Dal 15 novembre i lavoratori dell’ex Ilva a entrare in cassa integrazione saranno 5.700. Un numero destinato ad aumentare e a raggiungere le 6.000 unità a gennaio. È quanto emerso dal confronto tra i sindacati e il Ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, avvenuto in occasione del vertice alla presidenza del Consiglio fra governo e organizzazioni sindacali. I sindacati hanno definito la proposta del governo un «effettivo piano di chiusura», promettendo battaglia. La mossa è stata giustificata dal fermo dei lavori delle cokerie in nome della decarbonizzazione; i sindacati, tuttavia, sostengono che manchi «il sostegno finanziario al rilancio e alla decarbonizzazione».
Trump ai festini di Epstein: cosa emerge dalle mail divulgate
Il caso Epstein torna a deflagrare sulla scena politica americana. Tre e-mail diffuse ieri dai democratici della House Oversight Committee chiamano nuovamente in causa il presidente americano Donald Trump, citato come presenza interna al circuito di festini e frequentazioni d’élite che orbitava attorno al finanziere pedofilo, morto in circostanze mai chiarite nel 2019. Il materiale trapelato è sufficiente a incrinare la versione del presidente americano di totale estraneità ai fatti e a scatenare la reazione della Casa Bianca, che torna a parlare di “bufale” e della pubblicazione di un “leak selettivo” che non prova «assolutamente nulla». Le nuove carte si intrecciano con il memoir postumo di Virginia Giuffre, con i dubbi di Mark Epstein sul presunto suicidio del fratello e con le accuse dello scrittore Michael Wolff, che descrive Trump ed Epstein “come fratelli”.
Le mail pubblicate provengono da un lotto di oltre 23.000 documenti forniti dall’eredità di Epstein al Comitato di Sorveglianza della Camera, in risposta a una citazione in giudizio e ricostruiscono contatti indiretti, scambi logistici e riferimenti a eventi mondani. Nulla che provi reati diretti, ma abbastanza per riaprire il capitolo controverso del rapporto di amicizia intercorso tra Trump ed Epstein, soprattutto in un momento in cui l’FBI ha archiviato il caso – sostenendo che non esistono liste clienti né prove di ricatti sistematici ai danni di politici e imprenditori di alto livello – generando l’ira della basa MAGA. Il primo messaggio del 2011, indirizzato a Ghislaine Maxwell, contiene un riferimento esplicito a Trump, indicato come «il cane che non ha abbaiato», sostenendo che Virginia Giuffre – allora minorenne – aveva trascorso “ore” con l’allora magnate senza che il suo nome fosse mai stato menzionato. Giuffre, però, nelle sue deposizioni e nel memoir postumo, ha sempre insistito che Trump non era tra gli uomini che l’avevano vittimizzata, descrivendolo come «estremamente amichevole» durante un incontro al Mar-a-Lago. Anche membri dello staff di Epstein hanno confermato le visite di Trump, ma senza comportamenti sospetti. In una seconda mail del 2019, indirizzata allo scrittore Michael Wolff, Epstein sostiene che Trump «ovviamente sapeva delle ragazze» e che avesse chiesto a Maxwell di “fermare” alcune frequentazioni, riferendosi indirettamente al divieto d’ingresso imposto a Epstein a Mar-a-Lago. Trump sul suo social Truth bolla la vicenda come una “bufala” riesumata dai democratici per distogliere l’attenzione dalla fine dello shutdown e da altri dossier politici. Ai nuovi sviluppi si intrecciano le irregolarità mai chiarite della notte tra il 9 e il 10 agosto 2019, quando Epstein fu trovato senza vita nella cella del Metropolitan Correctional Center. Le autorità federali hanno chiuso il caso parlando di suicidio, ma il quadro registrato è tutt’altro che lineare: telecamere fuori uso, controlli saltati per ore, trasferimento del compagno di cella poco prima della morte e totale assenza di immagini del corpo all’interno della cella. A queste anomalie si aggiunge la voce del fratello, Mark Epstein, che accusa Trump di mentire e parla apertamente di omicidio e di insabbiamento della verità.
Per Trump, l’uscita delle mail è un problema più politico che giudiziario, che arriva con un tempismo chirurgico, nel momento in cui stava incassando consenso per lo scandalo BBC e la fine dello shutdown. Da mesi, il tycoon ha adottato toni da offensiva: attacca i democratici, li accusa di orchestrare una manovra per destabilizzare la sua amministrazione. Da paladino della “verità” contro le élite corrotte del Deep State, a presidente che ora liquida la vicenda come un «argomento noioso» che non dovrebbe «interessare a nessuno», Trump ha compiuto l’ennesima giravolta che ha spaccato la base MAGA. Ora, chiamato in causa, quel terreno rischia di incrinarsi: il caso Epstein si è trasformato, infatti, da cavallo di battaglia della campagna elettorale a una bomba a orologeria. Le mail non lo incriminano di un reato, ma tirano in ballo la sua presenza in un ecosistema di potere trasversale: politici, banchieri, dirigenti di multinazionali, membri di famiglie reali, apparati dell’intelligence. È una rete internazionale mai esposta del tutto, che rende ancora “radioattivo” il caso Epstein. Le nuove carte diffuse non sono l’ultima parola: sembrano piuttosto l’inizio di un regolamento di conti trasversale che può colpire non solo Trump, ma tutto l’establishment che ha intessuto relazioni con Epstein e Maxwell. In questa partita, la posta in gioco non è solo la presidenza, quanto la credibilità del potere.
Russia-Ucraina, le truppe di Mosca guadagnano terreno a Zaporizhia
Le forze russe hanno conquistato tre insediamenti nella regione ucraina di Zaporizhia, approfittando della nebbia per infiltrarsi nelle linee nemiche, secondo quanto dichiarato dal comandante ucraino Oleksandr Syrskyi. I combattimenti più violenti si concentrano nella città di Pokrovsk, nella regione di Donetsk, epicentro di quasi metà degli scontri. Nuove offensive si registrano anche a Kupiansk e Lyman, nel nord-est. Nelle ultime quattro settimane, il Ministero della Difesa russo ha segnalato la cattura di nove insediamenti e villaggi a Donetsk: otto nella regione di Zaporizhia, sette nella regione di Dnipropetrovsk e cinque nella regione di Kharkiv.
Regionali, l’Antimafia segnala 8 candidati “impresentabili”: ecco i nomi
Sono in tutto otto i candidati alle prossime elezioni regionali segnalati come “impresentabili” dalla Commissione parlamentare Antimafia. I loro profili sono infatti considerati in violazione del codice di autoregolamentazione, patto etico-politico con cui i partiti si impegnano a non candidare persone con gravi procedimenti penali. Quattro di essi concorrono alla competizione politica in Puglia, altri quattro in Campania, mentre non se ne contano in Veneto. In Puglia, 3 su 4 sono di Forza Italia, mentre uno sostiene il candidato presidente Sabino Mangano; in Campania, 3 su 4 sono candidati nelle liste che sostengono il centro-destra, mentre l’ultimo corre per il “campo largo” che punta alla presidenza di Roberto Fico.
Ad annunciare i nomi dei candidati “impresentabili” dopo una verifica dei loro profili è stata, in occasione della seduta di mercoledì 12 novembre, la presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo. Per la Puglia, il primo esponente di Forza Italia inserito in lista – a sostegno del candidato presidente Luigi Lobuono – è Pasquale Luperti, figlio di un boss mafioso della Sacra Corona Unita (ma ad oggi mai sfiorato da inchieste di mafia) e attualmente imputato per corruzione. Per lo stesso reato è alla sbarra Antonio Ruggiero, altro candidato di FI; chiude il cerchio di forzisti inseriti in lista Paride Mazzotta, imputato per autoriciclaggio e turbata libertà degli incanti. L’ultimo nome è quello di Marcello Cocco, candidato nella lista “Alleanza civica per la Puglia” a sostegno del candidato presidente Sabino Mangano, condannato in primo grado a 3 anni di carcere per accesso abusivo a sistema informatico (si sta ora tenendo il processo di appello).
In Campania, nella lista degli “impresentabili” ci sono altri quattro nomi, tre dei quali supportano il candidato di centro-destra Edmondo Cirielli. Il primo è Davide Cesarini, della lista “Democrazia cristiana con Rotondi centro per la libertà”, condannato in appello ad 1 anno e 6 mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta e ora alla sbarra anche per riciclaggio. C’è poi Luigi Pergamo, in lista con “Pensionati consumatori Cirielli presidente”, rinviato a giudizio per autoriciclaggio, trasferimento fraudolento di valori, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Altro nome è quello di Maria Grazia Di Scala (“Casa riformista per la Campania”), mandata a processo per il reato di tentata concussione. In ultimo, c’è anche un candidato a sostegno del centro-sinistra, Pierpaolo Capri, rinviato a giudizio per il reato di riciclaggio.
Il termine “impresentabile” non ha un valore legale, ma è un concetto puramente politico. Nel concreto, la Commissione parlamentare Antimafia valuta le candidature elettorali sulla base delle segnalazioni del Ministero dell’Interno e dell’autorità giudiziaria. Secondo i criteri di candidabilità del Codice di Autoregolamentazione, stabiliti dalla Commissione nel 2019 durante il governo M5S-Lega, per entrare nella lista degli “impresentabili” occorre essere formalmente imputati (ma solo per specifici reati), oppure essere stati colpiti da misure di prevenzione personali o patrimoniali ai sensi del Codice antimafia, rimossi dall’incarico di amministratore locale ai sensi del testo unico degli enti locali o aver ricoperto la carica di sindaco o di componente della giunta negli enti sciolti per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso.
Al Cairo apre la più grande fiera d’armi d’Africa: l’Italia è in prima fila
Si svolgerà dall’1 al 4 dicembre al Cairo la 4° edizione di EDEX (Egypt Defence Expo), la fiera delle armi dove aziende e rappresentanti dei governi potranno esplorare tutte le novità in materia di tecnologie e armamenti di terra, d’acqua e d’aria. Tra le centinaia di aziende presenti non mancano alcune italiane, prime tra tutte Leonardo e Fincantieri (rispettivamente anche leading brand e gold sponsor dell’evento), ma anche CEIA (che produce metal detector), ELT Group (sistemi di difesa elettronica) e Panaro (contenitori per il trasporto delle armi), oltre ad aziende come la francese MBDA (sistemi missilistici), di proprietà di Leonardo per il 25%. Nei prossimi giorni, il numero di partecipanti – anche italiani – potrebbe aumentare.
Come riporta il giornalista Antonio Mazzeo, giornalista esperto in tematiche riguardanti la militarizzazione e impegnato da tempo nella denuncia del traffico di armi, l’invito all’Italia per prendere parte all’evento è stato avanzato dal ministro della Produzione militare egiziana, Mohamed Salah El-Din, lo scorso 7 settembre, nel corso di un incontro con l’ambasciatore italiano in Egitto, Michele Quaroni, volto a discutere del rafforzamento della cooperazione civile e militare. Nel corso dell’incontro, Quaroni avrebbe riferito che l’Italia guarda all’Egitto «come promettente destinatario di investimenti» e che «c’è un grande interese delle industrie italiane a lavorare in multipli settori con le entità che operano nella produzione militare in Egitto».
L’Egitto è tra i maggiori importatori di armi al mondo, con l’Italia come seconda maggiore esportatrice di armi in Medio Oriente dopo gli USA. In termini monetari, le esportazioni italiane in Egitto sono diminuite negli ultimi anni, passando dai 72 milioni di euro del 2022 ai 37 milioni del 2023: secondo un report del 2024 di Egyptwide (iniziativa volta a monitorare le relazioni tra Egitto e Italia nell’ottica del rispetto dei diritti umani e delle libertà civili), questo dipende principalmente da un cambiamento nella natura della cooperazione militare-industriale tra i due Paesi. Secondo il rapporto, Fincantieri e Leonardo (entrambe a partecipazione statale) rimangono tra i principali esportatori di armi nel Paese, mentre nel 2024 il governo ha votato contro una risoluzione che chiedeva la sospensione di questo genere di rapporti economici proprio in ragione del rischio di un loro impiego in gravi violazioni dei diritti umani. Questo a discapito del fatto che in Egitto vi sia in essere un regime di fatto, nel quale tali violazioni sono all’ordine del giorno. Inoltre, a quasi dieci anni dai fatti, il processo per il rapimento e l’assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni è in alto mare, con il recente nuovo stop delle ultime settimane dovuto all’irreperibilità degli imputati.
Trump firma per la fine dello shutdown più lungo della storia USA
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato la legge che pone fine al più lungo shutdown della storia americana, durato 43 giorni. Il provvedimento, approvato dal Congresso grazie all’appoggio bipartisan di otto democratici, conferma i fondi governativi fino al 30 gennaio e non prevede l’estensione dei sussidi per la sanità legati alla Affordable Care Act (Obamacare). Trump ha ringraziato i membri democratici che hanno aiutato a superare lo stallo e ha promesso «che non accada mai più». Con la riapertura, si prevede un graduale ritorno alla normalità: i controllori del traffico aereo rientreranno e saranno eliminati i limiti al traffico nei principali scali statunitensi; inoltre riprenderanno i pagamenti dei buoni pasto per circa 42 milioni di americani.
Libia, incidente in imbarcazione di migranti: 42 dispersi
Un gommone con a bordo 49 persone migranti è cappottato nei pressi del giacimento petrolifero di Al Buri, una struttura offshore a nord-nord-ovest della costa libica. A dare la notizia è l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che ha affermato che l’incidente è avvenuto lo scorso 3 novembre e che a oggi 42 dei passeggeri risultano ancora dispersi; l’OIM li dà ormai per deceduti. Il gommone era partito dalla città portuale di Zuwara; secondo quanto raccontato dai 7 sopravvissuti, soccorsi dalle autorità libiche lo scorso 8 novembre, si sarebbe capovolto dopo circa sei ore di navigazione. Dall’inizio dell’anno nella rotta del Mediterraneo Centrale sono morte oltre mille persone migranti.
Milano, inchiesta sul turismo di guerra in Bosnia: «pagavano per sparare ai civili»
La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su un gruppo di cittadini italiani sospettati di aver partecipato, negli anni Novanta, all’assedio di Sarajevo come “turisti della guerra”. Avrebbero pagato somme ingenti per unirsi ai reparti serbo-bosniaci e sparare sui civili intrappolati nella capitale assediata. L’indagine, coordinata dal pm Alessandro Gobbis per omicidio volontario plurimo aggravato da crudeltà e motivi abietti, punta a far luce su una delle pagine più rimosse del conflitto balcanico: quella di uomini partiti dall’Italia per comprare un posto accanto ai cecchini e trasformare l’orrore di Sarajevo – in cui furono uccise oltre 11.500 persone, tra cui 1.601 bambini – in un sinistro gioco di morte.
L’inchiesta della Procura di Milano nasce da un esposto presentato lo scorso 28 gennaio dal giornalista, fotografo e regista Ezio Gavazzeni, da anni impegnato su temi di mafia e terrorismo, insieme all’ex giudice Guido Salvini. Il documento, lungo 17 pagine, raccoglie testimonianze e contatti con fonti bosniache che, agli inizi degli anni Novanta, avevano segnalato la presenza di cittadini italiani nei dintorni di Sarajevo. Gavazzeni ha allegato anche la trascrizione di uno scambio con Edin Subašić, un ex agente dei servizi di intelligence militare bosniaci, che confermerebbe l’esistenza di un presunto giro di “finti soldati” provenienti da Torino, Milano e Trieste, che avrebbero pagato per ottenere un “pass” utile a muoversi tra le linee e raggiungere le postazioni dei cecchini sulle colline della capitale. Protetti da ufficiali serbo-bosniaci, i 5 italiani avrebbero preso parte a vere e proprie “sessioni di tiro” contro civili disarmati, ambulanze e persino bambini. I “clienti”, ha raccontato l’ex 007, erano «persone molto ricche e probabilmente influenti nelle loro comunità», con coperture politiche, che potevano «permettersi economicamente una sfida così adrenalinica», tra cui appassionati di caccia e armi, vicini all’estrema destra. La «copertura dell’attività venatoria serviva per portare, senza sospetti, i gruppi a destinazione a Belgrado». L’ex funzionario dei servizi segreti della Serbia Jovica Stanišić, condannato per crimini di guerra, avrebbe svolto «un ruolo chiave in questo servizio». Nell’esposto si fa riferimento anche al tariffario dell’orrore: «I bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis». Tra i “turisti della guerra” figurerebbe un triestino di mezza età, ex militare con legami nell’estrema destra europea e un imprenditore lombardo, titolare di una clinica privata di medicina estetica, che negli anni successivi avrebbe raccontato di “aver visto la guerra da vicino”. La Procura di Milano, in collaborazione con l’Interpol e le autorità di Sarajevo, sta ora ricostruendo flussi di denaro e i contatti tra intermediari serbi e italiani.
La vicenda era già stata raccontata nel 2014 da Luca Leone nel libro I bastardi di Sarajevo, in cui descriveva il fenomeno dei cecchini paganti come un vero “pacchetto turistico” di guerra. Lo scrittore, esperto di Balcani, confermò che giornalisti e cittadini di Sarajevo conoscevano quei casi: «Stranieri da tutta Europa – c’erano anche italiani – pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili» sopra Sarajevo. Una vicenda tanto macabra da sembrare la trama di un film e che ha ispirato, infatti, il documentario Sarajevo Safari – oggi tra i materiali dell’esposto – del regista sloveno Miran Zupanič. Presentato nel 2022 all’Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, attraverso testimonianze di ex agenti e civili, la pellicola indaga il fenomeno dei cosiddetti “turisti della guerra”, provenienti da diversi Paesi europei. Benjamina Karic, ex sindaca di Sarajevo e oggi docente universitaria, ha chiesto ufficialmente di essere ascoltata dalla Procura di Milano. L’ex sindaca sostiene che «un’intera squadra di persone instancabili sta lottando affinché la denuncia non rimanga lettera morta».
Già negli anni Novanta il Sismi aveva ricevuto segnalazioni su presunti viaggi organizzati dall’Italia verso i Balcani. Alcuni dossier, rimasti secretati per decenni, indicavano che l’intelligence italiana aveva intercettato movimenti sospetti di cittadini diretti in Serbia e in Bosnia attraverso la Slovenia. L’inchiesta milanese è al momento a carico di ignoti. Gli inquirenti cercano di capire se i presunti “turisti della guerra” italiani possano rispondere anche di crimini di guerra e violazione delle convenzioni internazionali e restano da chiarire i nodi della prescrizione e della competenza territoriale. Non si esclude che dietro i viaggi si muovessero gruppi di mercenari europei già attivi nei Balcani. A trent’anni di distanza, la Bosnia chiede giustizia e verità. Le indagini proseguono tra rogatorie internazionali e l’esame degli archivi italiani, alla ricerca di segnalazioni rimaste per troppo tempo inascoltate.









