«Se attaccheremo, sarà un’operazione rapida, feroce e risolutiva, proprio come quei delinquenti terroristi attaccano i nostri AMATI cristiani!». Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha minacciato sul suo social Truth un raid in Nigeria per «spazzare via i terroristi islamici», responsabili del «massacro di migliaia di cristiani». Il leader statunitense ha paventato il blocco immediato di tutti gli aiuti americani e ha annunciato di aver ordinato al Pentagono di prepararsi a un’operazione «a colpi di arma da fuoco» se il governo nigeriano non metterà fine a quella che definisce una «minaccia esistenziale» al cristianesimo. La mossa ha provocato immediata sorpresa e reazione di Abuja, che respinge le accuse di Washington.
Su Truth, Trump ha puntato il dito contro il governo nigeriano accusandolo di tollerare l’uccisione di cristiani e ha puntato il dito contro i gruppi estremisti di Boko Haram e la Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico (ISWAP) come responsabili di «atrocità orribili» contro i cristiani. Il capo del Pentagono, Pete Hegseth, ha risposto prontamente al post presidenziale con un «Sì, signore» su X, ribadendo: «Il Dipartimento della Guerra si sta preparando per l’azione». Anche a bordo dell’Air Force One, il tycoon ha confermato la sua intenzione di inviare truppe in Nigeria o di effettuare raid aerei: «Potrebbe essere», ha spiegato Trump, «Stanno uccidendo un gran numero di cristiani, non permetteremo che ciò accada», ha aggiunto. Le minacce di Trump seguono l’attenzione posta dal senatore Ted Cruz all’inizio del mese, che ha accusato la Nigeria di consentire un “massacro” di cristiani.
Con oltre 240 milioni di abitanti, divisi tra musulmani e cristiani, la Nigeria è da anni teatro di violenze diffuse. Nel Nord-Est, Boko Haram e ISWAP hanno causato decine di migliaia di morti dal 2009, colpendo sia cristiani sia musulmani. Secondo i dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), tra gennaio 2020 e settembre 2025 si contano 11.862 attacchi contro civili e 20.409 vittime: 385 episodi hanno mirato a cristiani (317 morti) e 196 a musulmani (417). Gran parte della violenza, specie nel Nord-Ovest, deriva da banditi e milizie etniche. Dall’ascesa di Bola Tinubu nel 2023, si stimano 10.000 morti, centinaia di rapimenti e 3 milioni di sfollati. Le regioni di Benue e Plateau restano epicentro di uccisioni e distruzioni di scuole e luoghi di culto. Secondo la International Society for Civil Liberties and Rule of Law (Intersociety), oltre 52.000 cristiani sono stati uccisi dal 2009, mentre la violenza si espande verso Sud tra conflitti per la terra e risorse. Il presidente nigeriano Bola Ahmed Tinubu ha respinto il quadro delineato da Trump: «La libertà religiosa e la tolleranza sono state un principio fondamentale della nostra identità collettiva e lo rimarranno sempre». In un comunicato ufficiale, Abuja ha definito la minaccia come una tattica coercitiva, rilevando che la violenza nel Paese non colpisce solo cristiani, e che la sovranità nazionale non consente interventi unilaterali.
Dal punto di vista geopolitico, l’annuncio di Trump apre molti interrogativi. Washington, richiamando valori come la libertà religiosa, si pone come protettore dei cristiani in un’ottica che mescola politica estera, pressione ideologica e retorica evangelica che strizza l’occhio alla base MAGA. Sul piano geopolitico, l’iniziativa di Washington sembra rispondere più a calcoli di potenza che a preoccupazioni umanitarie. Le minacce di Trump giungono, infatti, in una fase in cui la Cina sta consolidando la propria presenza strategica in Nigeria e nell’Africa occidentale. L’aggiornamento delle relazioni bilaterali a partenariato strategico globale, l’istituzione di un comitato intergovernativo di cooperazione e le intese sul Global South hanno rafforzato il ruolo di Pechino come alleato privilegiato di Abuja. In questo quadro, la retorica americana sulla “difesa dei cristiani” rischia di fungere da pretesto per un intervento coercitivo volto a recuperare influenza politica ed economica in un’area sempre più orientata verso l’Eurasia. Tale approccio muscolare, basato sulla pressione e sulla forza, potrebbe inasprire le tensioni locali, compromettere la stabilità regionale e spingere ulteriormente la Nigeria – e con essa una parte dell’Africa occidentale – nell’orbita cinese.
La Germania ha consegnato nuovi sistemi di difesa “Patriot” all’Ucraina, rafforzando lo scudo antiaereo di Kiev, mentre la guerra si intensifica sul fronte orientale. La città di Pokrovsk, nel Donetsk, è divenuta il cuore dei combattimenti: Mosca rivendica l’accerchiamento della roccaforte, ma Kiev parla di “resistenza in condizioni estreme”. Droni russi hanno colpito obiettivi civili a Odessa e Dnipropetrovsk, causando vittime, mentre un attacco ucraino ha incendiato una petroliera nel porto russo di Tuapse. Contemporaneamente, sul fronte diplomatico-militare, l’Donald Trump ha dichiarato che l’invio dei missili a lungo raggio “Tomahawk” all’Ucraina «al momento non è in considerazione».
Il ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) ha revocato l’accreditamento del corso di formazione online per docenti La scuola non si arruola, previsto per il 4 novembre e promosso dal Centro Studi CESTES e dall’Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università. L’iniziativa, alla quale si erano già iscritti oltre mille insegnanti, intendeva affrontare i temi della pace, del riarmo e del ruolo della scuola di fronte ai conflitti. Il ministero ha motivato la decisione sostenendo che il corso «non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente» e che i contenuti proposti risultano «estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali». Gli organizzatori denunciano una grave violazione della libertà di formazione e di espressione del personale scolastico. I legali del CESTES, intanto, sono al lavoro per tutelare il diritto dei docenti a una formazione libera e consapevole.
Il corso avrebbe dovuto aprirsi con un intervento di Roberta Leoni, docente e presidente dell’Osservatorio, e avrebbe visto l’intervento di personalità quali Luciano Vasapollo (direttore del CESTES, Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali), Antonio Mazzeo (docente e giornalista), Marco Meotto (docente e ricercatore), Mjriam Abu Samra (ricercatrice e attivista italo-palestinese), Raffaele Spiga (di BDS Italia), Tommaso Marcon e Leonardo Cusmai (studenti, rispettivamente membri dei collettivi studenteschi OSA e Cambiare Rotta). Gli incontri avrebbero dovuto avere al centro temi quali la militarizzazione dell’istruzione e del sapere, repressione e decolonizzazione. La giornata non era stata scelta casualmente: il 4 novembre, infatti, si celebra la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, istituita con la legge n.27 del 1° marzo 2024 varata dall’attuale governo. In questa data, come sottolinea l’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole, i docenti vengono invitati ad accompaganre gli sutdenti in attività che esaltino i valori della patria e del sacrificio, «con particlare riferimento al primo conflitto mondiale».
«Si tratta invece, a nostro avviso, di un salto di qualità dell’ideologia militarista che porta dentro le scuole di ogni ordine e grado una forte ventata di nazionalismo, attraverso la retorica del compimento dell’unità nazionale, e di militarismo, con ampio ricorso alla retorica del sacrificio. La storia ci ricorda invece che la Prima Guerra Mondiale fu, per il nostro Paese, oltre che un atto di aggressione, una vera e propria carneficina», scrive l’Osservatorio. Un punto di vista di certo non condiviso dal MIM, che ha revocato l’iniziativa con la scusa l’attività era stata presentata come organizzata dall’Osservatorio (ente non accreditato presso il ministero) in collaborazione con il CESTES (ente accreditato) e non viceversa. Per l’Osservatorio, le motivazioni dietro alla decisione del MIM sono «politiche», dal momento che «ogni iniziativa nelle scuole e nelle università che contesti storicamente la equiparazione tra antisionismo e antisemitismo (in Parlamento hanno depositato una legge che trasforma le critiche allo Stato di Israele in una minaccia al popolo ebraico punibile dal Codice Penale) viene considerata una sorta di minaccia per un governo complice del genocidio».
L’Osservatorio ha deciso di “disobbedire” alle indicazioni del ministero e confermato il Convegno per la giornata del 4 novembre, con lo stesso programma. Non trattandosi di un evento accreditato presso il MIM, tuttavia, il personale scolastico che deciderà di prendervi parte non potrà chiedere un esonero dall’attività lavorativa per fini di formazione. A seguire, inoltre, è stata chiamata una mobilitazione che riguarderà decine di piazze in tutta Italia.
Nel cuore verde del Sud-Est asiatico, una rivoluzione silenziosa sta salvando le foreste tropicali. In 38 regioni dell’area, l’adozione della tecnica dell’agroforestazione – l’integrazione sistematica di alberi e arbusti nei paesaggi agricoli – ha provocato un’inversione di tendenza rispetto alla deforestazione selvaggia, che per anni ha minacciato questi territori. Secondo uno studio internazionale pubblicato su Nature Sustainability, grazie a questa pratica si è ottenuto, in media, un calo annuo della deforestazione pari all’1,08%. Questo risultato si è tradotto in una tutela aggiuntiva di oltre 250.000 ettari all’anno e una riduzione delle emissioni pari a quasi 59 milioni di tonnellate di CO2.
Lo studio, realizzato dalla National University of Singapore, dalla Vietnam National University di Hanoi e dalla Chulalongkorn University di Bangkok, ha analizzato i dati fra il 2015 e il 2023 in 38 regioni subnazionali. I ricercatori spiegano che l’agroforestazione porta benefici ramificati: maggiore biodiversità, suoli più sani, produttività agricola potenziata e, cosa cruciale nel contesto climatico, riduzione dell’emissione di anidride carbonica. La riduzione media dell’1,08% della deforestazione è stata osservata in 22 delle 38 regioni; nelle restanti 16, la deforestazione è aumentata, ma solo dello 0,64% in media. Le aree che hanno tratto maggior vantaggio sono state quelle con alte concentrazioni di carbonio (HCS, High Carbon Stock). I Paesi dove la pratica si è dimostrata più efficace includono il Laos, regioni del nord-Vietnam, il Myanmar settentrionale, il Borneo e la Malesia peninsulare. Al contrario, la Cambogia orientale ha registrato un aumento della deforestazione. Gli autori sottolineano che la chiave del successo è spesso la gestione comunitaria del territorio: ad esempio, in Indonesia le “aree forestali sociali” gestite dalle comunità sono passate da 1,8 milioni di ettari nel 2018 a 5 milioni nel 2022.
Questo risultato assume un rilievo particolare in un momento storico in cui l’azione per la tutela delle foreste tropicali è imprescindibile per mitigare il cambiamento climatico e preservare gli ecosistemi più fragili. Il Sud-Est asiatico ospita circa il 15% delle foreste naturali mondiali, ma negli ultimi vent’anni ha perso territori pari all’estensione della Thailandia. L’agroforestazione emerge come una strategia concreta: non solo fermare il disboscamento, ma facilitarne la riconversione in paesaggi produttivi sostenibili, combinando la tutela delle piante native con le coltivazioni agricole. I ricercatori avvertono che non tutte le esperienze sono uguali e che la mera introduzione di alberi non basta: servono diritti territoriali chiari, coinvolgimento della comunità locale e adeguati incentivi economici. Senza questi elementi, il rischio è che l’agroforestazione diventi un pretesto per un’espansione agricola che continua a spingere sull’ecosistema boschivo. La foresta non ha solo bisogno di essere protetta, ma può essere parte attiva del tessuto agricolo-ambientale, attraverso un sistema che unisca rigore, partecipazione e visione.
Nel nord-est del Belgio, tre droni di grandi dimensioni sono stati avvistati durante la notte sopra la base militare di Kleine Brogel Air Base, un sito tra quelli europei in cui potenzialmente sarebbero custodite armi nucleari statunitensi. Il ministro della Difesa belga Theo Francken ha definito l’episodio «non un normale sorvolo, ma una chiara missione di sorveglianza mirata». Le forze di polizia e l’aeronautica hanno seguito i velivoli senza però riuscire a intercettare i velivoli e le indagini sono tuttora in corso per risalire a provenienza e responsabilità.
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha annunciato la ricostruzione e il potenziamento degli impianti nucleari del Paese, precisando che l’obiettivo non riguarda la produzione di armi nucleari. Nel suo intervento, ha evidenziato che il programma atomico sarà rilanciato nel rispetto degli impegni internazionali e destinato esclusivamente a scopi civili. L’annuncio arriva in un contesto di crescenti tensioni regionali e di nuove sanzioni statunitensi. Pezeshkian ha inoltre sottolineato l’importanza del dialogo con le potenze occidentali e la necessità di garantire all’Iran il diritto allo sviluppo tecnologico e alla sovranità energetica.
La crisi tra Stati Uniti e Venezuela torna a infiammarsi. Nelle ultime ore, Washington ha dato il via al più imponente dispiegamento navale nel Mar dei Caraibi, dalla crisi dei missili di Cuba nel 1962: la portaerei USS Gerald Ford, la più grande della flotta americana, è salpata insieme ad altre tre navi da guerra con a bordo circa 4.000 militari. Il Pentagono parla di un’operazione contro il narcotraffico, ma il messaggio politico è chiaro: gli Stati Uniti vogliono mostrare i muscoli a Caracas. Nel frattempo, un raid aereo statunitense in acque internazionali ha colpito una nave sospettata di traffico di droga, causando la morte di tre persone.
Sebbene venerdì il presidente Donald Trump avesse dichiarato di non voler attaccare il Venezuela, smentendo le indiscrezioni del Wall Street Journal e del Miami Herald che avevano parlato di attacchi imminenti, la tensione continua a salire. Da settimane, gli Stati Uniti stanno rafforzando la loro presenza militare nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico orientale. Navi lanciamissili dotate di Tomahawk, caccia F/A-18 e aerei da guerra elettronica EA-18 Growler pattugliano la regione, mentre bombardieri B-52 e B-1 hanno condotto missioni di ricognizione a ridosso delle coste venezuelane. La vicina Repubblica di Trinidad e Tobago ha messo il proprio esercito in stato di allerta, temendo un’escalation. Sebbene, la Casa Bianca neghi piani di invasione, fonti interne citate dai media americani riferiscono che sarebbero già stati individuati porti e aeroporti venezuelani ritenuti “obiettivi sensibili” legati al traffico di droga.
Mentre le navi americane si avvicinano alle acque venezuelane, da Mosca arriva una presa di posizione. Il ministero degli Esteri russo, tramite la portavoce Maria Zakharova, ha denunciato sabato «l’uso eccessivo della forza militare» da parte degli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi, riaffermando il «sostegno alla leadership venezuelana nella tutela della sovranità nazionale». «Stiamo monitorando attentamente la situazione in Venezuela», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ribadendo che la Russia auspica una soluzione pacifica. La diplomazia si accompagna ai fatti: il presidente venezuelano Nicolás Maduroha inviato una richiesta formale di assistenza militare a Vladimir Putin, chiedendo sistemi radar difensivi, pezzi di ricambio per i caccia Sukhoi Su-30, motori e missili antiaerei. L’alleanza tra Caracas e Mosca non è nuova: i due Paesi hanno firmato a maggio un accordo di cooperazione strategica che comprende forniture energetiche, addestramento militare e tecnologia di difesa. Tuttavia, gli analisti restano cauti. La Russia, già impegnata sul fronte ucraino e limitata dalle sanzioni occidentali, potrebbe non disporre delle risorse necessarie per un intervento diretto. Ciononostante, anche solo un appoggio simbolico a Maduro rischia di riaprire un fronte di tensione tra Mosca e Washington in quello che, storicamente, gli Stati Uniti considerano il loro “cortile di casa”. Caracas nel frattempo, guarda anche a Pechino e Teheran per ampliare le alleanze e rompere l’isolamento internazionale.
La crisi ha immediatamente suscitato reazioni nella comunità internazionale. Nazioni Unite e Unione Europea hanno già espresso preoccupazione per l’aumento della tensione e per il rischio di un conflitto nella regione. Il commissario dell’ONU per i diritti umani, Volker Türk, ha chiesto l’apertura di un’inchiesta sui raid militari americani contro le imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico, definendo gli attacchi “inaccettabili”. Esperti di diritto internazionale ricordano che qualsiasi azione militare non autorizzata dal Consiglio di Sicurezza costituirebbe una violazione del principio di sovranità e del divieto dell’uso della forza sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. In America Latina, diversi Paesi hanno invitato Washington a evitare «iniziative unilaterali» e Caracas a non rispondere alle provocazioni. Il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha dichiarato che l’ingresso di imbarcazioni statunitensi nei Caraibi «è una fonte di preoccupazione» e che il Paese intende evitare uno scontro diretto. La situazione resta incandescente. Oltre al destino del Venezuela, in gioco non ci sono solo relazioni bilaterali, ma la tenuta del diritto internazionale e l’equilibrio di potere in un mondo che sembra tornare pericolosamente ai vecchi fantasmi della guerra fredda.
Una pesante frana ha colpito la zona collinare di Chesongoch, nella contea di Elgeyo Marakwet, nell’ovest del Kenya, provocando la morte di almeno 21 persone e lasciando più di 30 disperse. Le forti piogge della stagione breve hanno scatenato lo smottamento che ha distrutto oltre mille abitazioni. Le squadre di soccorso sono al lavoro nonostante le condizioni difficili: 30 feriti gravi sono stati evacuati in aereo verso un ospedale di Eldoret. L’area collinare di Chesongoch è soggetta a frane che hanno causato decine di morti in incidenti separati nel 2010 e nel 2012. Nel 2020, un centro commerciale è stato spazzato via dalle inondazioni.
Mezzo secolo dopo, esattamente 51 anni da quella notte di novembre del ’75, una fotografia in bianco e nero del massacro all’Idroscalo, la “lezione al frocio” che in realtà è stata un’esecuzione pianificata nei dettagli, racconta più di tanti fascicoli giudiziari e di pagine dei giornali. Il furgone nero della morgue, un tizio in giacca e cravatta, un altro col giubbino scuro di pelle e un cronista col taccuino, tutti con la sigaretta a penzoloni in bocca o tra le dita. In primo piano, sotto al lenzuolo macchiato da due grosse chiazze di sangue e tenuto fermo alla meglio da due mattoni di cemento, il cadavere martoriato di Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista. L’intellettuale del Io so, dell’impegno civile, degli ultimi della classe. Uno voce limpida e scomoda, molto scomoda nel panorama italiano degli anni ’70, sullo sfondo un Paese che veniva avvelenato e insanguinato dalla strategia della tensione e dalle oscure trame che PPP, il suo acronimo, aveva promesso di rivelare e denunciare: «Farò nomi e cognomi».
La notte tra l’1 e il 2 novembre è stato trucidato in una zona di Ostia dove erano fiorite baracche abusive, un nulla di edifici malsani ed erbacce alle spalle del litorale. Proprio lì, attorno ad un campo di calcio di terra battuta trasformato in acquitrino dalla pioggia e dall’umidità, ha trovato la morte l’autore degli Scritti corsari e di tutte le pagine vergate con rabbia, lucidità e molta lungimiranza, se si pensa a quanto sia stato profetico sulla società italiana, sui suoi vizi e distorsioni e sul suo declino.
Ostia, Idroscalo — il luogo del ritrovamento del corpo di Pier Paolo Pasolini, la mattina del 2 novembre 1975.
Pasolini ammazzato di botte e abbandonato ormai agonizzante tra le pozzanghere, in una notte nera come la pece: passando adesso da quelle parti, non si trova molto di più se non una statua di marmo bianco realizzata da Mario Rosati una ventina di anni fa. Pochi suoi versi incisi sopra, «passivo come un uccello che vede tutto, volando, e si porta in cuore nel volo in cielo la coscienza che non perdona», tutt’intorno un parco con giochi per i bambini e qualche pianta, all’orizzonte Ostia che è rimasta invece uguale a com’era quella notte, e con essa Roma con i suoi tentacoli, le sue trame, i suoi incroci pericolosi tra la politica, i servizi segreti e gli ambienti dell’estrema destra che chiamavano “Paola” il poeta, con sommo spregio per la sua figura e le sue scelte di vita che lo hanno portato ad essere scomodo e ingombrante nella società piccolo-borghese del tempo.
Pasolini coi suoi Ragazzi di vita, protagonisti del romanzo che raccontava la gioventù sbadata o a volte bruciata delle periferie romane. Volti ed esistenze sospesi in bilico sulla delinquenza, faticose sopravvivenze quotidiane alle spalle di casermoni popolari o in quartieri senz’anima: personaggi quasi caricaturali come Pino Pelosi, detto “Pelosino”, ragazzino di Casal Bruciato dove la Tiburtina si libera dalla pressione di Roma e apre al nulla della campagna. Un giornalista che lo vide superstite dell’aggressione all’Idroscalo, gonfiato di botte pure lui, con gli occhi lividi e il naso tumefatto, lo ha soprannominato proprio per questo Pino la Rana.
Eppure è stato lui il capro espiatorio del delitto Pasolini. Giuseppe Pelosi, poi deceduto di malattia nel 2017, è stato riconosciuto colpevole del suo omicidio e condannato con sentenza definitiva a nove anni e sette mesi che ha scontato in silenzio e integralmente, fino a che dopo 30 anni non ha deciso di parlare, di vuotare il sacco e di raccontare come sia finito in carcere per un assassinio non commesso, minacciato di fare una brutta fine, lui e la sua famiglia, se avesse parlato.
Lui che si è sempre definito un «ladro di motorini», coinvolto in quello che col passare del tempo è parso sempre di più un omicidio politico. L’agguato ad un intellettuale libero che coi suoi libri e i suoi film aveva denudato il re, oggi si direbbe i poteri forti di allora, e che stava scrivendo Petrolio, il romanzo nel quale molti hanno visto una specie di requisitoria contro molti potenti tra cui l’ENI. Nella sentenza del 4 dicembre 1976, i giudici di appello hanno addossato a Pelosi – definito «un marchettaro di 17 anni» – la responsabilità dell’omicidio. La ricostruzione passata alle cronache è stata distillata con pochi semplici ingredienti. Pasolini che rimorchia Pelosi alla stazione Termini, lo porta a mangiare al ristorante “Biondo Tevere” e poi si apparta con lui in quella landa desolata, in una fredda e cupa notte invernarle, a bordo della sua Alfa GT che diventerà poi un capitolo a parte della vicenda, oltre che una potenziale fonte di prove mai cercate. A quel punto, dopo un rapporto sessuale, Pino Pelosi lo avrebbe aggredito “con un bastone marcio” e ridotto fin di vita, col cranio spaccato e diverse altre ferite gravi, oltre a investirlo con la sua stessa auto.
Pino “la Rana” Pelosi, diciassettenne all’epoca dei fatti, fu arrestato e processato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto all’Idroscalo di Ostia
Del resto, Pasolini aveva da tempo un’etichetta ed erano note le sue frequentazioni. Fu espulso dal Partito Comunista di Casarsa della Delizia, in Friuli, la sua origine, per una denuncia di abusi su minori e gli fu tolta l’abilitazione all’insegnamento in tutto il territorio italiano. La ricostruzione del delitto faceva acqua da tutte le parti, a cominciare dal fatto che un ragazzino minorenne potesse accanirsi con tanta ferocia su un adulto comunque in grado di badare a se stesso, se è vero che proprio Pasolini aveva inseguito e malmenato Serafino Di Luia raggiungendolo fin sopra ad un autobus, in seguito all’aggressione di matrice fascista per la prima del film Mamma Roma, il 22 settembre 1962. Di Luia non era uno qualsiasi: era un “camerata” tra i fondatori di Lotta di Popolo, inquisito e prosciolto per ricostituzione del partito fascista e sentito tra l’altro come testimone durante le indagini per la strage dell’Italicus. Eppure in primo grado, il Tribunale minorile di Roma aveva suggerito un altro scenario per la feroce aggressione dell’Idroscalo. Con pronuncia del 26 aprile 1976, i giudici che avevano ritenuto Pelosi inattendibile, lo avevano condannato per omicidio volontario «in concorso con ignoti». «Assai più logica appare invece l’ipotesi che il Pasolini mentre stava fuggendo venne raggiunto da più persone che, dopo averlo fermato per i capelli, iniziarono a colpirlo tanto con il bastone che con la tavoletta (e probabilmente anche con altri oggetti contundenti)».
Invece di sviluppare con altre indagini e approfondimenti questo scenario, che avrebbe probabilmente le trame oscure e i mandanti dell’omicidio di Pasolini, è stato semplicemente accompagnato in carcere Pelosi che si è deciso a parlare nel 2005, partecipando ad una trasmissione televisiva in Rai. Davanti alle telecamere di Franca Leosini, l’ex ragazzo di vita ormai adulto ha raccontato un’altra verità, spiegando che è stato obbligato ad attribuirsi la colpa dei fatti per evitare conseguenze peggiori. Pelosi conosceva Pasolini da mesi, la loro amicizia era iniziata nel luglio di quell’anno e i due si erano visti diverse volte. Ne era al corrente la famiglia di Pelosi e lo sapevano anche gli amici di Pasolini, a cominciare da Ninetto Davoli che è stato al suo fianco per una vita.
Quella notte all’Idroscalo i due non ci sono andati per appartarsi in auto, ma perché Pasolini doveva recuperare le nove “pizze” del film Salò che il regista stava ultimando. Le bobine erano state trafugate a Cinecittà e tramite Pelosi, che conosceva alcuni degli autori del furto a cui è poi seguita una richiesta di soldi, Pasolini aveva concordato la cifra e il luogo per riprendersi quei materiali senza i quali non avrebbe potuto ultimare la sua opera. All’appuntamento all’Idroscalo, i due attendevano i fratelli Borsellino, Franco detto “Labbrone” e Pino, “er braciola”, nomi caricaturali ma feroci criminali, amici di Pino con cui avevano compiuto molti furti e “imprese” tra la Tiburtina e le zone limitrofe. Pelosi racconta, però, che dopo un momento di intimità con Pasolini, all’improvviso sono sbucati dal buio una motocicletta, una Gilera, con a bordo i fratelli Borsellino e due automobili, una 1500 scura ed una GT identica a quella del poeta.
L’Alfa Romeo 2000 GT Veloce di Pier Paolo Pasolini durante una perquisizione degli inquirenti
Dall’auto sono scesi tre uomini e mentre uno, grosso e con la barba scura, ha immobilizzato e percosso Pelosi, intimandogli di «farsi i ca… tuoi», gli altri due hanno tirato fuori di forza Pasolini dall’Alfa Romeo e hanno cominciato a colpirlo con violenza alla testa. Il regista ha cercato di fuggire, già sanguinante e in preda ad urla disumane, ma hanno continuato a colpirlo, investendolo con l’altra GT presente sulla scena, fino a ridurlo in fin vita. Prima di fuggire via, il tizio che ha malmenato Pelosi gli ha intimato di non dire una parola su tutto quello che era successo, «perché conosciamo te e la tua famiglia». Pino la Rana, tumefatto e dolorante, è stato arrestato poco dopo dai carabinieri ed è diventato in breve l’assassino di Pasolini, mentre il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri ha poi rinvenuto tre profili ematici sugli abiti indossati da Pasolini, non appartenenti né al poeta e nemmeno a Pelosi. L’identità del commando che ha eseguito un omicidio premeditato, Pelosi ha raccontato che mentre andavano verso Ostia erano seguiti da una motocicletta e il benzinaio dove si sono fermati a fare rifornimento ha raccontato di aver visto dietro di loro una Fiat 1500 scura, è rimasta ignota.
Per qualcuno, ne faceva parte anche Danilo Abbruciati, uno dei fondatori della Banda della Magliana e che avrebbe fatto parte del furto delle bobine del film Salò su commissione di Franco Conte, vicino ad ambienti della destra romana e titolare di una bisca dove proprio Abbatino aveva visto la GT di Pasolini, che probabilmente ci era andato per trattare la restituzione delle “pizze”. Abbatino conosceva anche i fratelli Borsellino e perfino Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro, per qualcuno presente pure lui all’aggressione dell’Idroscalo che evidentemente è maturata negli ambienti della malavita romana dell’epoca. Solo che per tirarsi fuori, Abbatino ha poi prodotto un certificato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria secondo cui si trovava in carcere dal maggio al novembre del 1975. Il documento non ha dissipato tutti i dubbi sul suo coinvolgimento in quello che è stato, anche, un atto intimidatorio verso il messaggio culturale diffuso da Pasolini.
La morte di Aldo Semerari è stata teatralmente terrificante: l’1 aprile 1982 all’interno di una Fiat 128 parcheggiata davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra con cui Semerari aveva avuto rapporti di lavoro per una perizia e per la sua attività di incaricato del tribunale, fu trovata la testa del criminologo dentro una bacinella, sul sedile passeggero.
Il suo racconto della Repubblica di Salò nel film che risale proprio a quell’anno non è certamente piaciuto a tanti ambienti di destra ed estrema destra e a personaggi che gravitavano tra la politica e i servizi segreti. Come per esempio il criminologo Aldo Semerari che fu uno dei periti nominati dalla difesa di Pelosi, l’avvocato Rocco Mangia che suggerì a quel ragazzino di borgata di assumersi tutta la responsabilità, «colpevolezza senza complicità», riducendo praticamente tutto ad un “fatto tra froci”. Semerari che in una perizia a distanza, nel 1962, aveva definito Pasolini «persona socialmente pericolosa» e i suoi comportamenti «espressione di infermità mentale». Ma era anche uno che “giocava su più tavoli” nella malavita organizzata romana, in contatto con esponenti della P2 e attivo con l’estrema destra, dopo un passato comunista e ancora prima dopo aver aderito alla Repubblica di Salò. Conosciuto anche dalla Banda della Magliana, se è vero che Abbatino ricorda nella sua villa di Rieti un letto di metallo nero sormontato da una bandiera con svastiche e aquile, e cani dobermann a cui Semerari si rivolgeva con ordini in tedesco.
Anche lui rientra nel cupo scenario e nelle tetre atmosfere che hanno fatto da cornice al delitto Pasolini e la sua fine è stata teatralmente terrificante: l’1 aprile 1982 all’interno di una Fiat 128 parcheggiata davanti all’abitazione di Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra con cui Semerari aveva avuto rapporti di lavoro per una perizia e per la sua attività di incaricato del tribunale, fu trovata la testa del criminologo dentro una bacinella, sul sedile passeggero. Il resto del corpo legato e avvolto in un lenzuolo dentro al bagagliaio. Semerari, che certamente non amava Pasolini per quello che era e per quello che scriveva e che è una delle tante figure cupe che ruotano intorno a queste vicende, è stato anche associato ad ambienti della malavita romana che saldati con quelli dell’estrema destra avrebbero dovuto creare commandi criminali da impiegare per rapine, furti e assalti a portavalori.
Sabaudia 1975, Pasolini e l’Alfa 2000 GTV targata Roma K 69996 in un celebre scatto di Dino Pedriali
L’Alfa Romeo GT di Pasolini fu condotta presso la stazione dei carabinieri di Ostia ma non fu mai sottoposta ad esami o accertamenti. È rimasta alle intemperie per anni fino a che Ninetto Davoli non la fece rottamare, ma all’epoca era possibile farlo utilizzando solo le targhe: da allora la macchina è sparita, ma fino al 2019 alla targa RMK69996 risultava ancora l’immatricolazione dell’Alfa Romeo GT 2000 Veloce a “Pasolini Pier Paolo”. L’ultimo mistero di un delitto premeditato, e probabilmente anche – in qualche modo – annunciato.
Lo shutdown del governo federale americano ha mandato in tilt il traffico aereo negli Stati Uniti. La carenza di controllori di volo, molti dei quali assenti o non retribuiti, ha costretto la Federal Aviation Administration a ridurre le operazioni in numerosi scali. A New York, Los Angeles e Orlando decine di voli sono stati cancellati o hanno accumulato ritardi di oltre due ore. La situazione, aggravata dalla pressione sui turni e dalla mancanza di fondi, rischia di paralizzare il sistema in vista delle festività, mentre le compagnie invitano i passeggeri a verificare lo stato dei voli prima di partire.
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