giovedì 6 Novembre 2025
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Corte Penale Internazionale accusa Duterte di crimini contro l’umanità

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L’ex presidente filippino Rodrigo Duterte è stato incriminato dalla Corte penale internazionale (CPI) con tre capi d’imputazione per crimini contro l’umanità. Le accuse riguardano almeno 76 omicidi tra il 2013 e il 2018, commessi durante la sua “guerra alla droga”, sia nei suoi anni da sindaco di Davao City, sia durante la presidenza. Duterte era stato arrestato lo scorso marzo a Manila, nelle Filippine, e da allora si trova in detenzione preventiva all’Aia, nei Paesi Bassi, dove ha sede la Corte. Duterte è il primo leader non africano a essere stato arrestato su mandato della Corte, per crimini di guerra e contro l’umanità, ed è l’unico a essere attualmente in detenzione. Un’udienza preliminare per la conferma delle accuse è stata posticipata perché i giudici devono valutare se Duterte, ora ottantenne, sia in grado di seguire il processo, su richiesta della difesa che ne contesta lo stato di salute.

Alluvioni nel centro-nord Italia: frane ed esondazioni, una dispersa in Piemonte

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Un’ondata di maltempo eccezionale ha colpito gran parte del Centro-Nord Italia, seminando danni, paura e mettendo in ginocchio interi territori. Dalla Lombardia alla Liguria, dal Piemonte alla Toscana, fiumi esondati, frane e allagamenti hanno provocato evacuazioni, chiusure stradali e ferroviarie, e messo a dura prova i soccorsi. A Milano, l’esondazione del fiume Seveso ha allagato quartieri e richiesto l’evacuazione di una scuola, mentre in Liguria il fiume Bormida ha superato la soglia di guardia. Nel frattempo, i vigili del fuoco sono alla ricerca di una cittadina tedesca dispersa in provincia di Alessandria, in Piemonte. Le criticità restano alte, con allerta arancione ancora in vigore in diverse regioni.

Il Dipartimento della Protezione Civile ha mantenuto l’allerta arancione per oggi, martedì 23 settembre, in Lombardia, Veneto e Lazio, e gialla su un’ampia fetta del Centro-Nord. Il cuore della crisi è in Lombardia. A Milano, il fiume Seveso è esondato nella zona nord, nel quartiere di Niguarda, dopo che la vasca di laminazione, entrata in funzione ieri alle 7.50, si è riempita in poche ore. L’esondazione, durata circa nove ore, ha allagato strade, invaso cantine e causato blackout. Particolarmente critica la situazione alla scuola di via Val Cismon, evacuata in serata dopo che i bambini erano rimasti bloccati per ore; i vigili del fuoco hanno compiuto oltre cento interventi in città. La provincia di Monza e Brianza è stata travolta da una vera e propria piena. A Meda, il Seveso e il torrente Tarò sono esondati, inghiottendo auto e costringendo il Comune a diramare un avviso urgente alla popolazione: «Uscite di casa solo in caso di bisogno». Riprese aeree mostrano veicoli sommersi dall’acqua. Criticità anche a Bovisio Masciago, dove alcune persone sono rimaste intrappolate in auto sulla strada statale Saronno-Monza. Nel Comasco, a Cabiate, sono in corso evacuazioni con l’elicottero di persone bloccate ai piani alti delle abitazioni. La provincia è paralizzata: una frana ha chiuso la statale Lariana tra Como e Blevio, mentre il capoluogo lariano è sott’acqua, con un fiume di fango che ha invaso la zona della stazione, costringendo all’evacuazione di due famiglie.

In Liguria, l’allerta arancione ha portato alla chiusura delle scuole in tutti i capoluoghi, ad eccezione di Imperia. La Val Bormida nel Savonese è l’area più colpita: il fiume è esondato a Dego e Cairo Montenotte, dove l’ospedale San Giuseppe ha subito danni. A Dego sono caduti fino a 413 millimetri di pioggia in sole otto ore. Le intense precipitazioni hanno causato frane e allagamenti diffusi, portando alla chiusura di tratti della statale Savona-Torino e alla sospensione del traffico ferroviario sulla linea Savona-Alessandria. Proprio in provincia di Alessandria si registra un disperso: si tratta di una cittadina tedesca dispersa nel torrente Valla, a Spigno Monferrato. Sul posto sono impegnati una trentina di vigili del fuoco, supportati da droni e dall’elicottero Drago per il monitoraggio aereo della zona. La perturbazione non ha risparmiato altre regioni. In Toscana, una tromba d’aria ha danneggiato stabilimenti balneari in Versilia, mentre nubifragi hanno allagato il Grossetano e l’Isola d’Elba. In Valle d’Aosta, una frana ha chiuso una strada regionale.

L’invito ai cittadini nelle aree più a rischio fatto pervenire dalla Protezione Civile è di massima prudenza: evitare parchi, sottopassi e zone vicino ai corsi d’acqua, mentre le squadre di soccorso sono al lavoro per far fronte a un’emergenza che, con il persistere delle piogge, rischia di aggravarsi.

Il Pentagono impone la censura: vietato divulgare notizie non autorizzate

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Il Pentagono ha introdotto nuove restrizioni per l’accesso dei media, come annunciato in un memorandum diffuso dal portavoce capo Sean Parnell e anticipato già a maggio dal Segretario della Guerra, Pete Hegseth. Le direttive obbligano i giornalisti accreditati a firmare un impegno formale con cui dichiarano di non poter diffondere informazioni non autorizzate senza l’approvazione preventiva di un funzionario designato. A differenza del passato, quando la stampa godeva di un accesso quasi illimitato e paragonabile a quello del Campidoglio, con la possibilità di muoversi liberamente all’interno dell’edificio e intercettare funzionari o generali in visita, d’ora in poi l’accesso sarà rigidamente regolato e controllato. Le nuove credenziali sostituiranno quelle esistenti e saranno soggette a rinnovi più frequenti, mentre il transito all’interno del Pentagono verrà limitato a zone prestabilite, spesso solo se accompagnati da personale autorizzato. In caso di violazione, la sanzione sarà il ritiro immediato dell’accredito e l’esclusione dalla copertura giornalistica delle attività del Dipartimento della Guerra (nuovo nome del Dipartimento della Difesa). Il provvedimento riguarda non solo le informazioni classificate, ma anche quelle considerate “sensibili” o “non autorizzate”, una definizione volutamente ampia che affida al Pentagono il potere di stabilire cosa può o non può essere pubblicato.

Il portavoce del Pentagono, Sean Parnell, ha giustificato le nuove direttive con la necessità di rafforzare la sicurezza operativa e prevenire fughe di notizie sensibili. Hegseth su X ha voluto invece rimarcare la natura politica del cambio di passo, dichiarando che la stampa non ha alcun diritto di dettare le regole all’interno dell’edificio simbolo della difesa americana: «Non è la stampa a gestire il Pentagono, ma il popolo. O si seguono le regole o si va a casa». Le reazioni non si sono fatte attendere e hanno attraversato il mondo dell’informazione come un fulmine. Giornalisti, associazioni e sindacati della stampa hanno parlato apertamente di censura preventiva, considerata dalla giurisprudenza statunitense una delle violazioni più gravi della libertà di stampa, richiamando il principio del Primo Emendamento della Costituzione americana. Il National Press Club ha chiesto al Pentagono di revocare le nuove regole e ha sottolineato che, se ogni notizia deve ottenere il timbro del governo prima della pubblicazione, i cittadini finiranno per leggere soltanto ciò che le autorità vogliono rendere pubblico. La Society of Professional Journalists ha definito la misura un caso da manuale di “prior restraint” (“censura preventiva”), espressione che indica nel diritto costituzionale statunitense qualsiasi misura con cui lo Stato impedisce in anticipo la pubblicazione o la diffusione di informazioni, articoli o notizie. Anche i grandi quotidiani americani, dal Washington Post al New York Times, hanno espresso preoccupazione per l’impatto di queste misure, che rischiano di ridurre il giornalismo a mera cassa di risonanza della propaganda ufficiale. Il dibattito ha assunto subito una dimensione politica, con l’amministrazione pronta a difendere la scelta in nome della sicurezza nazionale, mentre le organizzazioni per i diritti civili avvertono che la definizione troppo ampia di “informazioni non autorizzate” potrebbe trasformarsi in un grimaldello per colpire qualsiasi inchiesta scomoda. Il nodo costituzionale rimane centrale: imporre l’approvazione preventiva anche su materiale non classificato significa di fatto alterare l’equilibrio tra potere esecutivo e libertà di informazione, creando un precedente che mina l’indipendenza della stampa e rischia di restringere lo spazio di trasparenza all’interno delle istituzioni democratiche.

Non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, il rapporto tra Pentagono e media si era già irrigidito, con restrizioni crescenti sull’accesso degli inviati, limitazioni logistiche e una progressiva riduzione degli spazi di autonomia. Con le direttive di Hegseth, però, la soglia è stata superata: non si parla più soltanto di accesso contingentato, ma di controllo diretto sui contenuti. È un passaggio che ridefinisce il confine tra sicurezza nazionale e diritto a informare, segnando un punto di non ritorno nelle relazioni tra potere militare e stampa. I rischi sono evidenti. La nuova disciplina può indurre testate e giornalisti a praticare l’autocensura pur di mantenere l’accredito, riducendo la capacità di portare alla luce scandali, abusi o decisioni discutibili. Il controllo pubblico sulle operazioni militari, già difficile in un contesto dominato dal segreto, rischia così di diventare quasi impossibile. Inoltre, l’esempio del Pentagono potrebbe aprire la strada a misure analoghe in altre agenzie federali, contribuendo a diffondere una cultura della segretezza istituzionalizzata. Sul piano giuridico non è escluso che la partita si sposti presto nei tribunali, con associazioni e gruppi per i diritti civili pronti a contestare la costituzionalità del memorandum. Il Congresso potrebbe a sua volta intervenire, se la pressione dell’opinione pubblica dovesse crescere. Nel frattempo, a livello internazionale, la vicenda rischia di minare ulteriormente l’immagine degli Stati Uniti come paladini della libertà di stampa, proprio in un’epoca in cui Washington rivendica di difendere i valori democratici contro i regimi autoritari ma, si sta incamminando progressivamente lungo la china della deriva autoritaria, strumentalizzando l’omicidio di Charlie Kirk per silenziare i “nemici” interni, punire il dissenso e militarizzare il Paese. Il cambio di nome del Dipartimento della Difesa in “Dipartimento di Guerra” non è soltanto simbolico: in tempi di conflitto e disordine mondiale, anche la libertà di stampa viene compressa, fino a rischiare di soccombere. Il bavaglio imposto al Pentagono non è quindi soltanto una questione interna, ma un banco di prova che riguarda l’intero sistema democratico. La posta in gioco è chiara: la possibilità, per i cittadini americani e per l’opinione pubblica mondiale, di continuare ad accedere a informazioni libere, pluralistiche e indipendenti sulle decisioni del Paese più potente del mondo.

Jimmy Kimmel torna in tv: la Disney revoca la sospensione dopo le polemiche

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La Disney ha annunciato che “Jimmy Kimmel Live!” tornerà in onda martedì, sei giorni dopo la sospensione decisa a seguito di un monologo del conduttore in cui aveva accusato il movimento MAGA di aver strumentalizzato la morte dell’attivista conservatore Charlie Kirk. La decisione era arrivata dopo le pressioni da parte della Casa Bianca e di Brendan Carr, presidente della Federal Communications Commission (FCC), che aveva condannato pubblicamente le affermazioni di Kimmel, avvertendo Disney e ABC che sarebbero potute arrivare conseguenze regolatorie se non fossero stati presi provvedimenti. Disney afferma che il ritorno dello show è stato deciso dopo “conversazioni approfondite” con Kimmel. Turning Point USA, l’organizzazione fondata da Charlie Kirk, ha criticato la scelta della rete di far tornare lo show sugli schermi, denunciando una resa alle pressioni. Il caso ha acceso un dibattito sulla libertà di espressione nei media, sui limiti del commento satirico politico e sul ruolo delle emittenti nel gestire contenuti controversi.

Dieci nuovi Paesi riconoscono la Palestina: l’Italia rimane quasi sola in difesa di Israele

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Con l’avvio dell’ottantesimo ciclo dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite altri dieci Paesi si sono uniti alla lista degli Stati che riconoscono la Palestina. Si tratta di Andorra, Australia, Belgio, Canada, Francia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Portogallo e Regno Unito, a cui nei prossimi giorni potrebbero seguire altri Stati. Tra questi ultimi, tuttavia, non figura l’Italia: davanti a una platea di rappresentanti che annunciavano il proprio riconoscimento della Palestina, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto che «l’Italia supporta con forza il sogno del popolo palestinese di avere uno Stato»; l’ennesima dichiarazione verbale priva di reale contenuto, volta a mostrare il sostegno italiano alla causa palestinese solo attraverso slogan e frasi fatte, rilasciata mentre nelle piazze di tutto il Paese centinaia di migliaia di persone manifestavano il proprio supporto concreto alla Palestina.

Gli ultimi riconoscimenti della Palestina da parte degli Stati dell’ONU sono stati inaugurati domenica 21 settembre da Canada, Portogallo e Regno Unito. Ieri, si sono uniti all’appello anche gli altri sette Paesi, che hanno così portato il numero di Stati membri dell’ONU che riconoscono la Palestina a 157 su un totale di 193, tra cui figurano anche i tre membri del G7 appena aggiuntisi (Canada, Francia e Regno Unito). Il ministro degli Esteri del Belgio ha spiegato alla emittente RTL Info che riconoscerà la Palestina in due fasi: prima «politicamente» per dare «un forte segnale diplomatico» nell’attuale momento di crisi; poi arriverà «il momento della formalizzazione giuridica tramite decreto reale». Gli annunci dei dieci Paesi arrivano dopo quello rilasciato dal presidente francese Macron lo scorso luglio, che ha dichiarato che la Francia avrebbe riconosciuto la Palestina con l’avvio del nuovo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU. Le dichiarazioni di Macron hanno aperto la porta ad analoghi annunci, che si stanno lentamente concretizzando. Tra i Paesi che stanno valutando il riconoscimento della Palestina figurano ancora almeno Lichtenstein, Nuova Zelanda e San Marino.

Il recente slancio dei Paesi occidentali nel riconoscimento dello Stato di Palestina arriva dopo un primo moto avviato l’anno scorso da diversi altri Stati tra cui figurano Irlanda, Slovenia e Spagna. Con queste nuove aggiunte, la maggioranza dell’UE riconosce ufficialmente lo Stato di Palestina; tra i maggiori Paesi comunitari, continuano tuttavia a mancare all’appello l’Italia e la Germania, altri due membri del G7. Le parole usate ieri da Tajani sono in linea con le dichiarazioni rilasciate negli ultimi due anni dal governo italiano: forti nei toni, vuote nei fatti. L’Italia, ha detto il ministro, crederebbe fortemente nella soluzione a due Stati e appoggerebbe l’istituzione di uno Stato palestinese; nonostante ciò, non ha intenzione di riconoscerlo. L’esecutivo ha spesso sostenuto che un riconoscimento formale della Palestina sarebbe controproducente schierandosi più volte a favore di un riconoscimento soggetto al benestare e alle condizioni israeliane. Per quanto gli altri Paesi abbiano fatto passi avanti formali nel riconoscimento della Palestina, le condizioni italiane non differiscono troppo da quelle degli altri Stati. La Palestina che è stata riconosciuta dalla Francia è infatti uno Stato soggetto a supervisione politica e militare esterna, e ancora lontano dall’esistenza di fatto; per permettere realmente l’istituzione di una entità palestinese, andrebbe infatti fermato il genocidio in Palestina, attraverso misure concrete contro lo Stato di Israele, come sanzioni, embargo e sospensioni degli scambi commerciali e istituzionali.

‘Ndrangheta, maxi blitz contro i Piromalli: 26 arresti, il boss in manette

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Ventisei persone sono state arrestate nell’operazione “Res Tauro” contro la potente cosca Piromalli, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria e condotta dai carabinieri del Ros. Tra i fermati figura il boss ottantenne Pino Piromalli, detto “Facciazza”, già detenuto per 22 anni al 41 bis e scarcerato nel 2021, ora indicato come capo e promotore del clan di Gioia Tauro. Gli indagati devono rispondere di associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio, armi e altri reati aggravati dal metodo mafioso. L’inchiesta, guidata dal procuratore aggiunto Stefano Musolino, ha ricostruito gli assetti della cosca.

“Droni non identificati” in Danimarca e Norvegia: chiusi gli aeroporti

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Nella sera di ieri, lunedì 22 settembre, Danimarca e Norvegia hanno detto di avere registrato la presenza di droni non identificati nel proprio spazio aereo. Il primo rilevamento è avvenuta attorno alle 20:30, presso l’aeroporto della capitale danese, Copenaghen; le autorità sostengono di avere registrato l’attività di due o tre droni senza riuscire a identificarli e hanno disposto la chiusura dell’aeroporto, che ha sospeso le proprie attività per circa quattro ore. Il secondo rilevamento è avvenuto verso mezzanotte nella capitale norvegese, Oslo, dove sarebbe stato presente un drone; anche in questo caso, l’aeroporto è stato chiuso. Le autorità dei due Paesi stanno collaborando nelle indagini sulla provenienza dei velivoli.

Gli incidenti petroliferi in mare sono drasticamente diminuiti negli ultimi decenni

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Negli ultimi cinquant'anni, gli sversamenti di petrolio dalle navi petrolifere sono diminuiti di trenta volte. A dirlo sono le statistiche dell'International Tanker Owners Pollution Federation (ITOPF), una delle principali fonti di studio e consulenza tecnica marittima dell'ambito. Secondo i dati dell'ITOPF, nel 2024, il volume totale di petrolio disperso nell'ambiente a causa delle fuoriuscite di navi cisterna è stato di circa 10.000 tonnellate, contro le oltre 300.000 che si registravano con cadenza quasi annuale negli anni '70. Tale miglioramento avviene a fronte dell'aumento del commercio ...

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Bruxelles, terzo giorno di disagi per cyberattacco all’aeroporto

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Terzo giorno di disagi all’aeroporto di Bruxelles Zaventem dopo il cyberattacco che sabato ha bloccato il sistema di check-in Muse di Collins Aerospace. Oggi risultano già cancellati 30 voli e 80 sono in ritardo, con forti ripercussioni anche sui collegamenti con l’Italia: soppressi i voli per Linate e Fiumicino in mattinata, e in serata quelli per Malpensa e Roma operati da Brussels Airlines ed EasyJet. La Commissione Ue ha richiamato l’urgenza di applicare la direttiva NIS2 sulla sicurezza informatica. Collins Aerospace ha assicurato che gli aggiornamenti del sistema saranno completati entro domani.

Secondo uno studio gli smartphone prima dei 13 anni potrebbero danneggiare la salute mentale a lungo termine

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Ricevere uno smartphone da bambini, nonostante sembri ormai una pratica sempre più frequente, potrebbe rivelarsi un dettaglio tutt’altro che innocuo e impattare significativamente sulla salute mentale anche in età adulta. È quanto emerge da un recente studio realizzato da un team internazionale di ricercatori, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Human Development and Capabilities. Estrapolando e analizzando i dati ottenuti da un database globale, gli autori hanno scoperto che i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che avevano ricevuto un dispositivo a 12 anni o prima riferiscono più spesso pensieri suicidi o riguardanti aggressività, distacco dalla realtà e ridotta capacità di controllare le emozioni. «L’uso precoce di uno smartphone e l’accesso ai social media che ne consegue sono associati a un cambiamento profondo del benessere mentale nella prima età adulta», afferma la neuroscienziata e coautrice Tara Thiagarajan, aggiungendo che il fenomeno appare coerente in culture e lingue differenti e che servirebbero azioni concrete per proteggere le generazioni future.

Dagli anni Duemila i cosiddetti telefoni intelligenti – computer tascabili e connessi a internet – hanno trasformato l’adolescenza: permettono contatti immediati, apprendimento continuo e intrattenimento illimitato, anche se d’altra parte espongono anche a contenuti dannosi amplificati dagli algoritmi. Le principali piattaforme social, spiegano gli esperti, fissano a 13 anni l’età minima di registrazione, tuttavia il controllo è spesso assente e l’età reale di primo accesso sembra continuare a scendere. In parallelo, le scuole e i governi oscillano fra divieti parziali e libertà totale: Francia, Paesi Bassi e Italia hanno introdotto limiti d’uso in classe, mentre New York e altri stati americani hanno appena adottato norme restrittive. La letteratura scientifica sul tempo davanti allo schermo e sulla salute mentale, inoltre, offre risultati talvolta discordanti: alcuni studi parlano di effetti negativi, mentre altri non trovano correlazioni forti, spesso – secondo gli autori – perché si concentrano solo su sintomi classici come ansia e depressione, trascurando segnali diversi come aggressività o disconnessione dal reale. Per chiarire il quadro, è stato avviato il Global Mind Project, un database planetario che raccoglie profili psicologici e dati di contesto, misurando con il Mind Health Quotient (MHQ) – un indice che integra funzioni sociali, emotive, cognitive e fisiche – la condizione mentale su una scala che va da –100 (grave disagio) a +200 (pieno benessere).

Dall’analisi di oltre 100.000 persone tra 18 e 24 anni emerge un andamento netto: chi possedeva il primo smartphone a 13 anni ottiene un punteggio medio MHQ di 30, che precipita a 1 per chi lo aveva già a cinque anni. Le percentuali di soggetti “in difficoltà” aumentano del 9,5% fra le donne e del 7% fra gli uomini, e i sintomi più associati all’uso precoce includono pensieri suicidi, aggressività e sensazione di essere staccati dalla realtà, mentre fra le funzioni più compromesse figurano autostima, immagine di sé, calma emotiva ed empatia. Circa il 40% dell’associazione negativa è spiegato dall’accesso anticipato ai social media mentre contribuiscono anche relazioni familiari problematiche (13%), cyberbullismo (10%) e disturbi del sonno (12%). «La portata del potenziale danno è troppo grande per essere ignorata», sottolinea Thiagarajan, aggiungendo che i politici dovrebbero adottare quattro misure: alfabetizzazione digitale e mentale obbligatoria, applicazione rigorosa dei limiti d’età con responsabilità delle aziende tecnologiche, restrizione dell’accesso alle piattaforme social sotto i 13 anni e un sistema di “telefoni per ragazzi” con funzioni ridotte. Infine, pur riconoscendo che la causalità diretta non è ancora dimostrata, il gruppo di autori ritiene necessario agire in via precauzionale, in quanto «attendere prove inconfutabili rischia di farci perdere la finestra temporale per un intervento preventivo».