L’Oktoberfest è stato evacuato e chiuso al pubblico fino alle 17 per un allarme bomba scattato in seguito a un’esplosione e a un incendio in un’abitazione di Monaco, sulla Lerchenauer Strasse che collega il Parco Olimpico al quartiere universitario. Nella casa è stato trovato il corpo di un uomo con ferite da arma da fuoco e, secondo fonti locali, sarebbero stati rinvenuti materiali esplosivi. Secondo il quotidiano tedesco Bild l’uomo avrebbe tentato di far saltare in aria la casa dei genitori con dell’esplosivo, poi si sarebbe tolto la vita. Le autorità hanno disposto la chiusura del festival per precauzione, mentre artificieri e polizia stanno conducendo accertamenti per verificare possibili collegamenti con l’evento. La Farnesina ha fatto sapere che non risultano cittadini italiani coinvolti.
La pace è “woke”: Trump presenta il nuovo Dipartimento della Guerra USA
«Eravamo diventati il Dipartimento woke. Ma ora non più. L’era del Dipartimento della Difesa è finita, benvenuti in quello della Guerra». Con queste parole il segretario alla Difesa Pete Hegseth, nel suo discorso rivolto a centinaia di alti comandanti militari alla Marine Corps Base di Quantico, in Virginia, ha sancito il cambio di paradigma voluto da Donald Trump: il Pentagono non è più il custode della Difesa, ma il cuore pulsante di un nuovo “Dipartimento della Guerra”. Una scelta simbolica e politica che segna un ritorno al passato, quando, fino al 1947, la struttura militare americana si presentava con questo stesso nome, e allo stesso tempo un rovesciamento retorico di sapore orwelliano, che trasforma la pace in debolezza, la difesa in offesa, la protezione in attacco. Davanti a centinaia di generali riuniti a Quantico, Hegseth ha attaccato le precedenti leadership militari, accusate di aver indebolito l’esercito con le “sciocchezze ideologiche” progressiste – come le preoccupazioni per il cambiamento climatico, il bullismo o le promozioni basate sulla razza o sul genere – e di aver perso di vista la missione essenziale: prepararsi alla guerra e vincerla. Al tempo stesso, ha invitato chi non condivide la nuova linea a dimettersi, ridicolizzato i comandanti che non incarnano lo spirito di forza e disciplina, criticato aspramente l’inclusione femminile se non allineata agli standard maschili. Da oggi, ha annunciato Hegseth, si torna a standard fisici rigorosi con un inasprimento delle norme sulla forma fisica. Il nemico da combattere non è soltanto esterno, ma soprattutto interno: la cultura della diversità e dell’inclusione, definita “woke”, è considerata da questa amministrazione un’arma che corrode dall’interno la macchina bellica americana.
Anche i test di idoneità cambieranno, con le truppe da combattimento tenute a sostenere valutazioni neutre rispetto al genere e con un punteggio di età superiore al 70%. Inoltre, tutti i membri del servizio dovranno superare l’allenamento fisico e i controlli di altezza e peso due volte all’anno. Cambia tutto anche in materia di standard estetici: saranno vietati barbe, capelli lunghi e “espressioni individuali superficiali”, con un ritorno a un aspetto professionale e rasato. «Le uniche persone che meritano la pace sono quelle disposte a fare la guerra per difenderla. Ecco perché il pacifismo è così ingenuo e pericoloso», ha dichiarato Hegseth, secondo cui «o proteggi il tuo popolo e la tua sovranità o sarai sottomesso da qualcosa o qualcuno». Trump, intervenuto di persona, ha rincarato la dose. Ha rivendicato di aver “ricostruito l’esercito” proprio licenziando i generali che non seguivano i suoi ordini, ammonendo i presenti con il suo celebre “You’re fired” (“Sei licenziato”). Ha parlato di una “invasione dall’interno” che trasforma le città americane in veri e propri teatri di guerra, in cui il nemico non porta uniforme e non si distingue a occhio nudo. Da qui la proposta del presidente: le città americane che, come Portland, sembrano «una zona di guerra» vedranno sempre di più il dispiegamento dei militari americani, che potranno usarle anche per addestrarsi. Ha ribadito che l’arsenale nucleare statunitense è il più potente del mondo, affermando di sperare di non doverlo mai usare, ma lasciando intendere che la sua disponibilità costituisce la vera garanzia della pace. Nel suo discorso alla platea di vertici militari ha fatto riferimento diretto alle bombe nucleari e alle minacce che arrivano dalla Russia: «Siamo stati minacciati un pochino dalla Russia recentemente e io ho inviato un sottomarino, un sottomarino nucleare, l’arma più letale che sia stata mai fatta. Numero uno, non si può localizzare, siamo 25 anni avanti rispetto a Cina e Russia sui sottomarini». In questo scenario, la pace viene celebrata come conquista ottenuta solo attraverso la forza. Trump non ha rinunciato alla sua ossessione per il Nobel per la pace, ricordando come a suo dire avrebbe risolto sette guerre senza ricevere il riconoscimento. Un’uscita che mostra l’incredibile contraddizione di fondo: autoproclamarsi pacificatore mentre si rilancia la logica della guerra permanente. Va in questa direzione quanto emerso grazie a un sistema di tracciamento open source che ha rivelato, nelle scorse ore, un dispiegamento su larga scala di aerei cisterna dell’Aeronautica Militare statunitense verso il Qatar, alimentando speculazioni su un’imminente azione contro l’Iran. Gli aerei KC-135 Stratotanker e KC-46 Pegasus sono in rotta verso la base aerea di Al Udeid, a indicare una maggiore prontezza militare statunitense.
Alcuni generali, dietro le quinte, avrebbero espresso riserve, come già anticipato dal Washington Post: la concentrazione ossessiva sul nemico interno rischia di far dimenticare sfide più complesse e reali, come l’ascesa della Cina. Ma la macchina comunicativa trumpiana non ammette esitazioni: chi non si allinea viene rimosso, chi resta deve giurare fedeltà assoluta. Hegseth ha anche annunciato una serie di tagli e riforme all’esercito statunitense, spiegando che «È quasi impossibile cambiare una cultura con le stesse persone che hanno contribuito a creare o addirittura beneficiato di quella cultura». Il capo del Pentagono ha ordinato una riduzione del 10% nel numero di generali e ammiragli in tutte le forze armate, con un taglio più drastico del 20% per i generali e ammiragli a quattro stelle e ha invitato i comandanti di più alto grado che non concordano con la sua visione a dimettersi. L’operazione appare come una controrivoluzione culturale che mira a epurare le Forze armate da ogni traccia di pluralismo o dissenso, ripristinando un modello di comando verticale, duro e monolitico. Il ribattezzato Dipartimento della Guerra non è soltanto un nuovo nome, ma una vera e propria dichiarazione ideologica: se la pace è “woke”, la guerra diventa il linguaggio naturale del potere. La contrapposizione non è più tra guerra e pace, ma tra forza e debolezza, tra supremazia e resa. In questo quadro, l’America si presenta come una nazione che non cerca più di difendere l’ordine mondiale, ma di imporlo con una politica muscolare e aggressiva, con la minaccia costante al ricorso della violenza. Intanto, mentre si discute della nuova politica del Pentagono, gli Stati Uniti sono entrati ufficialmente in shutdown, con il congelamento di parte dell’amministrazione federale: è la prima volta che accade in sette anni e al momento non c’è una soluzione in vista per l’impasse di bilancio al Congresso americano. Lo scontro riguarda i fondi per la sanità, con i repubblicani che hanno bocciato l’estensione dei sussidi dell’Obamacare. Trump, durante il suo primo mandato presidenziale fu protagonista della sospensione amministrativa più lunga della storia americana: 35 giorni, dal 22 dicembre 2018 al 25 gennaio 2019, con una piccola ininfluente pausa all’inizio. Allora, il nodo del contendere riguardava i cosiddetti Dreamers e le risorse per la costruzione del muro al confine con il Messico. Ora, la crisi di bilancio rischia di aggravarsi, acuendo non solo la frattura tra Trump e l’opposizione, ma anche quella tra la Casa Bianca e un mondo che osserva con crescente inquietudine le sue prossime mosse.
Trasnova, Stellantis diserta il tavolo con governo e sindacati: 300 lavoratori a rischio
Per la terza volta consecutiva Stellantis ha disertato il tavolo con rappresentanti sindacali e governo, riunitisi ieri a Roma per trovare una soluzione alla vertenza Trasnova, azienda dell’indotto che insieme alle subappaltatrici Logitech, Teknoservice e CSA si occupa della logistica. La commessa, in scadenza a dicembre, riguarda circa 300 dipendenti i quali, in assenza di un accordo, rischiano di perdere il posto di lavoro dal primo gennaio 2026. I sindacati confederali presenti a Roma chiedono al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) di far tornare Stellantis sui propri passi e prorogare il contratto, come già successo l’anno scorso al culmine di due settimane di mobilitazione organizzate dai lavoratori. Questi ultimi sono pronti a scendere in piazza e a far sentire la propria voce in tutte le sedi possibili. Sullo sfondo si giocherà la partita tra il governo e la multinazionale dell’automotive che a suon di perdite, cassa integrazione e assenza di piani industriali guarda altrove, riservando all’Italia le scorie della delocalizzazione.
«Siamo delusi. Dopo dieci mesi di trattative non ci hanno ancora proposto soluzioni concrete», racconta a L’Indipendente Gianluca Bencivenga, tra i dipendenti Trasnova che rischiano il posto di lavoro. Il tavolo organizzato ieri a Roma dal MIMIT è stato disertato da Stellantis e quindi si è concluso con un nulla di fatto. Il gruppo italo-francese non sembrerebbe intenzionato a rinnovare il contratto a Trasnova, preferendo internalizzare le spedizioni delle automobili prodotte, ad oggi gestite dall’azienda frusinate e dalle ditte subappaltatrici. In alternativa alla proroga del contratto, i sindacati confederali chiedono garanzie per un passaggio di prestazioni verso nuovi appaltanti. Con più cautela discutono della via prospettata dall’esecutivo, quella del ricollocamento (outplacement), che in passato ha dimostrato limiti e criticità nell’efficacia del reinserimento lavorativo.
Al momento Trasnova, di fronte al muro eretto da Stellantis, prospetta la via del licenziamento per i suoi dipendenti (un centinaio), il che provocherebbe un effetto domino per le ditte subappaltatrici, coinvolgendo nel complesso 300 lavoratori. Le conseguenze di tale scenario potrebbero andare anche oltre, rappresentando un precedente importante nell’indotto Stellantis, soprattutto se si considera che la multinazionale dell’automotive è sempre più intenzionata a lasciare l’Italia per spostare la produzione all’estero, Serbia in primis. Soltanto pochi giorni fa Stellantis ha annunciato una nuova ondata di cassa integrazione in sei stabilimenti europei; negli ultimi quattro anni l’erede della FIAT ha tagliato quasi diecimila posti di lavoro. I dipendenti sono infatti crollati dalle 37.288 unità del 2020 alle 27.632 nel 2024, per un’emorragia di forza-lavoro che si accompagna a quelle delle vendite e della produzione.
Le uniche certezze restano i dividendi per gli azionisti e gli assegni da capogiro per gli amministratori delegati. Il successore di Carlos Tavares, Antonio Filosa, si è aggiudicato uno stipendio annuale base di 1,8 milioni di dollari, cui si aggiungono svariati bonus che potrebbero permettere al nuovo Ad di guadagnare fino a 24 milioni di dollari l’anno, circa 1100 volte in più rispetto a quanto percepisce un operaio Stellantis.
Filippine, terremoto di magnitudo 6.9: decine di morti e danni gravi
Un violentissimo sisma di magnitudo 6,9 ha colpito le Filippine centrali con epicentro al largo di Bogo, una città costiera di circa 90mila abitanti sull’isola di Cebu. Il bilancio provvisorio parla di almeno 60 morti e oltre 140 feriti, mentre decine di edifici risultano distrutti o gravemente danneggiati. Gli ospedali locali sono al collasso, le squadre di soccorso lavorano nelle macerie e le autorità avvertono che il numero delle vittime rischia di salire. Le piogge intermittenti e i danni a ponti e strade stanno ostacolando le operazioni di soccorso.
Parigi, trovato morto ambasciatore del Sudafrica in Francia: ipotesi suicidio
L’ambasciatore del Sudafrica in Francia, Emmanuel Nkosinathi Mthethwa, 50 anni, è stato trovato morto oggi, martedì 30 settembre, davanti all’hotel Hyatt Regency Paris Étoile, nel XVII arrondissement. La polizia lo cercava da lunedì, dopo la denuncia di scomparsa della moglie, che aveva ricevuto un “messaggio preoccupante”. Mthethwa aveva prenotato una camera al 22esimo piano dell’albergo, dove la finestra risultava forzata nonostante non potesse aprirsi completamente. Tra le ipotesi al vaglio degli inquirenti c’è il suicidio. La procura di Parigi ha aperto un’indagine per chiarire le circostanze della morte.
Pakistan, attentato suicida nel Belucistan: 10 morti
Oggi in Pakistan, nella regione separatista del Belucistan è stato condotto un attentato suicida in seguito al quale sono state uccise almeno 10 persone e altre 33 sono rimaste ferite. L’attentato, riportano le autorità, è avvenuto all’esterno della sede di una forza paramilitare situata nella città di Quetta, una delle principali città della regione. Dopo l’attacco, diversi uomini armati hanno fatto irruzione nel quartier generale innescando uno scontro a fuoco con i paramilitari. Il Belucistan è una regione da tempo al centro di moti indipendentisti tanto in Pakistan quanto in Iran; Islamabad accusa l’India di finanziare i movimenti separatisti, ma Nuova Dehli ha sempre rigettato le accuse.
«Malato e affaticato»: i media tornano a speculare sulla salute di Putin
Da anni, con cadenza quasi ciclica, la stampa occidentale torna a speculare sulle presunte condizioni di salute di Vladimir Putin. Non importa che le voci siano state smentite ripetutamente dal Cremlino o che nessuna prova concreta sia mai emersa: il mito di “Putin malato” resta una delle narrazioni più amate dai media mainstream. Negli ultimi giorni, testate come il Corriere della Sera, Il Messaggero e Tgcom24 hanno rilanciato per l’ennesima volta teorie che oscillano dal cancro al Parkinson, passando per tremori sospetti, problemi di vista e gonfiori del volto, basandosi su immagini decontestualizzate o su presunte testimonianze. I “nuovi” dubbi sono emersi alla parata militare del 3 settembre a Pechino, dove Massimo D’Alema, presente all’evento, ha raccontato al Corriere della Sera di aver visto Putin «molto affaticato», sorretto da due persone durante la camminata. Il racconto di D’Alema ha spianato la strada alle nuove speculazioni sulle condizioni fisiche di Putin che, per i media citati, «restano avvolte nel mistero». Non si tratta di una novità. Tutto ha avuto inizio dieci anni fa, quando proprio nel 2015, il leader russo non apparve in pubblico per qualche giorno e molti giornali ipotizzarono che fosse stato ucciso. Poco dopo, i media occidentali si sbizzarrirono a diagnosticare a Putin dei disturbi mentali, in un caso la sindrome di Asperger, in altri casi la paranoia, riportando con enfasi la diceria secondo cui Angela Merkel lo avrebbe definito “psicopatico”. Da allora, la stampa occidentale alterna accuse di crimini efferati e omicidi su commissione a diagnosi improvvisate.
Già nel 2021 il tabloid britannico The Sun titolava che Putin stesse per lasciare il potere a causa del Parkinson, citando come unica fonte l’analista russo Valery Solovei, noto oppositore del Cremlino. La notizia, priva di conferme, fece il giro del mondo e venne prontamente bollata come “totale assurdità” dal portavoce Dmitrij Peskov. Nel 2022, il media indipendente Proekt, riportò che i documenti di viaggio degli aerei di Putin rilevavano a bordo quasi sempre un oncologo e due otorinolaringoiatri. Nello stesso anno, un’inchiesta di Newsweek parlò di un’operazione per rimuovere un tumore già in stadio avanzato, avvenuta proprio ad aprile 2022. Da allora, la stessa dinamica si ripete senza sosta: giornali che riprendono illazioni, dichiarazioni di presunti esperti che diagnosticano a distanza, immagini usate come indizi di malattie inesistenti. L’obiettivo non è informare, ma alimentare un “frame”: il leader russo non sarebbe lucido, non avrebbe il pieno controllo delle sue decisioni e, quindi, la sua politica andrebbe ridimensionata come frutto di follia o patologia. È la logica della demonizzazione, la “character assassination”, che sostituisce l’analisi geopolitica con la psicopatologia spicciola. Con l’inizio del conflitto russo-ucraino, il meccanismo si è intensificato. Non solo cancro e Parkinson: Putin è stato definito “paranoico”, affetto da “narcisismo maligno”, persino vittima del Long Covid. La giornalista scientifica e Premio Pulitzer Laurie Garrett sostiene che Putin potrebbe essere «incapace di ragionare, forse per gli effetti del Long Covid». Secondo Garrett, il presidente russo mostrerebbe i sintomi della sindrome d’onnipotenza tipicamente associati alla perdita di contatto con la realtà e all’incapacità di soppesare i rischi e, per spiegare questo stato di follia, la giornalista ha tirato in ballo il cosiddetto “brain fog” – una sorta di annebbiamento cerebrale associata agli effetti del Long Covid – che potrebbe aver compromesso le sue funzioni cognitive. Il Council on Foreign Relations (CFR) ha parlato di un leader “spento” e “sfasato”, mentre altri analisti hanno scomodato la “teoria del pazzo” nelle relazioni internazionali per spiegare la sua strategia. Queste diagnosi a distanza non hanno alcun valore scientifico: si tratta di indiscrezioni e pettegolezzi che vengono ripresi senza alcun fondamento. Nessuno dei commentatori che si sono lanciati in simili affermazioni ha mai avuto accesso diretto a cartelle cliniche o a visite mediche ufficiali. Eppure, i media le riportano come se fossero dati di fatto, costruendo un’eco che dà l’impressione di veridicità.
È lo stesso schema con cui, negli anni, si sono attribuite malattie inesistenti ad altri leader “scomodi” per l’Occidente: da Fidel Castro a Hugo Chávez, fino a Yasser Arafat. Il filo rosso è evidente: non discutere la politica estera russa o le ragioni storiche del conflitto russo-ucraino, ma ridurre tutto a una questione personale, di un uomo isolato e malato che trama di conquistare l’Europa “fino al Portogallo”. Una strategia che sposta il discorso dal piano politico a quello clinico. Perché questa narrazione continua a essere rilanciata, nonostante le smentite e l’assenza di prove? Per due motivi principali. Da un lato, il “Putin malato” è una storia che vende: cattura l’attenzione del lettore, semplifica la complessità della geopolitica in un racconto quasi romanzesco. Dall’altro, rafforza la costruzione di un nemico delegittimato, instabile e, quindi, meno credibile agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Nel 2002, un articolo per Il Corriere della sera si domandava se la guerra scatenata contro l’Ucraina fosse «una mossa coerente di un leader razionale o l’azzardo di uno zar impazzito, offuscato dalla paranoia o dai farmaci necessari alla cura delle sue patologie?». In realtà, non possiamo conoscere con certezza le condizioni di salute del presidente russo, così come non possiamo sapere oggi quali saranno i suoi prossimi passi politici, ma ciò che è certo è che le speculazioni mediatiche hanno poco a che vedere con l’informazione e molto, semmai, con la propaganda. Ogni tremolio o smorfia diventa indizio, ogni apparizione pubblica occasione per stilare nuove diagnosi, in una sorta di reality show globale che poco ha a che fare con il giornalismo e molto con la costruzione di una narrazione funzionale agli interessi geopolitici occidentali.
Stellantis in quattro anni ha lasciato a casa 10.000 lavoratori in Italia
Un taglio di quasi diecimila posti di lavoro in quattro anni, con un costo di oltre 777 milioni di euro per incentivare le uscite volontarie. Sono i numeri drammatici della “grande fuga” di Stellantis dall’Italia, ricostruiti dall’omonima indagine della Fiom-Cgil, in cui si fotografa il sostanziale disimpegno del gruppo dal Paese. I dipendenti sono infatti crollati dalle 37.288 unità nel 2020 alle 27.632 nel 2024, con un saldo negativo di 9.656 lavoratori. Una emorragia che si accompagna al crollo produttivo: nel 2024 sono state prodotte solo 289.154 auto e 190.784 veicoli commerciali, numeri lontanissimi dal milione di veicoli del 2004.
«I dati raccontano la fuga di Stellantis dal nostro Paese», ha commentato il segretario generale della Fiom, Michele De Palma, aggiungendo che «queste sono le cifre di un fallimento: un fallimento determinato dalle scelte fatte dalla proprietà e da Tavares». Il sindacato sottolinea come la maggior parte delle uscite sia stata gestita su base volontaria, con costi di ristrutturazioni pari a 777.276.000 euro. Tra lo scorso anno e il 2025 le uscite pagate hanno riguardato 6.052 dipendenti. La crisi occupazionale si riflette nell’utilizzo massiccio degli ammortizzatori sociali, diventati ormai «strumento di gestione ordinaria». Al primo settembre 2025, su 32.803 dipendenti, ben 20.233 – il 61,68% – erano interessati da cassa integrazione e contratti di solidarietà. Le percentuali superano il 90% all’interno degli stabilimenti di Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Atessa, Melfi e Termoli, il cuore produttivo del gruppo. L’impatto si estende alla filiera dei fornitori: circa 8.523 lavoratori della componentistica su 13.865 sono in ammortizzatori sociali.
Il crollo produttivo è impressionante: dagli 1,8 milioni di veicoli del 2004 (di cui 805mila automobili) si è passati alle 479.938 unità del 2024. Negli stabilimenti motori il crollo è di 534.700 unità nello stesso periodo. A Mirafiori il declino è emblematico: dalle 200mila vetture del 2004 alle 24.933 dell’anno scorso. La Fiom segnala che tutte le nuove produzioni mass market sono state delocalizzate: «Topolino in Marocco; Fiat 600 in Polonia; Alfa Junior in Polonia; Nuova Panda in Serbia; Nuova Lancia Y in Spagna». Il calo produttivo «non può essere solamente imputato al calo della domanda» perché «a prescindere dall’andamento delle vendite complessive del settore, Stellantis continua a perdere quote di mercato, sia in Italia che in Europa». Tra il 2022 e il 2024 la quota italiana è passata dal 35,23% al 29,13%, e il raffronto tra il primo semestre 2024 e lo stesso periodo del 2025 segna un’ulteriore flessione dal 32,1% al 29,2%.
Preoccupa il trend degli investimenti: il patrimonio netto è calato da 7,7 miliardi di euro nel 2020 a 6,5 miliardi nel 2024, nonostante la distribuzione di 2 miliardi di dividendi dall’utile 2023. Gli investimenti materiali sono scesi da 4,9 miliardi del 2021 a 4,1 miliardi nel 2024, con un taglio di 571 milioni alle attrezzature industriali e 297 milioni a impianti e macchinari. La spesa in ricerca e sviluppo è crollata da 991,5 milioni nel 2014 a 314,3 milioni nel 2024. «L’amministratore delegato Antonio Filosa ha preso in mano una situazione drammatica» riconosce De Palma, annunciando assemblee in tutti gli stabilimenti. La Fiom richiede «un piano industriale che deve prevedere nuovi modelli mass market», il rafforzamento di ricerca e sviluppo, il ripristino del progetto della gigafactory e nuove assunzioni. «Se continua così, rischiamo di chiudere la produzione di auto in Italia» avverte il sindacato, chiedendo al governo di prendere in mano il dossier automotive.
Nel frattempo, negli scorsi giorni Stellantis ha annunciato una serie di stop temporanei della produzione in sei stabilimenti strategici del continente. La decisione, motivata dalla necessità di adeguare la produzione a un mercato giudicato «difficile» e di gestire le scorte in un contesto di domanda stagnante, coinvolge impianti in Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia. L’obiettivo dichiarato è evitare «un’ammucchiata di auto nei parcheggi delle fabbriche o dei concessionari». Tali fermi rappresentano 62 giorni cumulativi di produzione in meno. Che il periodo per gli stabilimenti italiani non fosse dei migliori lo si era già capito alla fine di agosto, quando nello storico sito produttivo di Pomigliano era stato firmato un pre-accordo tra l’azienda e le sigle sindacali che ha esteso di un ulteriore anno, fino all’8 settembre 2026, la cassa integrazione in regime di solidarietà in deroga per 3.750 lavoratori. La misura, che prevede una riduzione media dell’orario di lavoro fino al 75%, arriva dopo il biennio concesso dalla cassa integrazione ordinaria, ormai esaurito.
Venezuela: Maduro dichiara lo stato di emergenza per la “crescente minaccia” USA
Il governo venezuelano ha decretato lo stato di emergenza in tutto il Paese, evocando la minaccia di una «aggressione militare statunitense». Lo ha annunciato la vicepresidente Delcy Rodríguez, sottolineando che il decreto conferisce al presidente Nicolás Maduro «poteri speciali» per agire in materia di difesa e sicurezza di fronte a minacce esterne. Secondo fonti di Washington citate dal New York Times, sarebbero previsti, infatti, attacchi imminenti contro obiettivi venezuelani, con l’intento di rovesciare Maduro «in un modo o nell’altro». Il decreto, secondo le fonti, renderebbe possibile la mobilitazione delle forze armate su tutto il territorio e un controllo rafforzato sui servizi pubblici e sul comparto petrolifero, centrali per il sistema economico nazionale. Pur sancito per un periodo iniziale di 90 giorni, il provvedimento potrà essere rinnovato per altri 90. A Caracas è già in vigore dall’8 agosto uno stato di emergenza di natura economica, della durata di due mesi, per affrontare la crisi in cui il Paese si trova da tempo.
Dietro la misura proclamata dal governo venezuelano si staglia il quadro geopolitico oggi in piena tensione: dalla fine di agosto, gli Stati Uniti hanno accentuato la loro presenza militare nel Mar dei Caraibi, schierando navi e assetti aerei con la giustificazione della lotta al narcotraffico. Finora, questi interventi hanno provocato 17 vittime, tutte venezuelane. Per contrastare proprio il narcotraffico, in passato Washington ha utilizzato pattugliamenti della Guardia Costiera o missioni mirate, da settimane, invece, mette in campo risorse paragonabili a quelle di una campagna militare. È evidente che la finalità non si esaurisce nella lotta al crimine organizzato: la pressione è diretta contro Maduro e il suo governo, accusati di essere alla guida del cosiddetto Cártel de los Soles e di utilizzare il Paese come hub per i traffici illeciti. La domanda cruciale è se l’attuale mobilitazione preluda a un intervento militare o se si tratti solo di una dimostrazione di forza. Il Venezuela ha reagito inviando l’esercito in tutto il Paese per addestrare la milizia popolare venezuelana, che conta milioni di membri. Caracas denuncia che dietro tali operazioni si occultino reali obiettivi di pressione, «provocazioni illegittime» volte a frammentare la sovranità venezuelana.
Maduro ha parlato apertamente di un disegno di destabilizzazione, che ha già nel passato effettuato tentativi espliciti di “regime change”. La storia americana conosce precedenti di invasioni “mirate”, come quella di Panama del 1989, condotte con la giustificazione della lotta al narcotraffico e culminate proprio in un cambio di regime. La dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo venezuelano, in questo senso, va letto come difensivo, ma anche come un messaggio politico: la sovranità nazionale non è negoziabile, neppure di fronte alla superpotenza che proclama diritti sovranazionali sull’ordine atlantico. L’amministrazione americana, nel frattempo, continua a negoziare la fornitura di petrolio venezuelano, mentre intensifica la pressione militare e diplomatica. Tuttavia, se da un lato Maduro può presentare il provvedimento come un atto necessario contro la minaccia esterna, dall’altro non si può ignorare che tale stato di emergenza rafforzi il già consistente spazio di potere discrezionale che il governo esercita, con limitazioni alle libertà civili e alla trasparenza istituzionale. La storia recente del Venezuela offre molteplici esempi di eccezioni autorizzative che non sono state temporanee, ma si sono fossilizzate in pratiche autoritarie. Alla vigilia dell’ennesima crisi, il Venezuela certifica che la partita resta aperta: non solo tra Caracas e Washington, ma tra un Sud che reclama dignità e un Nord che pretende diritti di intervento globali, con armi o con ordinanze d’emergenza.









