sabato 23 Novembre 2024
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America Latina, un continente in bilico

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Nel 1981, commentando il crescente interesse dei sovietici per l’America Latina, l’ex presidente degli Stati Uniti Richard Nixon ben sintetizzò le coordinate della rilevanza della regione: posizione geografica, demografia, potenzialità economica. Tutti elementi su cui Washington, durante gli ultimi centocinquant’anni, ha tentato di mettere le mani a suon di interferenze, golpe e pressioni economiche, venendo dunque meno ai più basilari princìpi di libertà e autodeterminazione. Il protagonismo politico degli Stati Uniti, che considerano la regione il proprio cortile di casa, è oggi messo in dis...

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Israele compie un nuovo massacro in Cisgiordania, mentre allarga il fronte in Libano

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Nel silenzio generale della maggior parte dei media occidentali, Israele ha compiuto un nuovo massacro nella Cisgiordania occupata, sferrando uno dei più gravi e letali attacchi aerei degli ultimi decenni sul campo profughi di Tulkarem. Allo stesso tempo proseguono i bombardamenti sulla capitale libanese Beirut e in altre zone del Paese, dove le forze israeliane hanno ordinato l’evacuazione di 35 villaggi nell’area meridionale, allargando così il fronte delle operazioni. In Cisgiordania, sono diciotto i palestinesi uccisi ieri sera da una bomba che ha preso di mira un caffè dove, secondo le informazioni, erano riuniti numerosi giovani. L’esercito dello Stato ebraico non ha utilizzato un drone, ma un cacciabombardiere F -16 per compiere un attacco aereo considerato di eccezionale potenza: un’intera famiglia palestinese, la Khairoush, è stata uccisa dall’aggressione israeliana e i medici dell’ospedale Thabet Thabet hanno fatto sapere che decine di feriti sono arrivati in condizioni molto gravi presso la struttura sanitaria, testimoniando di aver ricevuto anche i corpi smembrati delle vittime.

Secondo quanto dichiarato dall’IDF, l’attacco avrebbe permesso l’uccisione del capo locale della rete di Hamas, Zahi Yaser Abd al-Razeq Oufi. Non ci sono, tuttavia, conferme a riguardo. Dallo scorso ottobre sono 716 i palestinesi ad essere stati uccisi dai coloni israeliani, secondo le autorità locali, nonostante in Cisgiordania il gruppo di resistenza palestinese Hamas non sia presente né politicamente né militarmente. L’orrore prosegue, dunque, non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, confinata nel cono d’ombra dell’informazione e dell’opinione pubblica internazionale, sebbene sia nel mirino dell’esercito e dei coloni israeliani che ambiscono a occupare porzioni sempre più ampie di territorio, costruendo nuovi insediamenti e violando così la risoluzione 2334 dell’ONU.

Parallelamente, Tel Aviv prosegue la sua offensiva contro il Libano, dove questa mattina ha ordinato l’evacuazione di ben 35 villaggi. Il portavoce in lingua araba dell’IDF ha scritto un avviso su X per la popolazione libanese: «Le Forze di Difesa non hanno intenzione di farvi del male; quindi, per la vostra sicurezza dovete evacuare immediatamente le vostre case e dirigervi a nord del fiume Awli. Salvate le vostre vite». Finora è stato intimato a quasi 90 villaggi nel sud di evacuare, così come a parti della periferia meridionale di Beirut. Tra la tarda serata di ieri e le prime ore del 4 ottobre, Israele ha poi portato avanti altre due offensive: una sul principale valico di frontiera tra Libano e Siria che, secondo quanto dichiarato dal ministro dei Trasporti libanese, Ali Hamieh, ha colpito l’interno del territorio libanese, creando un cratere largo quattro metri; l’altra nel sobborgo meridionale di Dahiye, a Beirut, roccaforte di Hezbollah. I bombardamenti sarebbero stati finalizzati ad eliminare Hashem Safieddine, il possibile successore dell’ex segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ucciso lo scorso 27 settembre. Non è ancora chiaro, tuttavia, se Safieddine abbia perso la vita o sia sopravvissuto: né l’esercito israeliano né Hezbollah hanno rilasciato dichiarazioni. Secondo le autorità libanesi, sono 1,2 milioni i libanesi sfollati a causa dell’incursione israeliana, mentre circa 2.000 persone sono state uccise dall’inizio degli attacchi israeliani in Libano nell’ultimo anno, la maggior parte dei quali nelle ultime due settimane.

Da parte loro, gli Stati Uniti hanno fatto sapere di appoggiare le operazioni di Israele contro Hezbollah, pur essendo consapevoli che ciò significa la possibilità di un conflitto allargato nella regione. «In definitiva, vogliamo vedere un cessate il fuoco e una risoluzione diplomatica, ma pensiamo che sia appropriato che Israele, a questo punto, assicuri alla giustizia i terroristi», ha affermato il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller. Similmente, il presidente americano Joe Biden ha detto che Washington sta discutendo con Israele le opzioni per rispondere all’attacco di Teheran avvenuto lo scorso martedì e ha avventatamente asserito che una di queste opzioni potrebbe includere l’attacco da parte di Tel Aviv alle strutture petrolifere dell’Iran, facendo così impennare i prezzi globali del petrolio. Dopo l’offensiva dello Stato ebraico su Beirut, la guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato che Teheran non farà marcia indietro e che risponderà risolutamente a eventuali ritorsioni israeliane: «La brillante azione delle nostre forze armate di un paio di notti fa è stata del tutto legale e legittima» ha affermato mentre celebrava nella capitale iraniana la cerimonia di commemorazione del defunto capo libanese di Hezbollah, Hassan Nasrallah.

Gli ultimi avvenimenti rischiano di scatenare una guerra totale nell’infuocato scenario mediorientale che con ogni probabilità converrebbe a Israele: Tel Aviv, infatti, otterrebbe l’appoggio e la difesa degli Stati Uniti, consolidando, da un lato, l’occupazione dei territori palestinesi e garantendosi, dall’altro, una nuova ondata di sanzioni contro l’Iran da parte dei suoi alleati occidentali. Allo stesso tempo, il massacro della popolazione di Gaza – che ad oggi conta più di 40.000 vittime – e l’eventuale occupazione dell’enclave palestinese finirebbero in secondo piano, coperti dalla guerra contro il cosiddetto Asse della Resistenza, definito da Netanyahu l’Asse del male.

[di Giorgia Audiello]

È morto Alberto Perino, volto storico della lotta No Tav

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È morto nella notte, all’età di 78 anni, lo storico leader del Movimento No Tav Alberto Perino, stroncato da una lunga malattia. Prima impiegato di banca e poi sindacalista della CGIL – organizzazione per la quale ha rivestito un ruolo dirigenziale –, Perino è stato in prima linea fin dalla fine degli anni Ottanta contro l’edificazione della linea ad alta velocità Torino-Lione, distinguendosi come insostituibile punto di riferimento all’interno del network di sigle e associazioni che, ancora oggi, portano avanti la battaglia.

“Discepolo” degli insegnamenti del Mahatma Gandhi e di don Viglongo, Perino ha sin da subito combinato il suo spirito pacifista con un impeto intrinsecamente battagliero e dedito al rifiuto del compromesso al ribasso. Dopo essere stato bersaglio dell’ennesimo avviso di garanzia, nel giugno del 2011, aveva dichiarato: «Mettiamo in conto anche la prigione ma resistiamo. Quando una legge è ingiusta, opporsi non è solo un diritto ma un dovere». Durante i momenti di maggiore tensione nell’ambito delle proteste No Tav, si è molto spesso trovato a esercitare il ruolo di mediatore tra manifestanti e forze dell’ordine. Poco più di tre mesi fa, il 15 giugno, Perino – seduto su una carrozzina e mostrando segnali di debolezza a causa della malattia che lo affliggeva – aveva personalmente preso parte alla manifestazione contro il Tav e le mafie che era andata in scena a Susa, parlando al microfono alla folla. È stata la sua ultima partecipazione pubblica.

Conosciuto a livello nazionale e anche internazionale per il suo strenuo impegno nella lotta contro il TAV Torino-Lione, nel 2015 Perino ottenne anche un voto in parlamento nelle elezioni per il nuovo presidente della Repubblica. I funerali, come da volere della sua famiglia, si svolgeranno in forma strettamente privata.

[di Stefano Baudino]

La Repubblica silura Molinari dopo mesi di proteste della redazione

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Terremoto a Repubblica: da lunedì prossimo, Maurizio Molinari non sarà più il direttore del quotidiano. Il suo posto sarà infatti preso da Mario Orfeo, attuale direttore di Rai 3. Cambia tutto anche ai vertici di GEDI, la società che edita il giornale: Maurizio Scanavino, attuale amministratore delegato, subentrerà a John Elkann come nuovo presidente. La notizia arriva in seguito a un periodo burrascoso, che la scorsa settimana ha visto il Comitato di redazione – che ad aprile aveva già sfiduciato Molinari – indire uno sciopero redazionale, lamentando «gravi ingerenze nell’attività giornalistica da parte dell’editore, delle aziende a lui riconducibili e di altri soggetti privati» avvenuti in occasione dell’evento “Italian Tech Week”, organizzato da Exor a Torino. Il Cdr aveva infatti contestato l’uscita, insieme al quotidiano, di un inserto di oltre 100 pagine con una serie di articoli apparentemente “giornalistici” ma, in realtà, pubblicati dietro compenso delle aziende.

«Il Gruppo Gedi rinnova i vertici e apre una nuova fase che punta sull’accelerazione della trasformazione digitale e sul miglioramento dei risultati economici attraverso una rigorosa gestione aziendale», si legge in una nota del gruppo. John Elkann, che abbandona la presidenza di Gedi, ne rimane azionista attraverso Exor. Molinari, silurato e sostituito da un nuovo direttore, resterà comunque a Repubblica in veste di editorialista e inviato. Quest’ultimo aveva perso ormai da molti mesi il controllo sulla propria redazione. La goccia che ha fatto definitivamente traboccare il vaso è stata l’ultima mobilitazione messa in atto dai giornalisti del quotidiano la scorsa settimana, sfociata in uno sciopero indetto dal Cdr per i giorni del 25 e del 26 settembre. La protesta è partita dopo una comunicazione arrivata ad alcuni membri della redazione da una dirigente di Exor, relativa alla descrizione del programma di “Italian Tech Week”, evento di Exor che si è tenuto a Torino, con la pianificazione dei pezzi dell’inserto in uscita il 25 settembre con Repubblica, in cui si sottolineava che di fatto, a “comandare”, dovessero essere gli sponsor. La mail era stata autorizzata dal vicedirettore con delega all’Economia, Walter Galbiati. In seguito alle vibranti proteste da parte della redazione aveva deciso di presentare le dimissioni, puntualmente respinte da Molinari (Galbiati si è poi “autosospeso”). La decisione del direttore aveva mandato su tutte le furie il Cdr, che, contestualmente, aveva scoperto un file in cui gli articoli dell’inserto venivano allineati ai relativi contributi finanziari da parte delle aziende coinvolte: la prova dell’ennesimo caso di commistione tra pubblicità e informazione, che presenta al lettore articoli brandizzati spacciandoli per “giornalistici”.

La situazione interna alla redazione è tesa da molto tempo. A gennaio, l’allora collaboratore di Repubblica Raffaele Oriani si era dimesso a causa della linea editoriale ritenuta eccessivamente piegata sulle posizioni israeliane in merito all’aggressione dell’IDF a Gaza. Successivamente, la direzione aveva bloccato la pubblicazione di un’intervista al cantante Ghali dopo Sanremo, giustificandosi affermando che non vi era stata risposta «sul 7 ottobre». Il Comitato di Redazione aveva pesantemente contestato la decisione, denunciando come in questo modo si umiliasse il lavoro dei giornalisti. Ad aprile, poi, il Cdr era passato alle vie di fatto, approvando a larga maggioranza (164 sì, 55 no e 35 astenuti) una mozione di sfiducia al direttore Maurizio Molinari e proclamando uno sciopero di 24 ore. L’episodio fu scatenato dalla decisione del direttore di mandare al macero 100 mila copie già pronte dell’inserto economico Affari&Finanza, in uscita lunedì 8 aprile, a causa dell’articolo di apertura, riguardante i legami economici tra Italia e Francia – tra cui il ruolo del governo italiano con Stellantis, presieduta dalla famiglia Elkann – che portava la firma di Giovanni Pons. Il pezzo fu sostituito da un articolo sullo stesso argomento, redatto da Galbiati, con titolo, catenaccio e parte del testo differenti. Non essendo vincolante, la votazione del Comitato non sfociò nelle dimissioni di Molinari. Che però, a distanza di sei mesi, sono arrivate.

[di Stefano Baudino]

Emilia Romagna ancora sott’acqua: evacuati in duemila

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A causa del maltempo che sta continuando a colpire l’Emilia-Romagna, nelle ore notturne il fiume Lamone ha aperto una falla a Traversara, frazione di Bagnacavallo (Ravenna), nello stesso punto della rotta del 19 settembre. L’acqua ha invaso i campi. All’opera ci sono i tecnici del Comune, la protezione civile e il consorzio di bonifica della Romagna occidentale. In Romagna sono duemila gli sfollati, tra Bagnacavallo (1.100) e poco meno a Faenza (ma ieri sera il sindaco ha revocato l’ordinanza di evacuazione), a cui si aggiungono i 120 tra Budrio e Molinella. Anche per la giornata di oggi rimane l’allerta rossa per rischio idrogeologico.

Anche Amnesty International protesta contro l’Italia per il divieto al corteo per Gaza

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Amnesty International scende in campo contro il divieto delle manifestazioni pro-Palestina, previste per sabato 5 ottobre, imposto dalla questura di Roma. L’organizzazione internazionale ha infatti evidenziato che il diritto di protesta è tutelato «da diverse disposizioni sui diritti umani» e, nello specifico, «dall’interazione dei diritti alla libertà di riunione pacifica e di espressione». Sottolineando che i propri osservatori saranno presenti alla manifestazione nella Capitale al fine di monitorare il regolare svolgimento della protesta, Amnesty ha scritto che ogni possibile limitazione rispetto al diritto di riunione pacifica «deve essere frutto di attenta valutazione specifica e deve a sua volta rispettare i principi di legalità, proporzionalità e necessità». Principi che, mette nero su bianco l’organizzazione, «non sembrano essere stati rispettati nel prendere questa decisione di diniego della piazza».

Nel comunicato, diramato mercoledì, Amnesty ha scritto che il principio fondamentale della «presunzione a favore delle assemblee pacifiche» obbliga i Paesi a «facilitare le assemblee» – comprese quelle «spontanee» -, nonché a «rimuovere gli ostacoli a partecipanti e a organizzatori, a dover giustificare pienamente qualsiasi tipo di restrizione venga applicata» e a «esercitare tolleranza e misura, anche nei confronti dei disagi». Nella nota si ricorda che, in Italia, l’articolo 17 della Costituzione afferma «un principio generale di presunzione a favore delle assemblee pubbliche, prevedendo un mero preavviso alle autorità competenti». Dunque, il regime di notifica «non dovrebbe essere in alcun modo utilizzato per controllare le proteste pacifiche, né per sanzionare coloro che le organizzano, compatibilmente anche con lo spirito originario della Costituzione». L’organizzazione sottolinea che gli Stati hanno anche «l’obbligo negativo di evitare interferenze ingiustificate con l’esercizio del diritto di riunione pacifica e l’obbligo positivo di proteggere coloro che esercitano il diritto e di facilitarne l’esercizio in modo da consentire a chi partecipa di riunirsi in sicurezza e di raggiungere i propri obiettivi». Per Amnesty, infatti, «possibili atti o espressioni di odio antisemita, che vanno condannati nella maniera più netta», così come «eventuali messaggi individuali di incitamento alla violenza», non si possono attribuire «anticipatamente e automaticamente alla maggioranza se non addirittura alla totalità della protesta». Amnesty ha concluso affermando che gli Stati «devono allineare pienamente le leggi nazionali con le leggi e gli standard internazionali sui diritti umani, abrogando o modificando sostanzialmente le disposizioni che vietano o criminalizzano i comportamenti che devono essere protetti», includendo anche la «abrogazione delle restrizioni ingiustificate poste sul tempo, sul luogo e sul contenuto delle assemblee, compresi i divieti generalizzati, delle limitazioni indebite dei diritti di protesta dei minori» come anche la «applicazione inappropriata delle leggi o dei programmi antiterrorismo e di sorveglianza illegale».

Nel frattempo, il TAR di Roma ha rigettato il ricorso contro il divieto, sancito dalla questura di Roma su indicazione del Ministero dell’Interno, del corteo per la Palestina. I movimenti pro-Gaza hanno però ribadito in un comunicato di non avere alcuna intenzione di farsi intimidire e di voler scendere comunque in piazza. Al culmine di questo scontro politico, di fronte ad un governo che intende vietare un diritto costituzionale motivandolo con mai specificati problemi di ordine pubblico, è arrivata la dichiarazione surreale dell’Unione Sindacale Italiana Carabinieri che, in buona sostanza, chiede di avere le mani libere contro gli studenti che saranno in piazza. Il segretario del sindacato ha definito i manifestanti «orde di malintenzionati delinquenti» e ha chiesto allo Stato di concedere «massima fiducia alle Forze di Polizia, anche attraverso dotazioni supplementari quali idranti, oltre ai già previsti equipaggiamenti».

[di Stefano Baudino]

Tangenti, perquisizioni in sedi ANAS: 9 indagati

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Ci sono 9 indagati, tra cui due funzionari ANAS, e si ipotizzano tangenti per circa 400mila euro nell’inchiesta aperta dalla Procura di Milano riguardante appalti per lavori stradali per circa 400 milioni di euro. Il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano ha effettuato ieri perquisizioni in diverse sedi dell’ANAS, che hanno coinvolto manager e funzionari. È stata perquisita anche la sede torinese del Consorzio stabile Sis, gestore di alcune tratte autostradali. Le accuse a carico degli indagati sono di corruzione, turbata libertà degli incanti e rivelazione di segreto d’ufficio.

 

 

Il Regno Unito ha ufficialmente chiuso la sua ultima centrale a carbone

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L'ultima centrale a carbone ancora in attività del Regno Unito ha i giorni contati. A stretto giro, l'impianto Ratcliffe-on-Soar, situato nel Nottinghamshire, chiuderà infatti i battenti per sempre dopo aver alimentato il paese per 57 anni. La decisione è parte di un piano di decarbonizzazione siglato dal governo britannico quasi un decennio fa e rappresenta la fine di un'era lunga 142 anni, iniziata con la prima centrale a carbone del mondo a Holborn Viaduct, Londra, nel lontano 1882.
Il Regno Unito diventa così il primo paese del G7 a dire addio a questa dibattuta fonte fossile, con un passo...

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La Bolivia travolta dagli incendi dichiara lo “stato di disastro nazionale”

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Con l’approvazione del decreto supremo 5235, il presidente della Bolivia, Luis Arce, ha dichiarato lunedì lo stato di disastro nazionale a causa degli incendi boschivi che stanno devastando in particolare la parte Est del Paese. Il governatorato di Santa Cruz – area maggiormente colpita dai roghi – ha infatti denunciato che, fino alla settimana scorsa, le fiamme hanno consumato oltre 7,2 milioni di ettari di foreste e praterie: si tratta del più grande disastro ambientale subito in questa regione, in cui risiede il 27% della popolazione nazionale e che rappresenta il motore economico e il principale centro agricolo e zootecnico del Paese. La Bolivia non è il solo Paese dell’America Latina a dover fronteggiare uno scenario che sembra sempre più incontrollabile: nel silenzio globale, infatti, in Brasile sono andati in fumo negli ultimi mesi quasi 370mila chilometri quadrati di foresta.

Il Decreto Supremo sottoscritto dal presidente della Bolivia ha la finalità di «proteggere l’ambiente, la salute e la vita delle persone, la biodiversità e le attività della popolazione boliviana a causa dell’entità degli incendi boschivi». La decisione è stata annunciata dalla ministra María Nela Prada a margine di una riunione tra il presidente Luis Arce, il governatore del dipartimento di Santa Cruz Mario Aguilera e i sindaci dei municipi maggiormente interessati al disastro. Nello specifico, il provvedimento prevede una modifica del bilancio con l’obiettivo di veicolare risorse extra alla lotta contro gli incendi, delegando ai dicasteri degli Esteri e della Pianificazione la gestione della cooperazione degli aiuti internazionali. «Ci sono responsabilità nella risposta agli incendi, in primo luogo dei governi municipali e dipartimentali e in terzo luogo del governo nazionale», ha affermato il vice ministro della Protezione civile, Juan Carlos Calvimontes. Il Centro Nacional de Monitoreo Contra Incendio ha reso noto che l’indice di qualità dell’aria (AQI) ha raggiunto quota 372, soglia considerata «estremamente negativa», che si porta dietro rischi di irritazione agli occhi e alla gola e criticità per le persone che soffrono di problemi respiratori. Oltre a quello di Santa Cruz, i dipartimenti più colpiti dagli incendi boschivi sono quelli di Beni e Pando. A detta delle autorità, l’origine di questi roghi, che hanno iniziato a propagarsi in primavera, sarebbe direttamente collegata alla deforestazione agricola per la coltivazione di soia e riso.

La gravità della situazione va però ben oltre i confini boliviani. Incendi incontrollabili stanno infatti devastando vaste aree del Brasile, comprese ampie parti della foresta Amazzonica, di quella Atlantica, della savana tropicale del Cerrado e del Pantanal, la più grande zona umida del mondo. Nel solo mese di agosto e nei primi giorni di settembre sono stati registrati oltre 45.400 incendi in Amazzonia, cifra che non si vedeva dal 2005. Nel complesso, quest’anno, gli incendi sono aumentati del 76% rispetto al 2022. Stando ai dati pubblicati dall’Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale del Brasile, dal primo gennaio al 3 settembre si sono verificati 70.402 incendi incontrollati nella porzione di foresta Amazzonica del Paese, incendi che, complessivamente, avrebbero interessato e distrutto una superficie superiore a quella dell’Italia, ben 369mila chilometri quadrati. La gran parte degli incendi è di origine dolosa. Essi sono infatti appiccati con l’obiettivo di sottrarre nuovo spazio alla natura per far posto a business legati all’agricoltura o all’allevamento. Azioni criminali i cui nefasti esiti sono resi più gravi rispetto agli altri anni dalla combinazione di forti venti, temperature elevate e scarse precipitazioni che sta colpendo ampie aree del territorio. Enormi distese di terra sono andate in fiamme anche in Ecuador, Paraguay e Perù.

[di Stefano Baudino]

Perché l’Everest è un rarissimo caso di montagna che continua a crescere ogni anno

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Scalare il monte Everest è sempre stato impegnativo, ma sembra che l’impresa stia diventando sempre più difficile: secondo nuovi calcoli, la vetta è ancora soggetta a processi geologici che influiscono sulla sua altezza, la quale sarebbe aumentata di 15-50 metri negli ultimi 89.000 anni e sta ancora incrementando a un ritmo di 0,1-0,5 millimetri l’anno. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da ricercatori dell’University College London e della China University of Geosciences, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla prestigiosissima rivista scientifica Nature Geoscience. Secondo gli scienziati, la causa del fenomeno sarebbe un cambiamento nel corso del fiume Arun, il quale ha messo in moto un processo geomorfologico estremamente raro che provocherebbe il continuo innalzamento. «Questo effetto non continuerà indefinitamente», avvertono però i ricercatori, che hanno aggiunto: «Il processo continuerà finché il sistema fluviale non raggiungerà un nuovo stato di equilibrio».

Il monte Everest è situato nella catena montuosa dell’Himalaya, al confine tra Nepal e Tibet, ed è la vetta più alta al mondo, con un’altezza di 8.849 metri, che attira continuamente alpinisti da tutto il mondo. Il sistema montuoso si è formato circa 50 milioni di anni fa a seguito della collisione tra il subcontinente indiano e la placca tettonica eurasiatica e, secondo la ricerca scientifica, continua a subire alterazioni dovute a movimenti tettonici, eruzioni vulcaniche e fenomeni erosivi. Tuttavia, secondo la nuova ricerca pubblicata su Nature Geoscience, a tali fenomeni si sarebbe aggiunto un evento estremamente raro, noto come “cattura del fiume”. Questo processo prevede che il corso di un fiume venga deviato a causa di erosione o spostamenti tettonici, portando a un cambiamento del suolo circostante.

Nel caso dell’Everest, lo studio suggerisce che circa 89.000 anni fa il corso superiore del fiume Arun – che si trova a nord del monte – sia fluito verso est sull’altopiano tibetano, fondendosi con il suo corso inferiore a seguito dell’erosione di quest’ultimo verso nord. Ciò, spiegano i ricercatori, avrebbe comportato che l’intera lunghezza del fiume Arun diventasse parte del sistema del fiume Kosi, situato nel Nepal orientale. Il tutto avrebbe provocato un aumento sostanziale dell’erosione fluviale nei pressi dell’Everest e il conseguente “rimbalzo isostatico”, ovvero la spinta dovuta alla rimozione del peso sulla crosta terrestre, che ha portato a un sollevamento del terreno circostante. Per comprendere meglio il processo, basta pensare a ciò che succede quando un oggetto pesante posato su un materasso viene rimosso: similmente, sarebbe avvenuto per il monte Everest con lo spostamento di materiale dovuto all’erosione causata dalla cattura del fiume. «A quel tempo, ci sarebbe stata un’enorme quantità di acqua aggiuntiva che scorreva attraverso il fiume Arun, e questo sarebbe stato in grado di trasportare più sedimenti ed erodere più roccia madre, e tagliare nel fondovalle», ha spiegato Matthew Fox, ricercatore dell’University College di Londra e coautore.

«Il nostro studio dimostra che anche la vetta più alta del mondo è soggetta a continui processi geologici che possono influenzare in modo misurabile la sua altezza in scale temporali geologiche relativamente brevi», anche se «questo effetto non continuerà indefinitamente», ha affermato il professor Jingen Dai, ricercatore della China University of Geosciences e coautore del documento. «Ciò che rende questo studio unico è la dimostrazione che l’erosione causata dalla cattura del fiume può provocare una risposta così drammatica nella superficie terrestre, con un’area grande quanto la Grande Londra che si solleva di alcune decine di metri nell’arco di decine di migliaia di anni, il che è un processo relativamente rapido», ha dichiarato il professor Mikaël Attal dell’Università di Edimburgo, non coinvolto nello studio. Ha aggiunto, però, che il fenomeno spiegherebbe solo una frazione dell’insolita altezza delle vette più alte dell’Himalaya, visto che anche altri meccanismi, come gli stress tettonici e la perdita dei ghiacciai, potrebbero causare un sollevamento. La dottoressa Elizabeth Dingle della Durham University, invece, ha affermato che i risultati della ricerca potrebbero essere «importanti» anche oltre l’Everest: «Si sa che altre catture di fiumi si sono verificate nell’Himalaya. Quindi sarebbe interessante sapere se effetti simili si sono conservati altrove o in altre catene montuose tettonicamente attive più in generale».

[di Roberto Demaio]