenza – o meno – di notizie ed analisi nelle cronache quotidiane. Oggi che la guerra è tornata alle porte del Vecchio continente e che Israele porta avanti indisturbato il proprio piano genocidiario, senza più nemmeno nascondere la volontà di appropriarsi di terre che non gli appartengono, noi occidentali riusciamo comunque a vivere la nostra quotidianità senza grossi problemi. I pochi “fastidi” arrivano da chi queste guerre ce le ricorda, da chi scende in strada a manifestare per dissociarsi da ciò che accade e perché il proprio governo prenda posizione, da chi ha avuto il coraggio di rischiare tutto, imbarcandosi sulla Global Sumud Flotilla solo per l’idea di un futuro migliore e più umano. Raccontare le guerre in atto significa spezzare il silenzio; non per uno sterile esercizio di memoria, ma per restituire ai numeri e alle statistiche che parlano di esseri umani morti ammazzati da altri esseri umani, volti e storie che la narrazione mainstream aveva deciso che andassero dimenticate.

Secondo ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), un’ONG che raccoglie, codifica e mappa in tempo reale eventi di violenza politica e proteste in tutto il mondo, ad oggi i conflitti attivi nel mondo sono 56, coinvolgendo direttamente o indirettamente 92 Paesi. Noi ne abbiamo analizzati 9.

Sudan

Oggi, a causa del conflitto in Sudan, oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero. La foto è tratta da un campo profughi in Ciad

Era il 15 aprile del 2023, quando la milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF), guidata da Mohamed Hamdan Dagalo, attaccò basi dell’esercito regolare del Sudan (SAF) in tutto il Paese, trasformando in poche settimane Khartum e le province del Darfur in teatri di scontro urbano e rurale e riaccendendo un conflitto sopito che dura da anni. Questa guerra si innesta infatti su una storia – brutta – molto più lunga: il Darfur è stato teatro, dal 2003 in poi, di campagne governative contro popolazioni locali con milizie janjāwīd – filogovernative – accusate di crimini di massa e descritte da osservatori internazionali come atti assimilabili a genocidio. Proprio in questi giorni Ali Muhammad Ali Abd-Al-Rahman, uno dei leader del movimento janjāwīd, è stato condannato dalla Corte Penale Internazionale, colpevole di 27 capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra risalenti agli attacchi del 2003 e del 2004. Mentre ci sono ancora diversi processi in corso, è il primo leader militare ad essere condannato.

Oggi oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero, mentre quasi 30 milioni (più della metà della popolazione) necessitano di assistenza. Le vittime dirette e indirette (violenza, fame, malattie) sono difficili da contare: database e studi stimano cifre molto diverse — da alcune decine di migliaia (registrate da ACLED) a stime più alte che indicano decine di migliaia in più; studi epidemiologici locali segnalano centinaia di migliaia di decessi se si considera l’impatto totale sulla salute pubblica.

Etiopia

L’Etiopia è attraversata da un conflitto civile che affonda le radici in riforme politiche e tensioni etniche mai risolte. Nel novembre 2020 la guerra in ha trascinato il Paese in una spirale di violenza; l’accordo di Pretoria del 2 novembre 2022 ha fermato le ostilità principali, ma non ha ricomposto la fragile unità nazionale. Da allora il fronte si è spostato: nella regione di Amara le milizie si oppongono al governo, in Oromia continua la guerriglia dell’Oromo Liberation Army, e in altre regioni covano rivolte latenti.

Milizie ribelli dell’Oromo Liberation Army

Il bilancio umano resta drammatico: milioni di sfollati interni e rifugiati, comunità isolate, ospedali devastati e coltivazioni abbandonate. Più di 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza, e casi documentati di fame e malnutrizione mostrano come la guerra abbia aperto anche una carestia silenziosa. Organizzazioni indipendenti e internazionali, come ad esempio l’ufficio delle Nazioni Unite che coordina gli interventi umanitari nelle emergenze (OCHA) denunciano massacri, stupri di massa e detenzioni arbitrarie, segni di una violenza che non conosce tregua.

A livello politico, il governo di Abiy Ahmed tenta di ricostruire legittimità interna e sostegno internazionale, ma il Paese resta polarizzato, con un’economia piegata dalla guerra e giovani generazioni costrette a scegliere tra emigrazione, reclutamento o sopravvivenza quotidiana. In questo quadro, la pace non è un punto di arrivo, ma un traguardo ancora lontano.

Congo

Il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo è un braciere che si riaccende da decenni, ma negli ultimi due anni è esploso con nuova ferocia: la rinascita del gruppo M23 dal 2022 ha innescato un’ondata di offensive che alla fine del 2024 e all’inizio del 2025 ha spinto i ribelli sempre più vicino – e in alcuni casi dentro – città chiave come Goma e Bukavu.

Il teatro è l’est del Paese, un mosaico di milizie locali, forze governative e attori stranieri che si contendono controllo, influenza e risorse minerarie. Le accuse di sostegno ruandese all’M23 -respinte dal Ruanda stesso – hanno trasformato un conflitto locale in un nodo di tensione regionale che rischia di trascinare anche gli Stati vicini.

Milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria già prima dell’ultima ondata di violenze, che hanno spinto oltre un milione di persone a spostarsi nelle province della regione di Kivu per sfuggire agli attacchi. Le infrastrutture sanitarie ed economiche sono state devastate, con interruzioni nei rifornimenti e crescenti segnali di insicurezza alimentare.

Organizzazioni per i diritti segnalano abusi gravi: esecuzioni sommarie, stupri come arma di guerra e ostacoli sistematici all’assistenza elementi che hanno portato l’ONU e gruppi indipendenti a parlare di crimini di guerra. La guerra coniuga interessi locali e geopolitici: controllo dei minerali, rivalità etniche e politiche interne si sovrappongono, mentre la comunità internazionale fatica a imporre dei corridoi sicuri per i civili.

Birmania

Il colpo di Stato del 1° febbraio 2021 ha portato definitivamente verso il baratro un Paese già segnato dalla violenza: la giunta militare ha schiacciato il dissenso, e da allora proteste civili e scioperi si sono armati in una resistenza che ha preso forma con i People’s Defence Forces (PDF) e il Governo di Unità Nazionale.

Il conflitto è frammentato: vecchie armate ribelli si sono ricongiunte in vari fronti con formazioni locali e gruppi di resistenza; nei fatti la giunta militare controlla solo una porzione del territorio, mentre ribelli e milizie governano ampie aree rurali.
La strategia militare si è fatta brutale: raid aerei, incendi dei villaggi e attacchi contro ospedali e scuole hanno costellato il conflitto di crimini che organizzazioni internazionali definiscono come possibili crimini di guerra, sottolineando che i civili sono stati sistematicamente colpiti.

Il conto umano è enorme e in crescita: oltre 3 milioni di sfollati interni, una crisi alimentare che nel 2025 colpisce decine di milioni di persone e un accesso umanitario fortemente limitato. Le agenzie Onu pianificano di raggiungere 5,5 milioni di persone con il piano umanitario 2025, ma i fondi e i corridoi umanitari restano insufficienti.

Siria

La guerra in Siria è cominciata nel 2011 come sollevazione popolare contro Bashar al-Assad e si è rapidamente trasformata in un conflitto multilivello: frammentazione territoriale, milizie locali, jihadisti e attori stranieri che hanno fatto della Siria l’ennesimo campo di prova geopolitico. Nel corso degli anni il teatro siriano ha visto diversi interventi esterni: la Russia è entrata militarmente nel 2015 ribaltando l’equilibrio a favore di Assad; l’Iran e milizie alleate (fra cui Hezbollah) hanno consolidato la propria presenza sul terreno; la coalizione guidata dagli Stati Uniti era presente sul territorio formalmente per combattere l’Isis; la Turchia ha lanciato operazioni nel nord per attaccare le forze curde.

Le prime elezioni dopo la caduta di Assad, in Siria abbiamo visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi. I foto, Abu Mohammad al-Jolani

Il risultato è stato un territorio frammentato in diverse zone di controllo e una pace impossibile da negoziare centralmente. La fuga di Assad dopo le proteste del 2024 non ha cambiato le cose. Secondo l’ONU oltre 16,7 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria e, a fine 2024, più di 6 milioni di persone erano registrate come rifugiati all’estero, mentre oltre 7 milioni risultavano come sfollati interni. La crisi è una ferita aperta che si mescola con povertà, insicurezza alimentare e infrastrutture distrutte. Sui diritti umani, rapporti Onu e ong documentano bombardamenti di aree civili, detenzioni arbitrarie e altri crimini che hanno segnato la traiettoria della guerra; le stime delle vittime variano, ma indagini ufficiali e monitor indipendenti collocano le decine o centinaia di migliaia di morti e milioni di vite spezzate. A livello politico abbiamo appena assistito alle prime elezioni dopo la caduta di Assad, che hanno visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi, portando diversi osservatori internazionali a definirle come elezioni farsa, mentre viene rafforzata la posizione di Abu Mohammad al-Jolani, che, da ex jihadista è stato completamente riabilitato agli occhi dell’opinione pubblica.

Kurdistan

I Peshmerga, l’esercito curdo

Il Kurdistan non è uno Stato riconosciuto, ma una regione che si estende dalla Turchia all’Iran, passando per Iraq e Siria, abitata dai curdi, considerati come il più grande popolo al mondo senza uno Stato. La Kurdistan Region dell’Iraq è la più riconosciuta a livello istituzionale: è una regione federale riconosciuta dalla Costituzione irachena del 2005, con governo, parlamento e forze armate proprie (Peshmerga), con capitale Erbil. In Siria il progetto noto come Rojava ha creato dal 2012 una autonomia de-facto con strutture amministrative e militari proprie. In Turchia e Iran esistono ampie aree abitate da curdi ma senza nessuna autonomia, anzi: le rivendicazioni politiche della popolazione si scontrano con gli Stati nazionali in una storia di conflitto e repressione. In Turchia, la lotta tra lo Stato e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dura da oltre quarant’anni: attentati, operazioni militari su entrambi i lati del confine e campagne di sicurezza hanno segnato intere generazioni. Nel 2025 il PKK ha annunciato una svolta con una dichiarazione di cessate il fuoco e di abbandono della lotta armata, un segnale di cambiamento che resta però fragile, soprattutto per le mire di Ankara, con il governo che si è spinto più volte fino a negare l’esistenza dei curdi come gruppo etnico. In Siria le forze curde hanno giocato un ruolo decisivo contro l’Isis, ma la loro alleanza con Washington non ha cancellato l’ostilità turca né la complessità dei rapporti con Damasco: il nord-est è teatro di incidenti, negoziati intermittenti e tentativi di integrazione. L’Iraq ospita sia il governo regionale del Kurdistan, con i Peshmerga che difendono aree semi-autonome, sia basi storiche del PKK nel Qandil; le tensioni tra Baghdad, Erbil e attori esterni (Turchia, Iran) rendono instabile ogni tentativo di stabilizzare i rapporti, mentre la regione resta cruciale nelle strategie anti-ISIS.

Libia

Dalla caduta di Gheddafi nel 2011 il Paese si è frammentato in centri di potere locali e milizie, fino allo scivolamento in una guerra per fette di territorio e risorse. Dal 2014 la divisione est-ovest si è cristallizzata: da un lato l’autoproclamata Libyan National Army di Khalifa Haftar (appoggiata da reti e governi stranieri), dall’altro governi e coalizioni basate a Tripoli che hanno cercato legittimità internazionale. La spinta decisiva arrivò con l’offensiva di Haftar su Tripoli (2019–2020) e la reazione turca che riequilibrò il fronte; un cessate il fuoco mediato dall’ONU nell’ottobre 2020 frenò i combattimenti, ma non ha sanato la frattura politica. Restano forti interessi di potenze regionali e una costante competizione per il controllo del petrolio: l’energia resta la linfa economica del Paese e arma di pressione politica.

Tutto questo significa migliaia di sfollati interni, centinaia di migliaia di vulnerabili, e un’economia che dipende quasi esclusivamente dal petrolio, esposta a chiusure e blocchi delle produzioni che paralizzano servizi e stipendi. Senza un accordo politico inclusivo e garanzie internazionali sul controllo delle risorse, la tregua rimane fragile e la minaccia di una nuova esplosione di violenza – locale o regionale – resta alta.

Yemen

La guerra in Yemen è una ferita che non smette di sanguinare: esplosa quando gli Houthi presero Sana’a nel 2014 e degenerata con l’intervento della coalizione guidata dall’Arabia Saudita nel 2015, il conflitto ha trasformato il Paese martoriato tra i diversi fronti locali, ingerenze regionali e problemi economici. La guerra ha spezzato istituzioni e mercati: blocchi dei porti, restrizioni delle importazioni e interruzioni nel pagamento dei salari hanno spinto oltre 17 milioni di persone verso l’insicurezza alimentare grave, con i bambini che pagano, come sempre, il prezzo più alto.

Sul piano dei diritti, rapporti indipendenti documentano attacchi ripetuti contro ospedali, scuole e civili, detenzioni arbitrarie e pratiche che possono configurare crimini di guerra; l’accesso degli aiuti è spesso ostacolato da rischi e detenzioni di operatori.
Un’instabilità accresciuta anche dal ruolo degli Houti – che controllano il nord del Paese – a fianco dei palestinesi, che negli ultimi mesi ha portato ad attacchi e bombardamenti da parte degli Stati Uniti prima e di Israele poi.

Oggi la crisi è innanzitutto umanitaria: secondo le stime dell’ONU per il 2025 quasi 19,5 milioni di yemeniti hanno bisogno di assistenza e protezione: una popolazione intera esposta a fame, malattie e mancanza di servizi di base.

Nonostante pause e negoziati intermittenti, la pace resta lontana: senza corridoi protetti per i civili, finanziamenti stabili e una pressione diplomatica credibile che affronti le cause politiche del conflitto, l’emergenza yemenita continuerà a crescere e il conto umano a salire.

Nigeria

La guerra in Nigeria non è un unico fronte ma un intreccio di crisi che percorrono le diverse regioni del Paese. Nel nord-est Boko Haram e la sua costola ISWAP continuano ad alternare attentati, rapimenti e controllo di territori rurali, impedendo qualsiasi ritorno alla normalità. Nel nord-ovest le bande armate trasformano villaggi in obiettivi: furti, sequestri e attacchi a catena costringono intere comunità a spostarsi. Al centro-nord, tensioni tra pastori e agricoltori si sono trasformate in scontri, lasciando scie di vendette e sfollati. Nel sud-est cresce il separatismo e la pressione di gruppi come l’ESN/IPOB, mentre nel delta del Niger le milizie legate al petrolio continuano a saccheggiare risorse, aggravando corruzione e insicurezza.

Alla fine del 2024 si stimavano milioni di sfollati interni e centinaia di migliaia di persone dipendenti dagli aiuti. Intanto le scuole chiudono, le coltivazioni restano incustodite, le economie locali vengono svuotate e le forze di sicurezza appaiono spesso inefficaci o colluse, complicando qualsiasi risposta credibile.

Risolvere la crisi richiederebbe di andare oltre la forza per concepire interventi mirati per proteggere civili, ripristinare servizi essenziali, provare a riconciliare le diverse comunità e smantellare le economie illecite che alimentano la violenza. Senza questi obiettivi, ogni tregua rischia di essere solo un intervallo prima della prossima ondata di sangue.

Argentina, il neoliberismo di Milei devasta l’economia: dagli USA 20 miliardi per salvarlo

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«Non sono venuto a guidare buoi, sono venuto a risvegliare i leoni»: così Javier Milei, insediatosi al governo di Buenos Aires il 10 dicembre 2023, aveva sintetizzato l’approccio con cui era intenzionato a risollevare il Paese dalla cronica crisi economica che lo attanaglia. A meno di due anni dalla sua elezione, però, il presidente argentino si trova a fronteggiare l’ennesima crisi e a fare i conti con il fallimento della sua “rivoluzione libertaria”. L’economista ultraliberista, salito al potere incarnando l’immagine di un outsider antisistema, aveva promesso di «fare a pezzi lo Stato», abolire la burocrazia e restituire al mercato la piena sovranità. In nome della “libertà economica”, ha varato il Decreto de Necesidad y Urgencia n. 70/2023, noto come il Megadecreto, un provvedimento che ha permesso al governo di legiferare in circostanze di emergenza, con cui ha smantellato decine di leggi sociali e liberalizzato settori chiave come affitti, sanità, commercio estero e tutela ambientale, producendo una deregolamentazione selvaggia. Quella che doveva essere la “cura shock” per rilanciare l’economia si è trasformata in un esperimento sociale devastante. Nel giro di pochi mesi, i salari pubblici sono stati congelati, le sovvenzioni energetiche cancellate, il welfare ridimensionato. L’inflazione, pur in calo rispetto ai picchi iperbolici del 2023 in cui aveva toccato il picco del 211,4%, continua a divorare i redditi. Nel secondo trimestre 2025 il deficit ha superato i tre miliardi di dollari, trainato dal peso degli interessi sul debito. I generi di prima necessità aumentano di settimana in settimana, mentre il peso argentino crolla nuovamente sui mercati. Le classi medie, colpite da una tassazione indiretta crescente e dal taglio dei servizi, si impoveriscono; i ceti popolari scivolano nella miseria. Negli ultimi mesi, le strade di Buenos Aires e Córdoba sono tornate a riempirsi di manifestazioni, mentre sindacati e movimenti denunciano la “dittatura del mercato”.

L’Argentina vive una contraddizione feroce, ostaggio di un governo che predica la libertà, ma impone misure coercitive che cancellano tutele e diritti sociali. Milei si è presentato come l’uomo che avrebbe combattuto “la casta”, ma è finito per governare per conto di quei poteri finanziari che denunciava e che oggi lo sostengono. Il problema centrale è la bilancia dei pagamenti: nei prossimi tre anni l’Argentina dovrà onorare impegni esteri per oltre 45 miliardi di dollari, di cui 15 al Fondo Monetario Internazionale. Il presidente statunitense Donald Trump incontrerà Milei il 14 ottobre, durante la settimana in cui la Banca Mondiale e il FMI si riuniranno a Washington. Il 26 ottobre l’Argentina voterà per le elezioni legislative di medio termine, nelle quali il partito di destra di Milei punta a ottenere seggi per rafforzare la sua posizione di minoranza. Di fronte alla crisi e al rischio di un nuovo default, Washington è intervenuta con un’operazione tanto spettacolare quanto controversa: una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della Banca centrale e stabilizzarne il peso. L’annuncio, salutato da Milei come «un voto di fiducia dell’Occidente», porta la firma del segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, uomo di fiducia di Donald Trump e figura centrale della finanza speculativa internazionale. Dietro questo piano di “salvataggio”, si nasconde una trama di interessi privati che intreccia politica e alta finanza, promosso grazie alle pressioni di Rob Citrone, miliardario fondatore del fondo Discovery Capital e amico di lunga data di Bessent. I due si conoscono dai tempi in cui lavoravano insieme per George Soros: una rete di rapporti che ha attraversato decenni di investimenti globali, speculazioni e operazioni valutarie miliardarie. Già in passato, Citrone aveva convinto Bessent a operazioni rischiose – come la famosa scommessa sul dollaro contro lo yen – che gli fruttarono profitti enormi. Oggi, la storia sembra ripetersi, ma su scala geopolitica. Citrone è uno dei principali investitori nei titoli argentini: quando la politica di Milei ha iniziato a vacillare e il peso è crollato, le sue posizioni hanno rischiato di trasformarsi in perdite colossali. Da qui, secondo le fonti, la pressione su Bessent per ottenere un intervento di salvataggio. Poche settimane dopo, il Tesoro americano ha annunciato la linea di credito. I mercati hanno reagito immediatamente: i bond argentini, che stavano precipitando, hanno guadagnato fino al 20% in un giorno e chi li deteneva – tra cui lo stesso Citrone e diversi fondi vicini a Trump – ha incassato milioni. Nonostante le accuse di conflitto d’interesse, Bessent ha respinto ogni sospetto, sostenendo che l’obiettivo sia «stabilizzare un alleato dell’Occidente» e impedire che l’Argentina «cada nella sfera d’influenza cinese». Tuttavia, il sospetto rimane: la linea di credito americana appare meno come un atto di cooperazione e più come un’operazione di salvataggio per investitori privati legati alla Casa Bianca. Il piano, inoltre, non prevede stanziamenti a fondo perduto, ma condizioni dure: privatizzazioni accelerate, ulteriori tagli alla spesa pubblica e apertura completa al capitale straniero, legando Buenos Aires mani e piedi a Washington.

Il salvataggio americano ha offerto a Milei solo una tregua momentanea: il contesto economico resta instabile e la produzione industriale è in caduta libera, mentre il tasso di disoccupazione si è attestato al 7,6% nel secondo trimestre del 2025. L’economia argentina mostra segnali di stagnazione, con migliaia di piccole imprese chiuse dall’inizio del 2024 e consumi in forte calo. Pur essendo tecnicamente l’economia argentina uscita dalla recessione, la ripresa resta fragile e il mercato del lavoro risente della contrazione produttiva. I sussidi tagliati hanno provocato una crisi energetica nelle province del sud, mentre il costo dei trasporti e dei beni alimentari continua a crescere. Gli indicatori economici segnalano che la ripresa promessa dal governo non arriverà prima del 2026. Sul piano politico, Milei appare sempre più isolato. Il Congresso blocca molti dei suoi decreti, i governatori provinciali si ribellano ai tagli, i sindacati organizzano scioperi generali, mentre il suo elettorato inizia a disilludersi. Il sostegno statunitense, presentato come segno di forza, rischia di diventare un cappio politico: un governo che si proclama sovrano ma sopravvive solo grazie a un prestito straniero non può più dirsi indipendente. A livello internazionale, il caso argentino diventa emblematico. Per Washington, sostenere Milei significa difendere un modello economico che riduce lo Stato e privatizza tutto, ma che produce fame, disoccupazione e tensioni sociali. Per l’Occidente nel suo complesso, l’Argentina rappresenta un test: fino a che punto si può sostenere un esperimento neoliberista che genera instabilità e perdita di diritti? Dietro il linguaggio delle riforme e della libertà di mercato, si intravede una verità più amara: l’Argentina è diventata un laboratorio del neoliberismo estremo, dove la mano invisibile del mercato è manovrata da interessi ben visibili e spinge il Paese in una spirale di dipendenza e impoverimento.