sabato 23 Novembre 2024
Home Blog Pagina 57

Cosa sappiamo dell’attacco missilistico lanciato dall’Iran contro Israele

10

Quasi duecento missili balistici lanciati verso le città israeliane in meno di un’ora. La preannunciata vendetta dell’Iran contro Israele è arrivata e ancora non è possibile fare stime accurate sugli effetti sul terreno, né tantomeno sulle conseguenze che avrà nelle prossime ore su un Medio Oriente che appare inesorabilmente avviato verso una guerra di vasta scala. Le sirene hanno cominciato a suonare in tutta Israele alle 18:30 ora italiana, con i cittadini che si sono ammassati nei rifugi. Molti missili sarebbero stati intercettati, ma non tutti. Le autorità israeliane affermano che ancora non si sa se ci sono vittime, e per ora il quotidiano israeliano Haaretz parla di almeno due feriti a Tel Aviv. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Tasnim, la base dell’aeronautica israeliana di Nevatim sarebbe stata «completamente distrutta». Al momento, è impossibile verificare l’informazione, che, se confermata, rappresenterebbe un colpo militare di notevole portata, poiché si tratta della principale base operativa per i caccia F-35 dell’esercito israeliano.

Gli attacchi sono proseguiti per una mezz’ora buona e alle 19:10 le Guardie della Rivoluzione iraniane li hanno dichiarati conclusi, affermando che sono stati una risposta all’uccisione del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e del leader di Hamas, Ismail Haniyeh. Aggiungendo che se Israele reagirà ci sarà un’ulteriore risposta «più schiacciante e rovinosa». La palla torna quindi nel campo di Tel Aviv, che al momento non sembra voler accogliere il consiglio, con proclami bellicosi che promettono di far precipitare ancora di più il Medio Oriente nella spirale di guerra cominciata con il massacro di oltre quarantamila palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, e proseguita con l’attacco al Libano. E mentre i cittadini israeliani uscivano dai rifugi e lo spazio aereo veniva riaperto, il primo a parlare è stato il portavoce dell’esercito israeliano, affermando che «Israele è pronta a reagire e lo farà in modo tempestivo».

A soffiare sul fuoco sembrano anche gli Stati Uniti. Già pochi minuti prima degli attacchi – che l’intelligence statunitense aveva captato e definito come imminenti – il Dipartimento della Difesa statunitense aveva rilasciato una nota ammonitrice nei confronti di Teheran, specificando che il segretario della Difesa USA, Lloyd J. Austin III, aveva parlato con il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, «delle gravi conseguenze per l’Iran nel caso in cui quest’ultimo decidesse di lanciare un attacco militare diretto contro Israele», precisando che «gli Stati Uniti sono ben posizionati per difendere il personale, gli alleati e i partner di fronte alle minacce dell’Iran».

La tensione in Israele è alta anche sul fronte interno, dove, circa un’ora prima dell’attacco iraniano, si è verificato un attentato nella città di Giaffa. Due uomini hanno aperto il fuoco nei pressi di una stazione della metropolitana di superficie, provocando almeno sei morti e dieci feriti.

Come di consueto, a predicare calma rimane il segretario generale dell’ONU, António Guterres, che ha nuovamente condannato l’escalation del conflitto, chiedendo un immediato «cessate il fuoco». Ma nessuna tra le orecchie che contano sembra interessata a prestare attenzione all’appello.

[di Andrea Legni]

L’Iran ha lanciato un attacco missilistico contro Israele

0

L’Iran ha lanciato un attacco missilistico contro Israele. Le sirene antiaeree stanno suonando in quasi tutto il territorio israeliano e ci sono conferme di missili iraniani che hanno colpito obiettivi nella capitale Tel Aviv e nella città di Haifa. Alti funzionari della sicurezza israeliani hanno affermato che l’attacco potrebbe essere su vasta scala e maggiore rispetto all’attacco missilistico e con droni lanciato da Teheran lo scorso aprile. Il sistema di difesa israeliano Iron Dome, stando alle immagini trasmesse in diretta e a diversi video che circolano sui social media appare incapace di fermare tutti i missili.

Negli Stati Uniti è in corso il più grande sciopero dei portuali da mezzo secolo

0

Negli Stati Uniti è cominciato martedì notte uno dei più grossi scioperi dei lavoratori portuali della costa est dal 1977. Lo sciopero potrebbe coinvolgere decine di migliaia di lavoratori secondo la United States Maritime Alliance (USMX, l’organizzazione che rappresenta i datori di lavoro del settore portuale) ed è stato indetto dal sindacato del settore (l’International Longshoremen’s Association, ILA) in seguito allo stallo nei negoziati per il rinnovo del contratto, scaduto il 30 settembre scorso. Il sindacato, che rappresenta 45.000 lavoratori portuali, oltre a un aumento degli stipendi, chiede il divieto di usare mezzi automatizzati durante le operazioni di carico e scarico, nel timore che un’eccessiva automazione possa portare a licenziamenti. L’interruzione dal lavoro potrebbe durare fino a due o tre settimane coinvolgendo decine di porti della costa est sull’Atlantico e di quella che dà sul Golfo del Messico. Si tratta di porti da cui passano i tre quinti dei container che transitano dagli Stati Uniti e per questo, secondo le stime degli analisti di JP Morgan, uno sciopero costerebbe all’economia statunitense circa cinque miliardi di dollari al giorno. Le spedizioni di cibo, beni al dettaglio e altri prodotti verrebbero interrotte dai terminal più trafficati, tra cui New York, Baltimora e Houston.

Secondo il sindacato ILA l’inflazione degli ultimi anni ha eroso notevolmente il potere di acquisto dei lavoratori, mentre le compagnie per il trasporto delle merci (alcune delle quali sono grandi multinazionali) hanno ottenuto extraprofitti durante la pandemia di Covid 19, quando i prezzi delle spedizioni hanno subito un’impennata, e nella ripresa dei commerci tra il 2021 e il 2022. Sulla base di ciò, il sindacato ha chiesto un aumento dei salari fino al 77% rispetto al livello attuale, aumentando la retribuzione di cinque euro l’ora ogni anno nei sei anni di durata del nuovo contratto. Ciò significa che, se oggi lo stipendio è di 39 dollari all’ora, nel 2029 dovrà arrivare a 69 dollari. Allo stesso tempo, il sindacato ha rifiutato la proposta di USMX di un aumento del 50%.

Se tutti i membri del sindacato interrompessero il lavoro, sarebbe il primo sciopero dell’ILA su scala costiera dal 1977 e, secondo Rick Cotton, capo dell’Autorità portuale di New York e New Jersey, 100.000 container rimarrebbero fermi, mentre 35 navi cargo che dovrebbero attraccare la prossima settimana dovranno rimanere ancorate a largo. Sebbene alcuni esperti ritengano che lo sciopero non avrà grosse conseguenze a lungo termine, la presidente della Camera di commercio degli Stati Uniti, Suzanne Clark, ha esortato il presidente Joe Biden a usare la sua autorità per impedire uno sciopero di 80 giorni, affermando che «sarebbe incosciente consentire che una controversia contrattuale infligga un tale shock alla nostra economia». Biden ha però fatto sapere di non volere usare i suoi poteri per interrompere lo sciopero, non prendendo quindi in considerazione l’utilizzo del Taft-Hartley Act federale che imporrebbe ai lavoratori di tornare al lavoro mentre proseguono le trattative. Tuttavia, uno sciopero che potrebbe bloccare il flusso di merci, mettendo potenzialmente a repentaglio posti di lavoro, a poche settimane dalle elezioni rischia di peggiorare la fiducia nell’amministrazione Biden. D’altro canto, prendendo le parti dei lavoratori, Biden spera di far guadagnare migliaia di voti alla candidata democratica Kamala Harris, non senza rischiare però una paralisi delle attività economiche statunitensi se il blocco dovesse prolungarsi eccessivamente.

Non si tratta del primo grande sciopero che si svolge negli Stati Uniti: gli USA, infatti, nell’ultimo periodo sono stati attraversati da una serie di proteste per i salari che hanno spesso visto la vittoria dei lavoratori: un anno fa, ad esempio, è andato in scena il più grande sciopero di sempre del settore automobilistico che ha coinvolto i tre colossi dell’auto General Motors, Ford e Stellantis che, da soli, rappresentano il 40% delle vendite di automobili negli Usa. Anche in questo caso, le richieste dei lavoratori in protesta riguardavano l’adeguamento della condizione salariale all’impennata dei costi e il reintegro di una serie di diritti persi tra il 2007 e il 2009. Questi scioperi riflettono il malcontento dei lavoratori americani in un periodo in cui l’inflazione ha peggiorato le condizioni economiche della maggior parte dei cittadini americani, portando ad un fermento per la lotta per i diritti sul lavoro che è tradizionalmente più tipica della cultura europea che non di quella americana.

Nonostante la scarsa risonanza data alla notizia dalla stampa italiana, lo sciopero potrebbe avere ripercussioni a catena sull’intera economia americana. Il CEO della National Association of Manufacturers Jay Timmons ha affermato che uno sciopero prolungato getterebbe nel caos le catene di fornitura manifatturiere in tutti gli Stati Uniti. «Miliardi di dollari di beni, dal cibo ai veicoli all’elettronica, dipendono dall’accesso ai porti della costa orientale e del Golfo», ha affermato Timmons. Non stupisce, dunque, che il capo dello staff della Casa Bianca Jeff Zients e il principale consigliere economico Lael Brainard abbiano esortato i membri del consiglio direttivo dell’USMX in una riunione di lunedì a risolvere la controversia «in modo equo e rapido» al fine di salvaguardare l’economia americana, la cui crisi potrebbe compromettere anche i mercati europei e asiatici.

[di Giorgia Audiello]

Ucraina, le truppe russe vicine alla conquista di Vulhedar

0

Le truppe russe stanno continuando la propria avanzata nel Donetsk e sono ormai vicine a conquistare la città di Vulhedar, un importante punto difensivo sul fronte orientale. Secondo quanto comunicano gli ufficiali ucraini, l’esercito russo sarebbe arrivato nella periferia della città nei giorni scorsi e sarebbe sempre più vicino al centro urbano. L’agenzia di stampa governativa russa TASS conferma che le truppe della Federazione avrebbero sotto controllo la quasi totalità della città. Vulhedar è un importante centro di snodo nel Donetsk, che i russi stanno provando a conquistare sin dall’inizio della guerra.

Lo sfruttamento del lavoro va di gran moda anche nei marchi del lusso

0

Le settimane della moda si susseguono come sempre, tra sfilate più o meno spettacolari, conferme di marchi noti e nuove uscite di storiche case di moda affidate a nuovi direttori creativi che ne dovrebbero risollevare le sorti (e l’immagine). Il tutto però, quest’anno, avviene all’ombra di fatturati in calo e degli accadimenti degli ultimi mesi che hanno lasciato una patina opaca sullo scintillante mondo del lusso. Dopo le indagini dell’antitrust degli scorsi mesi su alcune società dei gruppi Armani e Dior «per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita di articoli e di accessori di abbigliamento», e le notizie degli ultimi giorni sulle aziende di pelletteria del distretto toscano controllate da Gucci pronte a mandare in cassa integrazione circa 320 dipendenti, arriva anche la comunicazione di alcune ditte in Romania abbandonate senza troppi preavvisi dai marchi di lusso perché la produzione era diventata “troppo costosa”. 

Un gioco al ribasso

Negli scorsi mesi ci sono state delle indagini da parte dell’antitrust nei confronti di alcune società dei gruppi Armani e Dior «per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita di articoli e di accessori di abbigliamento»

Affermazioni che strappano un sorriso amaro, amarissimo, tanto sembrano delle prese in giro. Marchi che vendono i loro prodotti a prezzi esorbitanti, lontanissimi dal loro valore reale (ma anche percepito), che si lamentano per rialzi minimi dei costi di produzione: sembra una barzelletta, ma è la triste verità. Quella di un settore che da anni ha impostato il proprio lavoro su un unico imperativo: ridurre i costi per aumentare i margini di guadagno (di chi sta ai vertici e degli azionisti, visto che si tratta di gruppi quotati in borsa). Per fare ciò si può decidere di andare a produrre molto lontano, delocalizzando dall’altra parte del mondo dove i prezzi sono decisamente competitivi e dove l’occhio non vede le condizioni in cui sono costretti a lavorare i dipendenti, ma anche appoggiarsi a distretti più raggiungibili, come quello che si era sviluppato in Romania nel corso degli ultimi trent’anni. 

Aziende specializzate nella lavorazione della pelle, con un discreto know how, bassi costi di manodopera e comunque in Europa, alle quali affidare i processi di realizzazione del prodotto tranne un paio; i soliti “due passaggi” sufficienti ad ottenere il permesso di essere etichettati “Made in Italy”. Un gioco, a due passi dal nostro Paese, che ha fatto sviluppare un intero settore e che ha funzionato per diverse decine di anni, fino a che non è iniziata una lenta contrazione che sta portando moltissime ditte alla chiusura. L’aumento del salario minimo per i dipendenti, portato a circa 740 euro lordi al mese, ha fatto alzare i prezzi di produzione rendendo il paese meno competitivo. In assenza di condizioni vantaggiose (stiamo parlando di aumenti minimi su articoli prodotti a 50€ e che vengono rivenduti a 2600€), si tagliano le commesse, si abbandonano i propri fornitori e tanti cari saluti.

Nessuna considerazione per le relazioni umane e professionali di lunga durata, per gli sforzi compiuti in passato nel realizzare ordini in tempi strettissimi, per cercare di assecondare richieste al ribasso e veri e propri ricatti al suono di «se non me lo fai tu per questo prezzo, me lo farà un altro».  Il lusso non guarda in faccia a nessuno. Tanto meno alle condizioni delle persone che lavorano per loro (anche se millantano codici etici e mettono la sostenibilità in bella mostra sui loro siti come grande pilastro delle loro collezioni).

Rientro in Italia: a che condizioni?

Molti marchi hanno deciso di riportare parte della produzione in Italia. Per favorire le maestranze locali e dare lustro all’artigianato? Non esattamente. Nemmeno nel nostro paese le cose vanno come dovrebbero…già da tempo. Chi lavora nella moda sa benissimo quanto oscure e frammentate siano le filere: esistono fornitori di primo livello, direttamente in contatto con i marchi, e poi esiste un’intricata rete di fornitori di secondo livello ai quali subappaltare il lavoro. Una filiera così spezzettata consente di abbassare i costi di fornitura, andando però incontro a fenomeni di sfruttamento del lavoro. Si lavora in nero, si lavorano tantissime ore, a ritmi serrati, senza dispositivi di sicurezza per permettere di andare più veloci, in locali dove si mangia, lavora e dorme. Questo è quanto emerso dalle ultime indagini di quest’anno, che hanno messo in luce pratiche radicate da tempo e che, purtroppo, fanno parte di una politica d’impresa orientata all’aumento del profitto. I committenti giocano al ribasso, tagliano i prezzi usando ricatti ben poco mascherati, non permettendo alle aziende produttrici di pagare salari degni nè tanto meno contributi. Un disastro, anche da queste parti, per cui moltissime realtà sono state costrette a chiudere (nel solo distretto toscano si contano, ad oggi,  304 chiusure, di cui 182 manifatture del settore pelletteria). 

 

Rilanciare il settore sembra sempre più difficile; redimere peccatori recidivi ancora di più. C’è chi parla di sviluppare delle  vere e proprie politiche di filiera, che in qualche modo possano reimpostare i rapporti produttivi in un’ottica di stabilità e responsabilità maggiore a carico delle aziende committenti. Forse più auspicabile un miracolo. 

Le regole sulla due diligence, approvate nel maggio scorso dal parlamento europeo e destinate ad entrare in vigore in tutti gli stati membri a partire dal 2027, parlano di «obbligo per le aziende con più di mille dipendenti e un fatturato superiore ai 450 milioni di euro a gestire attentamente gli impatti sociali e ambientali lungo l’intera filiera, compresi i fornitori diretti e indiretti, e le proprie attività»

Con lo spettro di sanzioni economiche per le aziende che non rispettano le regole, chissà se le grandi case del lusso inizieranno ad agire in maniera differente o inventeranno nuovi sistemi per aggirare l’ostacolo e mantenere saldi fatturati milionari sulle spalle di lavoratori sfruttati e piccoli imprenditori ridotti al lastrico. 

[di Marina Savarese]

Il discorso di Julian Assange davanti al Consiglio d’Europa

4

Oggi, 1 ottobre 2024, a Strasburgo, davanti alla Commissione per gli affari giuridici dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE), Julian Assange ha preso la parola  pubblicamente per la prima volta da quando, nel mese di aprile 2019, è stato arrestato dalla polizia britannica – dopo sette anni di confinamento forzato nell’Ambasciata ecuadoriana di Londra – e poi rinchiuso, per altri cinque anni, in una cella d’isolamento nel famigerato carcere di Belmarsh.  L’ormai 53enne cofondatore di WikiLeaks ha, infatti, ritrovato la sua libertà solo lo scorso 26 giugno, mediante un patteggiamento con gli USA che avevano chiesto la sua estradizione dal Regno Unito.  Da allora, è rimasto in convalescenza in un luogo isolato sulla costa selvaggia dell’Australia vicino a Melbourne, insieme alla famiglia.

Oggi, invece, Assange si è presentato, lucido e eloquente per quanto provato, davanti alla Commissione di Strasburgo con, ai suoi lati, la moglie Stella Moris e Kristinn Hrafnsson, l’editore di WikiLeaks.  La Commissione l’aveva chiamato a testimoniare sulle condizioni della sua detenzione; addirittura, uno dei parlamentari gli ha chiesto esplicitamente se ha subito torture.  Ma il cofondatore di WikiLeaks ha incentrato invece il suo discorso, non sulla sua prigionia, ma su ciò che la sua persecuzione politico-giuridica rivelava sulla tenuta della nostra democrazia e quali effetti nefasti potrebbe avere sulla libertà di stampa e sul giornalismo investigativo.

«Da quando sono uscito da Belmarsh», ha detto, «ho notato un grande cambiamento nella nostra società». E ha proseguito spiegando come, nel 2010, WikiLeaks è riuscito a creare un dibattito pubblico sugli orrori della guerra rivelando un video che mostrava l’uccisione di alcuni civili – tra cui due giornalisti – da parte di militari statunitensi da un elicottero sopra Baghdad.  Ma erano altri tempi.  Oggi vengono trasmessi tutti i giorni in streaming, da Gaza e dall’Ucraina, orrori ancora più grandi; vediamo giornalisti uccisi a decine.  Eppure perdura, anzi cresce, l’impunità dei colpevoli.  L’Intelligenza Artificiale viene adoperata per poter aumentare il numero di bersagli da colpire, per l’assassinio di massa.  Perciò serve, ha concluso Assange, una presa di posizione ferma da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa contro questa barbarie, per la sopravvivenza della democrazia e anche per la sopravvivenza del giornalismo investigativo, che si trova sempre di più sotto tiro.  

  Comunque, anche se Assange non ha detto molto sulle condizioni della sua prigionia, già nei mesi precedenti, la Commissione ha potuto raccogliere diverse altre testimonianze al riguardo, oltre ad ordinare una inchiesta specifica portata avanti dalla parlamentare islandese Sanna Ævarsdóttir.  Ciò ha permesso alla Commissione di stilare una bozza di risoluzione che sarà messa ai voti domani, 2 ottobre, dall’intera Assemblea del Consiglio d’Europa (46 Stati). 

In sostanza, la bozza considera le accuse formulate contro Assange dalle autorità statunitensi  “sproporzionatamente gravi”, a tal punto che l’australiano meriterebbe la qualifica di “prigioniero politico”.  Infatti, nel rivelare i crimini di guerra commessi dalle forze armate USA in Afghanistan e in Iraq, Assange ha semplicemente agito da giornalista investigativo e perseguitare un giornalista, in quanto tale, costituisce de facto una persecuzione politica.  Secondo la bozza, questa persecuzione potrebbe avere un “effetto deterrente” sul giornalismo investigativo in tutto il mondo.  

Inoltre, la bozza considera i dodici anni di reclusione subiti da Assange un periodo di “detenzione arbitraria” durante il quale egli avrebbe potuto subire “trattamenti disumani o degradanti”. 

Ma anche qualora non ce ne fossero stati, la bozza della Commissione considera le autorità britanniche comunque colpevoli di non essere «riuscite a proteggere efficacemente la libertà di espressione e il diritto alla libertà di Assange, esponendolo a una lunga detenzione in un carcere di massima sicurezza nonostante la natura politica delle accuse più gravi a suo carico». È evidente, ha aggiunto la Commissione, che la sua detenzione abbia «superato di gran lunga la durata ragionevole accettabile per l’estradizione».  In quanto agli Stati Uniti, Stato osservatore del Consiglio d’Europa, essi vengono invitati dalla Commissione ad “indagare sui presunti crimini di guerra e sulle presunte violazioni dei diritti umani rivelati da WikiLeaks” e a non lasciarli impuniti com’è finora avvenuto.

Il dibattito sulla bozza della Commissione, integrata con quanto ha riferito Julian Assange questa mattina, si terrà davanti all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa domani, 2 ottobre, a partire dalle ore 10 e verrà trasmesso in streaming sul canale PACE di YouTube o sul sito PACE.  Assange dovrà essere presente in tribuna d’onore ma non è previsto che egli prenda la parola

[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

USA, Georgia: incostituzionale vietare l’aborto dopo la sesta settimana

0

Un giudice dello Stato federato degli Stati Uniti della Georgia ha dichiarato una legge che intendeva vietare l’aborto dopo la sesta settimana di gravidanza non conforme alla Costituzione statale. Secondo il Tribunale, le libertà garantite dalla Costituzione della Georgia prevederebbero il diritto ad abortire fino a quando il feto è potenzialmente in grado di vivere al di fuori dell’utero materno, e dunque fino a circa la ventiduesima settimana di gravidanza. Il giudice ha dunque fissato a 22 settimane il limite entro cui è permesso abortire.

Libano meridionale, Israele ordina evacuazione di 25 aree

0

Poche ore dopo aver lanciato quella che ha definito una «incursione terrestre limitata» in Libano, l’esercito israeliano ha diramato un avviso «urgente» ai residenti di 25 villaggi nel sud del Paese, invitandoli a evacuare immediatamente le loro case. Nell’avvertimento lanciato alle comunità libanesi, pubblicato dal portavoce arabo dell’esercito israeliano sulla piattaforma di social media X, è stato chiesto di spingersi a nord del fiume Awali, a circa 60 chilometri (36 miglia) dal confine. «Stai attento, non ti è permesso andare a sud. Andare a sud potrebbe mettere in pericolo la tua vita – si legge nella comunicazione -. Ti faremo sapere quando sarà sicuro tornare a casa».

Una scoperta nelle profondità marine getta nuova luce sulle forme di vita che la abitano

0

La zona profonda e priva di luce dell’oceano, situata tra i 200 e i 1.000 metri sotto la superficie, è sorprendentemente povera di ferro, al punto da limitare la crescita di batteri, i quali, però, compensano producendo molecole che ne facilitano l’assorbimento dall’acqua circostante: è quanto emerge da una nuova ricerca guidata da scienziati dell’University of South Florida, sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Gli autori hanno spiegato che l’esperimento potrebbe rivoluzionare la nostra comprensione dei processi microbici negli oceani profondi e, soprattutto, fornire nuove stime e parametri riguardanti l’assorbimento del carbonio da parte degli oceani, il quale dipende fortemente dall’attività batterica e risulta fondamentale per mitigare il cambiamento climatico.

La regione analizzata, chiamata “zona crepuscolare”, è caratterizzata dal fatto che la luce solare non riesce a penetrare, creando così un ambiente buio e freddo. La mancanza di luce solare limita quindi la fotosintesi e, di conseguenza, la produzione primaria (ossia la produzione di materia organica da parte di organismi autotrofi come le piante) è quasi assente in quest’area. Tuttavia, come spiegato dagli autori dello studio, si tratta di una zona ecologicamente significativa, in quanto funge da transito per la materia organica che scende dall’epipelagico (la zona superficiale) verso le profondità oceaniche.

Per condurre la ricerca, gli scienziati hanno raccolto campioni dai 1.000 metri superiori della colonna d’acqua durante una spedizione attraverso l’Oceano Pacifico orientale, dall’Alaska a Tahiti. Ciò che hanno trovato nei campioni li ha «sorpresi»: nella zona crepuscolare i livelli di ferro – nutriente essenziale per la crescita dei batteri marini e di molti altri organismi – sono bassissimi ma, tuttavia, è stata riscontrata un’elevata presenza di siderofori, ovvero le molecole che si legano al ferro e lo rendono più facilmente assorbibile, sia nelle acque superficiali che tra i 200 e i 400 metri di profondità, ossia in una zona in cui si pensava che le concentrazioni di nutrienti avessero un impatto ridotto sulla crescita dei batteri.

«A differenza delle acque superficiali, non ci aspettavamo di trovare siderofori nella zona crepuscolare dell’oceano. Il nostro studio dimostra che la carenza di ferro è elevata per i batteri che vivono in questa regione in gran parte dell’Oceano Pacifico orientale e che i batteri usano i siderofori per aumentare l’assorbimento di ferro. Ciò ha un effetto a catena sulla pompa biologica del carbonio, perché questi batteri sono responsabili della scomposizione della materia organica mentre affonda attraverso la zona crepuscolare», ha affermato Tim Conway, professore associato di oceanografia chimica presso l’USF College of Marine Science e coautore della ricerca. Proprio come anticipato dal professore, infatti, i batteri svolgono un ruolo fondamentale nella decomposizione della materia organica che affonda verso le profondità oceaniche. Dopo aver scomposto il carbonio, questi lo rilasciano sotto forma di gas o lo immagazzinano nei sedimenti oceanici, facilitando così il processo descritto da Conway.

In conclusione, come spiegato dagli scienziati, scoprire la quantità di siderofori presente nelle profondità oceaniche è essenziale per prevedere come e quanto gli oceani possono contribuire a mitigare il cambiamento climatico. Grazie allo studio di tali molecole e al fatto che quindi la capacità dei batteri di recuperare ferro nella zona crepuscolare potrebbe essere maggiore del previsto, ulteriori studi potrebbero scoprire che gli oceani potrebbero raccogliere effettivamente più carbonio di quanto si pensasse in precedenza, e che questo fattore sicuramente dovrà essere tenuto in considerazione nella comprensione dei processi oceanici legati all’immagazzinamento del carbonio. «Per un quadro completo di come i nutrienti modellano i cicli biogeochimici marini, gli studi futuri dovranno tenere conto di queste scoperte. In altre parole, gli esperimenti vicino alla superficie devono espandersi per includere la zona crepuscolare», ha concluso Daniel Repeta, scienziato della Woods Hole Oceanographic Institution e coautore dell’articolo.

[di Roberto Demaio]

Nelle università italiane tornano le proteste contro il genocidio in Palestina

1

Nella giornata di ieri, lunedì 30 settembre, in seguito ai bombardamenti effettuati da Israele sulle città del Libano, gli studenti dei Collettivi Autorganizzati Universitari sono tornati a chiedere ai propri Atenei il boicottaggio accademico nei confronti di Israele. I giovani dei CAU di Torino, Padova e Napoli hanno manifestato nei rispettivi atenei puntando il dito contro la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, e i vertici delle Università italiane per le «complicità con i crimini di guerra israeliani». Sebbene il Ministero dell’Interno abbia stabilito il divieto a manifestare, i membri dei CAU si sono dati appuntamento per la grande mobilitazione nazionale che avrà luogo a Roma il prossimo 5 ottobre. Due i cortei previsti: uno organizzato dalle Comunità Palestinesi d’Italia, l’altro convocato da Unione Democratica Arabo Palestinese, Giovani Palestinesi d’Italia e Associazione dei Palestinesi in Italia.

Davanti alle università, i ragazzi hanno manifestato contro il «sostegno materiale e ideologico» offerto dagli atenei italiani al «genocidio in corso a Gaza e i recenti bombardamenti contro il Libano» portati avanti da Israele, a cui «tutto sembra concesso». Gli universitari sono scesi in piazza a Torino con le mani dipinte di rosso, al fine di rappresentare il sangue versato dai civili in Palestina e in Libano, esponendo davanti a Palazzo Nuovo uno striscione con la scritta «Nuovo anno accademico, università ancora complice del genocidio». A Napoli, i ragazzi aderenti al CAU hanno svolto un flash mob all’esterno dell’Istituto Orientale, srotolando uno striscione contro l’Università «ancora complice del Genocidio a Gaza» e mostrando manifesti con le foto del premier Meloni e del ministro Bernini «complici per i crimini di guerra israeliani» recanti la scritta «Vergogna». A Napoli, i ragazzi aderenti al CAU hanno svolto un flash mob all’esterno dell’Istituto Orientale, srotolando uno striscione contro l’Università «ancora complice del Genocidio a Gaza» e mostrando manifesti con le foto del premier Meloni e del ministro Bernini «complici per i crimini di guerra israeliani», recanti la scritta «Vergogna». In una nota, gli universitari hanno accusato Meloni e Bernini di essere «rappresentanti di un governo complice e guerrafondaio, come suggeriscono i manifesti affissi per le città». Sono 500 le persone uccise in un giorno dalle bombe israeliane in Libano, mentre si contano oltre 40mila morti a Gaza e 700 in Cisgiordania.

Nel frattempo, la scorsa settimana, la Questura di Roma ha vietato le manifestazioni per la Palestina in programma per il prossimo 5 ottobre nella Capitale. I provvedimenti di divieto delle manifestazioni sono stati ufficialmente notificati agli organizzatori dei due distinti cortei nella tarda serata di ieri, martedì 24 settembre. Il fermo della Questura risultava già a suo modo nell’aria, dopo che il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, aveva dichiarato di stare «valutando» il blocco delle dimostrazioni per evitare che si verificassero «celebrazioni dell’eccidio». Il motivo di tali accuse risiedeva in una frase utilizzata per «pubblicizzare» le iniziative: «Il 7 ottobre è la data di una rivoluzione». Questa stessa frase, comunica la Questura, sarebbe alla base del divieto notificato la scorsa sera agli organizzatori. «La prescrizione da parte della Questura di Roma è un divieto politico», hanno dichiarato i Giovani Palestinesi, tra gli organizzatori di uno dei cortei. Manifestare il 5 ottobre «è un atto minimo di disobbedienza», continua il comunicato, in cui il movimento ha rilanciato la data e la stessa iniziativa: «Scendiamo comunque in piazza». A loro si uniranno molte altre sigle, tra le quali, appunto, anche i Collettivi Autorganizzati Universitari.

[di Stefano Baudino]