Una nuova app contro le fake news entrerà presto nelle scuole italiane. Si chiama “Missione anti-bufala” ed è un progetto promosso da La Repubblica, che sarà gestito da Vik, la start-up italiana di educazione civica digitale, con il patrocinio del Parlamento Europeo. L’iniziativa, presentata all’Università Roma Tre, è un percorso interattivo per insegnare agli studenti a riconoscere e smontare le notizie false, sarà sperimentata in diversi istituti e punta a coinvolgere migliaia di ragazzi. Attraverso quiz, missioni e giochi digitali, l’app promette di stimolare il pensiero critico e di educare all’uso consapevole delle fonti online. L’annuncio, salutato con entusiasmo dai promotori e con interesse dal mondo scolastico, ha suscitato, però, anche perplessità: che una testata giornalistica, da sempre riconoscibile per la propria linea politica e culturale, assuma un ruolo centrale nell’educazione alla “verità” nelle scuole non lascia indifferenti.
Sostenuta dalle istituzioni europee, l’iniziativa riapre così il dibattito sul confine sempre più sottile tra formazione critica e indottrinamento, tra educazione alla verifica dei fatti e legittimazione di una “informazione certificata”. Più che un semplice strumento di alfabetizzazione mediatica, l’app potrebbe diventare un mezzo di orientamento ideologico, capace di influenzare la percezione stessa delle notizie. A rendere il quadro ancora più complesso per il patrocinio UE, contribuiscono le rivelazioni contenute nel dossier “Brussels’s media machine” di Thomas Fazi sulla “macchina del consenso europea”, che denuncia il sistema di finanziamenti diretti e indiretti provenienti da Bruxelles destinati ai principali media occidentali, tra cui anche testate italiane. Secondo Fazi, attraverso sovvenzioni e partnership istituzionali, l’Unione Europea avrebbe costruito una rete di relazioni capace di orientare l’informazione verso una narrazione favorevole alle proprie politiche, presentata come “lotta alla disinformazione”.
Secondo quanto riportato da Repubblica, l’app guiderà gli studenti, attraverso un gioco interattivo, a riconoscere e smontare le fake news. L’obiettivo dichiarato è quello di «insegnare ai ragazzi a difendersi dalla disinformazione». In apparenza, nulla di male: chi potrebbe opporsi a un’iniziativa che promuove lo spirito critico? Eppure, dietro la facciata pedagogica, si cela un cortocircuito profondo. A gestire l’app sarà Vik, Very Important Kids, che realizza campagne educative sui temi dell’Agenda 2030 e corsi di formazione per studenti dai 9 ai 13 anni.La società è finanziata da FuturED, una rete che aiuta l’evoluzione delle startup, offrendo il supporto economico di aziende come Pfizer, Cisco e Vodafone. Nello specifico, a promuovere il progetto è Repubblica, che, da anni, plasma l’opinione pubblica con un approccio schierato, militante, ideologico. Non un ente indipendente, né un’università o un osservatorio pluralista, ma un editore con un chiaro interesse nel definire cosa sia “vero” e cosa no. Così, l’app rischia di trasformarsi in un cavallo di Troia mediatico, con il pretesto dell’educazione digitale usato per colonizzare le menti più giovani. Non si tratta di insegnare a ragionare, ma di insegnare come ragionare, entro i limiti imposti dalla narrazione dominante. L’iniziativa “anti-fake news” rappresenta un salto qualitativo rispetto ad analoghe iniziative: per la prima volta, un grande quotidiano entra direttamente nelle scuole, portando con sé la propria visione del mondo, i propri interessi e le proprie contraddizioni. In un contesto educativo già fragile, dove il pensiero critico dovrebbe essere incentivato e non delegato, affidare ai media di massa la funzione di arbitri della verità equivale a chiudere il cerchio della propaganda.
Chi pretende di combattere le fake news dovrebbe per primo essere immune dai peccati della disinformazione. Ma La Repubblica non lo è. Il giornale ha più volte dimostrato di essere vittima e artefice della manipolazione informativa. I nostri lettori ricorderanno quando il quotidiano, in un articolo firmato da Giuliano Foschini, insinuò (senza alcuna prova o fondamento) che L’Indipendente fosse “finanziato dai russi”. La figuraccia non è un episodio isolato. Negli anni, Repubblica ha diffuso notizie sensazionalistiche poi rivelatesi infondate. Un paio di esempi su tutti: “Mancano munizioni, russi all’assalto del nemico con le pale” (La Repubblica, 6 marzo 2023); “Perché le sanzioni contro la Russia stanno funzionando” (La Repubblica, 12 settembre 2022). Il quotidiano ha anche adottato un doppiopesismo sui bambini palestinesi e quelli israeliani, ha rilanciato campagne d’allarme prive di verifica e ha adottato una linea editoriale spesso più militante che giornalistica. Ha anche usato in maniera elastica l’accusa di “complottismo” o di “disinformazione” per delegittimare le voci scomode e divergenti e per ridicolizzare chi non si allinea al pensiero dominante. Da segnalare anche il caso di commistione tra pubblicità e informazione: fu proprio il Comitato di redazione a denunciare la pubblicazione, dietro lauto compenso, di contenuti pressoché dettati dalle aziende e spacciati come giornalistici.
Eppure, oggi si propone come arbitro assoluto della verità, come se la sua storia recente non fosse costellata di errori e distorsioni. È proprio questo il paradosso: un giornale che ha contribuito a creare l’ecosistema della polarizzazione e della sfiducia nei confronti dei media pretende ora di curarlo con una app educativa. Così, la guerra alle bufale rischia di trasformarsi in uno strumento di controllo culturale, in una nuova forma di maccartismo digitale che assegna bollini di verità ai contenuti graditi al sistema e squalifica come “complottiste” le voci dissenzienti. Lo studente non sarà guidato a verificare in modo autonomo, ma a interiorizzare un paradigma di pensiero conforme alla linea editoriale dominante. È la logica dell’“ingegneria del consenso”: un pluralismo apparente che nasconde l’imposizione di una sola verità, certificata dal potere mediatico. Perché la scuola resti un luogo di libertà, occorre ribaltare la prospettiva: la lotta alla disinformazione non deve essere monopolio di chi controlla i giornali, ma uno spazio aperto al confronto tra visioni diverse. Solo un pluralismo autentico, sostenuto da strumenti trasparenti, obiettivi e indipendenti, può generare cittadini consapevoli e non sudditi digitali.
Negli ultimi mesi il settore caseario è finito al centro dell’attenzione mediatica, dopo che giornali e social media hanno riportato numerose notizie di intossicazioni alimentari. Le critiche riguardano tanto la produzione industriale quanto quella artigianale e al centro dell’attenzione vi è il latte crudo, ovvero privo di pastorizzazione. Mentre in Paesi come la Francia la tradizione casearia con il latte crudo è un vanto, in Italia sembra essere improvvisamente diventata una minaccia per la salute. Tuttavia, per limitare gli allarmismi, è necessario fare un po’ di chiarezza.
Cos’è il latte crudo
Il latte crudo è tale in quanto non ha subìto trattamenti termici di nessun tipo, come la bollitura o la pastorizzazione. Si tratta di un alimento integro, vivo, che mantiene le sue caratteristiche nutrizionali di partenza in uno stato di massima biodisponibilità per l’organismo. Questo significa che le sue proteine, vitamine, enzimi, grassi e fermenti lattici si trovano in una composizione biochimica naturale e intatta, cioè non modificata e alterata dall’intervento di stress termici o di altri trattamenti come la scrematura, con cui si rimuovono i grassi del latte. Il latte crudo è stato, ed è ancora oggi, la base di un patrimonio economico, culturale e gastronomico immenso. La cultura casearia del nostro Paese ha sviluppato nei secoli centinaia di tipologie di formaggi col latte crudo, dalle tome alpine ai caciocavalli, dai pecorini alle mozzarelle – basti pensare al Parmigiano Reggiano, al Grana Padano e alla Fontina, solo per citarne alcuni.
Allo stesso modo, è prodotta con latte crudo la maggior parte dei formaggi artigianali, frutto del lavoro di una moltitudine di piccoli produttori che custodiscono e tramandano saperi e competenze e preservano pascoli e razze locali, oltre a contribuire a mantenere vive le aree interne e la montagna (ovvero tre quarti del territorio italiano). Sono a latte crudo tutte le eccellenze casearie che il mondo ci invidia, così come lo sono i grandi formaggi francesi, svizzeri, spagnoli, belgi e tedeschi. Stiamo parlando di migliaia di produttori in tutta Europa, la stragrande maggioranza di piccola scala: tra questi, centinaia si trovano in Italia e aderiscono a consorzi DOP e IGP (28 delle 56 DOP/IGP italiane dei formaggi prevedono obbligatoriamente la produzione a latte crudo, come appunto il Parmigiano Reggiano DOP o la Fontina DOP). Il latte crudo è usato anche dall’industria, come nel caso del Parmigiano o del Grana. Questi dati basterebbero per far capire che un eventuale problema di salute pubblica non riguarda il latte crudo in sé, ma i fattori che subentrano nel processo produttivo, la cui responsabilità è da ascrivere ai singoli produttori (o consumatori) piuttosto che all’intero sistema produttivo.
Il problema, dunque, sembra riguardare più che altro la comunicazione dei mass media, la cui superficialità in molti casi mina la percezione del valore di questo patrimonio, orientando i consumi sui formaggi prodotti con latte pastorizzato e prodotti standardizzati. Se il trend politico della UE non cambia di rotta, all’enorme danno di immagine subito dal settore potrebbe così seguirne uno economico di grande entità, con ricadute gravi soprattutto sui piccoli produttori e sulle piccole aziende casearie – che, ricordiamo, sono la maggior parte, sia in Italia che in Europa.
Misure già stringenti per il latte crudo
Il Parmigiano Reggiano è fatto solo con latte crudo: eccellenza mondiale che dimostra come, in una filiera controllata, il latte crudo non sia un rischio ma un valore
Un dato molto importante del quale i consumatori dovrebbero essere a conoscenza per fare scelte di acquisto più consapevoli – ma di cui i media non parlano mai – riguarda i profili di sicurezza alimentare del latte crudo e del latte pastorizzato. In Italia, il latte crudo destinato al consumo diretto o alla trasformazione in formaggi deve soddisfare criteri rigorosi per garantire la sicurezza alimentare e l’assenza di batteri patogeni come Listeria, Salmonella e Escherichia coli, e garantire un’igiene del processo impeccabile durante la mungitura e la conservazione a freddo. L’Istituto Superiore di Sanità precisa infatti che il regolamento comunitario prevede una serie di controlli ufficiali sulla produzione di latte crudo, come avviene per la filiera del latte destinato alla pastorizzazione, che riguardano in particolare:
le aziende di produzione di latte
il latte crudo al momento della raccolta
la distribuzione e vendita di latte crudo direttamente al consumatore finale
la gestione della stalla (controlli sulle malattie infettive trasmissibili con il latte, controlli sulle pratiche di mungitura, ecc.)
l’esecuzione di esami di laboratorio sul latte e sulle feci degli animali
A questo proposito citiamo solo un dato molto significativo: in Italia, il latte crudo destinato a processi di caseificazione o ad altre lavorazioni deve avere una carica batterica inferiore a 100.000 UFC/ml (unità formanti colonia per millilitro), un limite fissato a livello europeo. Il monitoraggio della carica batterica è insomma necessario per garantire un latte di alta qualità e soprattutto sicuro per il consumo umano. E questo monitoraggio avviene sempre, di routine, con i controlli delle aziende sanitarie locali e quelli effettuati dalle stesse aziende produttrici e dai caseifici, prima di ogni lavorazione e trasformazione in formaggi. L’osservazione di queste norme sulla sicurezza alimentare e delle buone pratiche di produzione è, da parte degli allevatori, l’unico modo per evitare problemi che potrebbero inficiare la produzione di latte da parte dei loro animali e la conseguente perdita di guadagno e/o ingente danno economico – in caso di risarcimento per intossicazioni alimentari riconducibili alla loro azienda agricola. In poche parole, se gli allevatori lavorano male ci perdono, da più punti di vista.
Informare, non criminalizzare
Anche se il latte crudo è molto controllato e sicuro, come abbiamo documentato, ciò non significa che sia esente in senso assoluto da rischio microbiologico e da contaminazioni lungo la sua filiera produttiva. Purtroppo anche su questo alimento – come per ogni altro – sono sempre possibili errori, noncuranza o contaminazioni accidentali che esulano dai controlli di sicurezza. È ancora l’Istituto Superiore di Sanità a informarci: «È bene sottolineare che normalmente il latte così come prodotto dalla ghiandola mammaria non contiene germi in grado di provocare infezioni. La contaminazione del latte con microrganismi di tale tipo può avvenire al momento della mungitura, raccolta, lavorazione, immagazzinamento e distribuzione del latte. In particolare, il contatto con superfici contaminate come, ad esempio, la pelle delle mammelle delle mucche, le mani degli operatori e le superfici degli impianti di mungitura e dei serbatoi di stoccaggio (contaminazione successiva alla mungitura) può facilitare il passaggio dei germi al latte».
Il latte così come prodotto dalla ghiandola mammaria non contiene germi in grado di provocare infezioni. La contaminazione del latte con microrganismi di tale tipo può avvenire al momento della mungitura, raccolta, lavorazione, immagazzinamento e distribuzione del latte.
E qui arriviamo alle cronache degli ultimi anni e ad alcuni spiacevoli (ma per fortuna molto sporadici) episodi accaduti in Italia e in Francia. I consumatori devono essere certamente informati su questa tematica, ma con dati scientifici e informazioni corrette, evitando di creare un immotivato danno di immagine a un settore tanto importante per il Made in Italy e il turismo.
Sia il latte crudo che i formaggi fatti con latte crudo possono essere contaminati e quindi presentare eventuali microrganismi nocivi per l’uomo, come per esempio Campylobacter, Listeria monocytogenes, Salmonella, Staphylococcus aureus ed Escherichia coli, produttore di tossina Shiga (STEC). Questi batteri patogeni possono dare dei problemi di salute in alcune categorie di individui, come le persone fragili e immunodepresse, gli anziani, le donne incinte e i bambini al di sotto dei 6 anni. I batteri in questione possono causare infezioni con sintomi lievi (febbre e disturbi gastrointestinali come diarrea e vomito), ma anche evolvere in forme più gravi come meningite, sindrome emolitico-uremica (SEU) e, in alcuni casi, portare al decesso. È importante sottolineare che questi patogeni possono contaminare anche il latte e i formaggi fatti con latte pastorizzato, non solo con quello crudo. D’altronde, le cronache sia italiane che europee sono piene da anni di casi di contaminazioni e ritiri dal commercio di prodotti a latte pastorizzato: si veda a titolo di esempio un caso recentissimo (1° settembre 2025), riguardante il richiamo da parte del Ministero della Salute italiano e conseguente ritiro dal commercio di un formaggio provolone Valpadana DOP, venduto presso i supermercati Famila e A&O, a causa di una contaminazione da Listeria.
Di episodi simili ce ne sono a decine ogni giorno in tutta la UE. Si tratta di un problema che va avanti sin dalla nascita del cibo industriale, che non è affatto più sicuro e controllato del cibo non industriale (come si tende a far credere): la mole di dati oggettivi al riguardo parla chiaro e non si può contestare. Tuttavia, a essere censurati nei mass media sono sempre e solo i formaggi a latte crudo e non anche quelli industriali a latte pastorizzato. Un altro caso emblematico di ciò e anch’esso molto recente è accaduto in Francia, alla vigilia di Ferragosto, e riguarda una intossicazione alimentare provocata da formaggi prodotti con latte pastorizzato e contaminati da Listeria. Ventuno le persone colpite, due i morti. A seguito della vicenda, Carrefour Italia ha operato il richiamo – per «rischio microbiologico: possibile presenza di Listeria monocytogenes» – di tre formaggi a latte pastorizzato prodotti dalla Chavegrand e distribuiti nel nostro Paese, tra cui il Buche Chevre La Belle du Bocage. La tragica notizia è giunta anche in Italia ed è stata diffusa in modalità terroristica anche da alcuni esponenti della classe medica, tra i quali il professor Matteo Bassetti, direttore del reparto di Malattie infettive dell’ospedale Policlinico San Martino di Genova. Questi dapprima è intervenuto con dichiarazioni rilasciate all’agenzia giornalisticaAdnKronose poche ore dopo ha pubblicato un video allarmistico nelle sue pagine social, riferendo l’episodio in Francia e avvertendo ancora una volta (in maniera del tutto errata e fuorviante in questo contesto) del pericolo dei formaggi a latte crudo. A settimane dalla clamorosa gaffe, né Bassetti né alcuna testata giornalistica tra quelle che hanno trattato in maniera errata la notizia hanno fatto precisazioni o rettifiche.
Le nuove linee guida del Ministero della Salute
Ma c’è anche chi difende un intero settore e il patrimonio gastronomico a esso collegato: varie associazioni e realtà produttive cercano infatti di riportare il discorso su un piano equilibrato e informato. Tra questi una voce autorevole è l’associazione Slow Food.
Nel frattempo è cambiato anche il quadro normativo sui prodotti a latte crudo. È stata presentata alla Camera una proposta di legge che propone un provvedimento drastico: apporre sulle etichette una frase e un marchio che segnalino la pericolosità dei formaggi a latte crudo per i soggetti fragili e a rischio. A luglio 2025 sono state inoltre emanate dal governo delle nuove linee guida che riguardano nello specifico il controllo del batterio Escherichia coli STEC nel latte non pastorizzato e nei suoi derivati, le quali prevedono nuovi controlli giornalieri molto gravosi, sul latte e sui formaggi. Queste si collocano tuttavia al di là delle possibilità economiche di molti produttori e diventano praticamente inattuabili per i produttori che alpeggiano a quote elevate, in località impervie o irraggiungibili con gli automezzi. Una stima fatta da Slow Food parla di una spesa extra (che si somma a quelle già previste dal Piano di Autocontrollo igienico-sanitario) di almeno 70 euro al giorno per l’allevatore per eseguire i nuovi controlli richiesti. Dal momento che l’allevatore munge ogni giorno, la spesa a fine mese è considerevole. L’organizzazione propone invece di puntare sulla formazione: per i produttori, gli allevatori, i consumatori.
La seconda obiezione di Slow Food riguarda la comunicazione scorretta fatta finora sui media, che sta portando i clienti dei ristoranti a rifiutare i formaggi se prodotti con latte crudo. E sta spingendo molti piccoli produttori a pastorizzare il latte, a scegliere di non recarsi più nelle malghe, alcuni addirittura a chiudere l’attività. La terza osservazione è la seguente: le linee guida emanate dal Ministero richiedono l’adozione di una frase in etichetta per dissuadere le categorie fragili dal consumare formaggi a latte crudo. Le direttive europee, però, non prevedono questa indicazione, quindi i formaggi di importazione non saranno tenuti a segnalare alcun rischio specifico: il potenziale danno commerciale per i formaggi a latte crudo italiani è evidente. Infine l’obiezione più rilevante sollevata da Slow Food è la seguente: «Ci chiediamo: perché questa enorme attenzione sul rischio Escheriachia coli STEC solo nei formaggi a latte crudo? Lo STEC si può ritrovare anche nei salumi, nelle carni crude o poco cotte, nelle verdure crude, nei cereali, nelle farine, addirittura nell’acqua. Perché queste filiere non sono state prese in considerazione e non si prevedono linee guida analoghe? Perché la Listeria, che ha tassi di mortalità più elevati, per ogni età e condizione, non è considerata almeno alla stessa stregua? … Non stiamo sottovalutando il rischio per le categorie fragili, la comunicazione deve essere fatta. Noi contestiamo invece i toni allarmistici, l’intensità inspiegabile con la quale si sta investendo un settore produttivo che è già esausto a causa dei tanti adempimenti, a fronte di rischi molto ridotti rispetto ad altre fonti di contaminazione. Oltre al danno qualitativo e culturale causato dalla perdita di formaggi tradizionali a latte crudo, il passaggio alla pastorizzazione implicherebbe la diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti (un formaggio a latte pastorizzato può subire un calo del prezzo anche del 30%), i costi dell’energia necessaria per far funzionare i pastorizzatori triplicherebbero, servirebbe il doppio di acqua per raffreddare il latte, e di acqua ce n’è sempre meno».
In conclusione appare giustificato il timore di alcuni esperti che vedono negli attacchi portati al settore del latte crudo un ennesimo tentativo di standardizzazione della produzione alimentare, tutto a discapito di varietà, biodiversità, e maggiore ricchezza nutrizionale di produzioni tradizionali. Si viene a creare infatti il seguente paradosso industriale: filiere industriali legate a forme di allevamento intensivo (con vacche frisone iper sfruttate e trattate regolarmente con antibiotici), monocolture (e dunque pesticidi, erbicidi e fertilizzanti), inquinamento dell’aria (polveri sottili, generate dalle emissioni di ammoniaca dovute agli spandimenti di liquami) e dell’acqua (nitrati nelle falde), lavorazioni industriali (anche le peggiori, fatte con cagliate importate dall’estero e additivi) diventano rifugi rassicuranti, opzioni sicure e salutari. Mentre un formaggio di malga fatto con latte di animali al pascolo finisce alla gogna.
La Corte di Cassazione italiana ha annullato la decisione che disponeva la consegna alla Germania di Serhii Kuznietsov, ex ufficiale ucraino arrestato lo scorso agosto a Rimini su mandato europeo per il presunto sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2. Il caso dovrà essere riconsiderato da un nuovo collegio giudicante, dopo che è stato accolto un ricorso della difesa, che contestava una “erronea qualificazione giuridica” dei fatti riportati nel mandato europeo, tale da compromettere il diritto di difesa dell’imputato. L’uomo, 43 anni, ex militare con trascorsi nei servizi speciali di Kiev, rimarrà dunque in Italia in attesa di una nuova valutazione della Corte d’appello.
La decisione della Cassazione ruota intorno alla corretta applicazione del mandato d’arresto europeo (MAE) e ai limiti della cooperazione giudiziaria tra Stati membri. Secondo la difesa di Kuznietsov, la Corte d’appello di Bologna avrebbe travisato il contenuto del MAE emesso dalla Germania, introducendo accuse non contemplate nel testo originario – tra cui l’associazione terroristica – aggravando così indebitamente il quadro accusatorio. Tale errore avrebbe inciso sul diritto dell’imputato di partecipare effettivamente al processo e di essere giudicato solo per i fatti specificamente contestati dall’autorità richiedente. La Cassazione ha ritenuto fondate le eccezioni, riconoscendo un vizio procedurale sostanziale che invalida il provvedimento di consegna. L’avvocato di Kuznietsov, Nicola Canestrini, ha annunciato che chiederà la scarcerazione del suo assistito, ritenendo venuto meno il titolo giuridico che ne giustificava la detenzione. La sentenza non assolve l’imputato né esclude le accuse, ma sancisce la necessità di una nuova valutazione del caso, ribadendo che neppure nell’ambito della cooperazione giudiziaria europea possono essere sacrificati i princìpi fondamentali del giusto processo.
La vicenda si inserisce in un contesto geopolitico delicatissimo. Il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, avvenuto nel settembre 2022, fu inizialmente attribuito alla Russia, in un clima di forte tensione internazionale e di contrapposizione energetica tra Mosca e l’Unione Europea. Nel corso delle indagini, numerosi elementi hanno messo in dubbio quella versione per poi ribaltarla radicalmente: diverse inchieste giornalistiche prima e giudiziarie poi hanno evidenziato il coinvolgimento di cittadini ucraini e indicato il possibile coinvolgimento di altri soggetti legati a Paesi della NATO. Kuznietsov ha respinto ogni addebito sulla vicenda, sostenendo di essere vittima di un errore giudiziario e di pressioni politiche legate al contesto internazionale. Secondo quanto ricostruito in particolare dagli inquirenti tedeschi, sarebbe stato proprio lui a capo della missione partita alla volta dei gasdotti il 7 settembre 2022 da Rostock: con lui a bordo, quattro sommozzatori civili esperti e due militari d’élite. Proprio in questo quadro, l’arresto di Kuznietsov non è un caso isolato. All’inizio di ottobre un secondo cittadino ucraino, identificato come Volodymyr Z., è stato arrestato in Polonia, sempre su mandato della Germania, per presunta partecipazione allo stesso sabotaggio. Anche in quel caso, le autorità di Varsavia stanno valutando se procedere con l’estradizione, tra le perplessità del governo Tusk e l’irritazione di Berlino. L’inchiesta tedesca, finora, non ha fornito un quadro univoco. Alcuni rapporti interni suggeriscono che il gruppo responsabile dell’operazione potrebbe aver agito in modo indipendente, ma con accesso a mezzi tecnici di livello militare, mentre altre fonti internazionali – tra cui il giornalista statunitense Seymour Hersh – hanno ipotizzato il coinvolgimento di forze occidentali, in particolare statunitensi e norvegesi. Una tesi mai confermata, ma che continua ad alimentare divisioni e sospetti.
La decisione della Cassazione italiana arriva in un momento di crescenti tensioni diplomatiche in Europa, a margine della riunione dei ministri della Difesa NATO a Bruxelles per discutere proprio di regole comuni (tra cui una serie di misure anti-droni) e l’intensificazione del settore bellico. Il rifiuto di consegnare Kuznietsov alla Germania rappresenta, da un lato, la riaffermazione del principio di legalità e della tutela dei diritti processuali, dall’altro un potenziale attrito con Berlino, che considera l’indagine sul sabotaggio una questione di sicurezza nazionale. L’Italia, pur rispettando gli obblighi di cooperazione europea, ha scelto una linea di prudenza che sottolinea la necessità di garantire la correttezza formale e sostanziale dei procedimenti. Nei prossimi mesi, la nuova Corte d’appello dovrà riesaminare la posizione dell’ex militare ucraino. Oltre alla vicenda giudiziaria, resta l’interrogativo politico: chi ha davvero sabotato il Nord Stream? Una domanda che continua a pesare come un macigno sulle relazioni internazionali e sull’opinione pubblica europea, tra ombre di operazioni coperte, silenzi istituzionali e insabbiamenti. Il caso Kuznietsov, più che un episodio giudiziario, appare oggi come un simbolo: quello di un’Europa spaccata tra interessi strategici contrapposti, pressioni atlantiche, corsa al riarmo e l’urgenza di riaffermare la sovranità delle proprie istituzioni di fronte ai grandi giochi della geopolitica.
A Pescara, al liceo statale Marconi, una sostanza sospetta, forse ammoniaca, si è sprigionata all’interno dell’edificio, provocando malori tra studenti, insegnanti e vigili del fuoco. È stato attivato il protocollo per le maxi-emergenze: sul posto un posto medico avanzato con personale sanitario e ambulanze. Quattro persone sono ricoverate in ospedale, altre sono assistite sul luogo. Tra gli intossicati ci sarebbero anche alcuni vigili del fuoco.
Per mesi la maggiore azienda delle armi italiana, Leonardo SPA ha ribadito di non avere alcun ruolo nel genocidio palestinese. Eppure, a non credere all’azienda paiono essere gli stessi azionisti, tanto che dall’annuncio della tregua a Gaza il colosso bellico ha perso ben il 10,7% del valore delle proprie azioni. L’azienda aveva chiuso la giornata dell’8 ottobre con 56,20 euro per azione, calando a 55,48 il 9 ottobre, data di annuncio dell’accordo, e a 52,90 il 10 ottobre, giorno della ratifica. Da allora, il prezzo delle azioni di Leonardo è continuato a calare, raggiungendo ieri quota 50,18 euro per azione, il picco minimo da metà settembre.
Per due anni di fila (2023 e 2024), l’azienda ha registrato profitti da record, superando di molto le previsioni degli analisti. E nonostante le continue smentite dell’ad dell’azienda, Roberto Cingolani, le prove che collegano le armi made in Italy al genocidio a Gaza sono molteplici. Una su tutte è l’inchiesta della relatrice speciale ONU per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, che nel suo reportDall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio denuncia la complicità con il genocidio di Israele a Gaza di decine di aziende nel mondo. Tra queste vi è proprio l’italiana Leonardo, della quale lo Stato è azionista di maggioranza, accusata tra le altre cose di contribuire alla realizzazione degli armamenti impiegati nel genocidio (come quelli dei caccia F-35) e di aver trasformato in armamenti automatizzati i bulldozer D9 della statunitense Caterpillar (tramite la propria controllata RADA Electronic), impiegati per distruggere le abitazioni dei palestinesi in Cisgiordania. Nel 2024, poi, si è conclusa la fornitura di elicotteri AgustaWestland AW119Kx “Koala-Ofer”, impiegati da Tel Aviv per addestrare i militari della Israel Air Force presso la base di Hatzerim, nel deserto del Negev. La vendita, che fa parte di una serie di trattative iniziate nel 2019 e concluse nel 2022, non è stata interrotta nemmeno dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri Tajani, che aveva riferito che, «dopo un’attenta valutazione», anche alcuni dei contratti firmati prima del 7 ottobre sarebbero stati interrotti.
In merito alle accuse di complicità in genocidio, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera Cingolani ha dichiarato che «Si dice che poiché abbiamo contribuito a costruire i caccia F-35 venduti in tutto il mondo – incluso Israele – e poiché alcuni di questi F-35 sono utilizzati in questo orrendo conflitto, allora siamo complici di genocidio. Certo, partecipiamo a consorzi per la costruzione di tante tecnologie e piattaforme per la difesa. Ma dire che siamo corresponsabili di genocidio mi pare una forzatura inaccettabile». Per quanto riguarda le accuse di collaborazione con Israele per la fornitura di radar militari, Cingolani ha dichiarato che questi vengono venduti dalla DRS Technologies, della quale Leonardo è socia di maggioranza ma che «deve seguire le indicazioni del suo governo». Da quando è scoppiato il conflitto, specifica l’ad di Leonardo, «non è stata più autorizzata nessuna licenza di esportazione verso Israele», in base a quanto previsto dalla legge 185. Per quelle precedenti invece, riguardanti la fornitura degli elicotteri e degli aeroplani da addestramento, l’azienda sarebbe stata costretta a onorarli «per legge, anche in questa situazione tremenda». Come riferito dalle inchieste di Altreconomia, tuttavia, l’esecutivo avrebbe potuto fermare tutti i contratti precedentemente siglati con Israele proprio in forza di quanto previsto dalla legge 185, che autorizza a intervenire in caso di gravi violazioni delle norme internazionali.
Non si tratta solo di Leonardo: tutte le principali aziende di armi europee hanno registrato un progressivo calo del valore delle proprie azioni dal 9 ottobre scorso in poi. La tedesca Rheinmetall, la maggiore azienda di armamenti del Paese, ha chiuso la giornata di ieri registrando un calo dell’8,8%, la britannica BAE System del 5,6%. Un quadro analogo si era d’altronde verificato nell’agosto di quest’anno, alla vigilia dell’incontro in Alaska tra Trump e Putin, quando la pace tra Russia e Ucraina sembrava un po’ più vicina, facendo così crollare le azioni di Leonardo e di tutte le grandi aziende delle armi dell’UE (e salire quelle delle aziende coinvolte nella ricostruzione, come quelle del cemento).
Il governo ha convocato per martedì 28 ottobre alle 18 i sindacati metalmeccanici (Fim, Fiom, Uilm, Usb, Ugl) per un incontro a Palazzo Chigi volto a “un aggiornamento sulla situazione del Gruppo Acciaierie d’Italia”. Lo sciopero di 24 ore di oggi, 16 ottobre, resta comunque confermato su tutti i siti del gruppo ex Ilva.
Nel Canyon Dohrn, a 500 metri sotto il Golfo di Napoli, la spedizione scientifica Demetra del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha individuato una vasta scogliera di coralli bianchi. Le immagini sottomarine mostrano habitat di rara biodiversità, come colonie di Desmophyllum pertusum e Madrepora oculata e molluschi di profondità quali Acesta excavata e Neopycnodonte zibrowii. La scoperta, secondo i ricercatori, sostiene la proposta di inserire il Canyon Dohrn nella rete protetta comunitaria Natura2000.
Grazie ad esplorazioni effettuate con un veicolo sottomarino è stato osservato che le ...
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«Non ci sarà alcun aumento dell’età pensionabile da ora fino a gennaio 2028». In un tentativo disperato di restare al potere, Emmanuel Macron – attraverso il suo primo ministro Sébastien Lecornu – annuncia la sospensione della contestatissima riforma delle pensioni fino alle elezioni presidenziali del 2027. È una mossa al margine del baratro: i socialisti, che detengono in Parlamento il ruolo di ago della bilancia, avevano minacciato di ritirare la fiducia al governo in assenza di questa concessione. Lecornu ha accettato l’ultimatum, congelando l’innalzamento dell’età pensionabile e lo slittamento dell’aumento dei contributi.
La riforma delle pensioni, approvata nel 2023 senza passare per un voto diretto (grazie all’uso dell’articolo 49.3 della Costituzione), prevede l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni e l’allungamento degli anni di contribuzione necessari per ottenere una pensione piena. Il 14 ottobre, durante il discorso di politica generale all’Assemblea nazionale, Lecornu ha annunciato che proporrà formalmente al Parlamento la sospensione della riforma «fino alle presidenziali». La decisione è stata accolta con applausi in parte dei banchi socialisti, che già avevano posto come condizione la sospensione della legge per non presentare mozioni di sfiducia. Lecornu, che ritenta per ordine di Macron di fare un governo e una manovra finanziaria per la Francia, ha ribadito che la sospensione non può essere meramente simbolica, sottolineando che servirà una nuova soluzione condivisa. Sostegno alla decisione è arrivato anche da esponenti critici della riforma: l’ex ministra Ségolène Royal l’ha definita «ingiusta», e ha salutato con favore il congelamento, parlando di «riappacificazione sociale».
La mossa di Lecornu ha lo scopo dichiarato di neutralizzare l’attacco congiunto della sinistra radicale (La France Insoumise) e dell’estrema destra (Rassemblement National), entrambi pronti a presentare mozioni di censura, salvando così il destino traballante dell’Eliseo. Marine Le Pen, il cui partito viene dato come il favorito nei sondaggi in caso di nuove elezioni, torna a invocare il ritorno al voto. Tuttavia, nessuna mozione potrà avere successo senza l’appoggio del Partito Socialista, che in questa fase appare restio a premere il grilletto. Il segretario del PS, Olivier Faure, ha dichiarato stamattina che i suoi deputati introdurranno nella manovra la “tassa Zucman“, detta “sui super ricchi”, con un emendamento. La tregua, però, potrebbe rivelarsi solo un’arma a doppio taglio. La tassa ideata dall’economista Gabriel Zucman prevede un’imposizione straordinaria sull’1% della popolazione mondiale, i cosiddetti “super ricchi”, pari all’1,3%. Alla Francia, secondo i calcoli, potrebbe portare nelle casse dello Stato fra i 15 e i 25 miliardi di euro.
Se da un lato la sospensione neutralizza l’avversario politico più pericoloso, dall’altro può essere percepita come l’ammissione del fallimento della riforma, o come una rinuncia che mina la credibilità del governo stesso. Il rischio è che scelti i punti critici – pensioni, bilancio, scelte sociali – l’elettorato interpreti la mossa come debolezza: un Macron che retrocede dopo avere forzato la legge nonostante le infuocate proteste di piazza. Dal punto di vista economico, la sospensione avrà un costo stimato: 400 milioni di euro nel 2026 e 1,8 miliardi nel 2027, secondo alcune fonti francesi. In un momento in cui il deficit pubblico francese è sotto stretta osservazione e in presenza di vincoli europei, trovare risorse alternative sarà inevitabile. In Parlamento, Lecornu ha promesso di non fare ricorso al 49.3 per bypassare i passaggi legislativi, ma di sottoporre ogni proposta al dibattito e al voto. Sarà una prova di governo da sopravvivenza: ogni emendamento, ogni voto può essere micidiale.
La riforma delle pensioni sostenuta da Macron non è nuova fonte di tensione: nel 2023 aveva già provocato mesi di proteste dure, scioperi generali e scontri di strada. A marzo di quell’anno, in occasione dell’uso del 49.3 da parte del governo Borne, migliaia di manifestanti occuparono Place de la Concorde, furono effettuati gas lacrimogeni, decine di arresti, numerosi feriti. In città come Lione o Digione, l’ondata di mobilitazione fu forte e duratura: la riforma era percepita come un colpo al sistema sociale, un azzardo generazionale, uno scontro tra visioni disparate. Macron aveva allora mostrato il volto rigido del tecnocrate europeo, deciso a portare avanti la “modernizzazione” dello Stato a costo della pace sociale. Oggi, due anni dopo, l’inquilino dell’Eliseo tenta di salvarsi con la stessa freddezza calcolatrice che lo ha reso sempre più distante dal Paese reale. La sospensione della riforma non nasce da una rinnovata sensibilità verso le istanze sociali, ma da un puro istinto di sopravvivenza politica. Macron non cede per convinzione: arretra perché è accerchiato. Sospende la riforma per guadagnare tempo, non per cambiare rotta. Dietro la facciata di una tregua istituzionale, si nasconde un governo logorato, senza consenso, che tenta di resistere col bilancino dei compromessi. Lecornu diventa il suo scudo umano, la pedina sacrificabile di una partita già scritta, mentre Macron osserva da lontano e misura i sondaggi. La Francia reale, intanto, è sempre più esausta: salari fermi, crescente insicurezza dell’occupazione, l’uso crescente di contratti a termine e lavoro temporaneo, specialmente tra i giovani, precarietà dilagante.
Le autorità armene hanno arrestato sei sacerdoti, portando avanti quella ondata di repressione della chiesa armena iniziata la scorsa estate. A dare la notizia è stato l’avvocato dei sacerdoti: tutti gli esponenti del clero arrestati alla diocesi di Aragatsotn della Chiesa Apostolica nell’Armenia occidentale; tra di essi è presente anche lo stesso vescovo della diocesi, Mkrtich Proshyan. L’arresto dei sei sacerdoti arriva in un momento di scontro tra i vertici dello Stato e quelli della chiesa armena (che è acefala), accusata di tramare un colpo di Stato. Il Paese si sta infatti avvicinando alle elezioni, e il clero almeno è uno dei maggiori oppositori al partito all’esecutivo.
Dopo due anni di massacri in diretta streaming c’è chi ancora insiste nell’affermare che il genocidio palestinese sia solo frutto di un allestimento scenografico dei gruppi di resistenza della Striscia che con i loro effetti speciali hollywoodiani avrebbero preso in giro tutti i giornalisti del mondo. A farlo non è una persona qualunque, ma la capa ufficio stampa della Rai, Incoronata Boccia: «Dovremmo candidare Hamas al premio Oscar per la migliore regia», perché «non esiste una sola prova del fatto che siano state sventagliate mitragliate contro i civili inermi»; «vergogna, vergogna, vergogna», per il «suicidio del giornalismo» che ha riportato notizie «senza alcuna verifica delle fonti». Queste affermazioni sono solo la punta dell’iceberg di un discorso in cui Boccia alza l’asticella del negazionismo del genocidio palestinese. Intanto, come denuncia il sindacato Usigrai, davanti alle plateali menzogne e alle «accuse infondate all’informazione» pronunciate da una giornalista che ricopre un ruolo di rilevanza in Rai, «l’azienda resta muta».
Le parole di Boccia sono arrivate in occasione di un convegno sul 7 ottobre promosso dall’Unione delle comunità ebraiche italiane. «Si è parlato spesso del cinismo e della spietatezza dell’esercito israeliano, eppure non esiste una sola prova che siano state sventagliate delle mitragliate contro civili inermi. Eppure questo veniva raccontato, questo è stato detto senza alcuna verifica delle fonti. Vergogna, vergogna, vergogna, lo affermo tre volte», ha affermato Boccia di fianco a un compiaciuto David Parenzo. «Ci sarebbe da vergare un j’accuse tombale non solo sul suicidio dell’Occidente o di parte dell’Occidente, soprattutto l’Europa, ma sul suicidio del giornalismo. Io proporrei che oggi, da questa tavola rotonda, possa emergere una candidatura per Hamas: la vogliamo candidare all’Oscar per la miglior regia a cui noi giornalisti ci siamo piegati senza alcuno spirito critico?». Boccia ha poi contestato «l’uso ideologico della parola genocidio» chiedendo a coloro che la impiegano «con quale faccia usciranno di casa» durante la ricorrenza del giorno della memoria.
Dopo due anni di testimonianze, dichiarazioni, audio, foto e video, le affermazioni di Boccia si smentiscono da sole. Basta fare qualche esempio in cui le «prove» che la direttrice sostiene non esistere non sono solo verificate, ma confermate dallo stesso esercito israeliano: è il caso, per esempio, della strage della farina del 29 febbraio 2024, in occasione di cui le IDF scaricarono i propri fucili contro i civili in fila per ottenere il pane; per quel massacro fu il medesimo esercito a sostenere di essere responsabile, parlando di un «terribile incidente». O ancora, della strage di Rafah del 26 maggio 2024, in cui l’aviazione israeliana bombardò un campo profughi uccidendo 40 persone, molte di cui arse vive; anche in quel caso l’esercito si scusò affermando che si fosse trattato di un incidente. Ci sono poi le dichiarazioni dei gruppi umanitari internazionali che operano nella Striscia, le indagini indipendenti di esperti come la Relatrice ONU Francesca Albanese, e innumerevoli altre testimonianze: insomma, le affermazioni che Boccia ritiene essere «non verificate», in verità lo sono, e spesso dalla stessa parte israeliana. Per quanto riguarda la parola “genocidio”, oltre ai diversi rapporti di Albanese, è la stessa Corte di Giustizia Internazionale ad aver sancito che ci sono prove sufficienti per valutare tale accusa nei confronti di Israele.
Le parole di Boccia hanno scatenato una ondata di indignazione nelle opposizioni, che ne hanno richiesto la rimozione; anche la stessa Relatrice Albanese ha chiesto che la propaganda negazionista venga «indagata e punita». Boccia, dopo tutto, non è una giornalista qualunque. Ella ricopre una posizione dirigenziale e in quanto tale è portavoce della posizione della stessa azienda, dettando come, a parere suo, dovrebbe essere garantito il servizio pubblico dell’informazione. È per questo che Usigrai, il maggiore sindacato dell’emittente, ha chiesto ai vertici aziendali di esprimersi sull’accaduto: «Ciò che ha espresso la direttrice dell’Ufficio Stampa Rai in un convegno sul 7 ottobre che si è tenuto ieri al CNEL è la posizione dell’azienda?» si legge in un comunicato del sindacato, che rimarca come le parole di Boccia attacchino gli stessi giornalisti dell’emittente. Nonostante le richieste di Usigrai, i vertici Rai non hanno ancora rilasciato alcuna dichiarazione sulla vicenda.
Non è la prima volta che l’emittente pubblica o giornalisti che vi lavorano finiscono in mezzo alla bufera per il genocidio palestinese. Era già accaduto nel 2024, in occasione del festival di Sanremo, in cui i cantanti Ghali e Dargen D’Amico vennero silenziati per avere espresso posizioni in sostegno del popolo palestinese. Gli artisti si erano limitati a lanciare un appello per il cessate il fuoco e per fermare il genocidio, scatenando l’indignazione dell’ambasciata israeliana, che accusò il festival di essere un palco per la diffusione di «odio e provocazioni». Dopo le dichiarazioni dell’ambasciata, la Rai provò a tappare il buco: sul palco del Dopofestival la conduttrice Mara Venier lesse un comunicato dell’amministratore delegato, Roberto Sergio, in cui l’AD mostrava la sua solidarietà a Israele e agli ostaggi israeliani, senza menzionare una volta i civili palestinesi uccisi dalle IDF. In generale, la narrazione di Boccia si colloca sulla scia di una ondata di negazionismo del genocidio che sta prendendo piede anche in Italia, come testimoniato dai casi del Lava Café e di Gazawood. Lo stesso governo israeliano ha investito 150 milioni di dollari per portare avanti operazioni di propaganda e plasmare a proprio favore la narrazione pubblica del genocidio.
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