sabato 23 Novembre 2024
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Il rapporto di X svela sospensioni e censure nell’era del “libertario” Elon Musk

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X, piattaforma un tempo nota come Twitter, ha pubblicato il suo primo report sulla trasparenza da che è passata nelle mani del miliardario Elon Musk. Si tratta di un fascicolo di poche pagine, spesso tutt’altro che chiare, ma che reitera l’impegno del social a moderare i contenuti e a sospendere gli account, ovvero ad aderire alle leggi del Mercato più che alle eclatanti propagande espresse del proprietario dell’azienda.

Era dal 2021 che X non pubblicava un resoconto dei suoi interventi. Da allora sono cambiate molte cose, dalle policy del portale alla diffusione massiva degli strumenti di intelligenza artificiale, rivoluzioni che rendono particolarmente ostica l’operazione di comparazione dei dati. La sfida è dunque intensificata dal fatto che, piuttosto che aderire al format impiegato ai tempi di Twitter, la nuova gestione abbia deciso di lanciare il report attraverso un “centro di trasparenza” che adotta un approccio redazionale marcatamente diverso da quello visto in passato. Si è passati da circa 50 pagine ad appena quindici. Tre delle quali sono dedicate a copertine e introduzione.

A livello di numeri spuri, l’ultima analisi prodotta da Twitter rivelava 11,6 milioni di account segnalati, di cui 4,3 milioni avevano ricevuto una qualche forma di intervento e 1,3 milioni erano stati sospesi. Ora, X scrive di 224 milioni di segnalazioni ricevute dagli utenti, tuttavia lo fa conteggiando sia gli account che i singoli post, facendo lievitare notevolmente i numeri. Queste segnalazioni hanno portato a rimuovere o contrassegnare 10 milioni di contenuti e a sospendere 5 milioni di profili. A parte sono stati calcolati lo spam e i tentativi di “manipolare la piattaforma”, i quali si legano spesso a bot automatizzati e equivalgono a quasi 464 milioni di account sospesi. Il report chiarisce dunque che le statistiche possono includere dei falsi positivi, senza però stimare la portata del fenomeno.

La maggior parte delle segnalazioni (36,47%) si lega ad abusi e persecuzioni, le quali vengono seguire a ruota dalle incitazioni all’odio (29,85%) e dai contenuti violenti (17,85%). Per quanto riguarda gli interventi della piattaforma, questi evidenziano una predominanza di sospensioni relative alla “sicurezza degli infanti”: quasi tre milioni di account a monte di appena 14.571 post rimossi. La tendenza opposta si registra per l’incitazione all’odio: solamente 2.361 profili rimossi su quasi 5 milioni di contenuti cancellati. Questa discrepanza evidenzia bene le strategie di moderazione impiegate da X, azienda che ha in molti casi demandato l’attività di sorveglianza agli algoritmi, piuttosto che alle persone.

Tutto ciò che viene considerato vicino alla pedofilia o allo spam viene perlopiù intercettato autonomamente dal sistema, mentre i discorsi d’odio, i contenuti violenti e le persecuzioni sono sottoposti a un’analisi più dipendente dal giudizio umano. In tutto questo, non sono chiari il ruolo e la portata del cosiddetto shadow ban, ovvero la pratica di nascondere alcuni contenuti nella lista di raccomandazione del portale. Quel che è certo, è che il social non aderisca a quella dimensione radicale di libertà di parola che viene invece ufficialmente promossa dall’“assolutista” Musk. In dubbio è dunque anche la posizione di neutralità politica promessa nel 2022 dal controverso imprenditore.

Da che il miliardario ha assunto il controllo della piattaforma, alcuni profili che erano stati banditi dalla precedente dirigenza sono stati reintegrati, mentre altri sono stati rimossi. Personaggi come Donald Trump e Alex Jones hanno potuto tornare a postare, mentre è stato rapidamente eliminato l’account che attingeva ai dati pubblici per tracciare gli spostamenti del jet personale di Musk, mentre diversi giornalisti critici nei confronti del miliardario si sono trovati temporaneamente sospesi. Più recentemente è stato bloccato anche il giornalista Ken Klippenstein il quale ha diffuso un dossier da 271 pagine composto da dati trafugati a JD Vance, vice della candidatura di Trump alle prossime elezioni statunitensi.

Una pratica di oscurazione in linea con le policy del portale, ma che è in contrasto con le posizioni di Musk, il quale aveva aspramente criticato la censura praticata nei confronti dei file rubati dal PC di Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente USA Joe Biden. È da notare qui il chiaro conflitto di interessi: Musk non ha solamente fornito esplicitamente il suo endorsement a Trump, ma ha anche accennato alla possibilità di entrare in un suo ipotetico esecutivo. Tutto meno che neutrale, insomma. Resta però un dubbio: perché X ha deciso di pubblicare un report di trasparenza pur non essendo più un’azienda quotata in Borsa? Ufficialmente si tratta di una scelta nata da un puro senso di spirito civico, tuttavia è facile maliziare sul fatto che il social voglia mostrarsi attivo nella moderazione, magari nella speranza di recuperare i molti inserzionisti persi e di tener buoni i legislatori europei, i quali chiedono alla dirigenza il rispetto sulle nuove leggi che normano i servizi digitali.

[di Walter Ferri]

Elezioni in Austria: vince la destra nazionalista del FPO

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Il Partito della Libertà (FPO), forza politica di estrema destra, ha trionfato alle elezioni parlamentari in Austria, ottenendo il 29,2% dei voti e guadagnando il 13% delle preferenze rispetto alle elezioni del 2019. È la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che un partito di estrema destra vince le elezioni. Il Partito Popolare Austriaco (OeVP) del cancelliere Karl Nehammer ha preso il 26,5% dei voti, perdendo l’11% delle preferenze. Seguono i socialdemocratici col 21,1% e, a molta distanza, i liberali (9%) e i Verdi (8%). Il leader del FPO, Herbert Kickl, si è detto «pronto a guidare il nuovo governo», aprendo al dialogo con gli altri partiti.

Israele nella notte ha attaccato Libano, Siria e Yemen: gli USA mandano navi in supporto

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“Supporto a Israele, ma no alla guerra totale”. Sono queste le parole che il Presidente statunitense Joe Biden continua a ripetere come un mantra, mentre sullo sfondo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu stressa i tentativi di pacificare la regione che lo Stato ebraico si sforzerebbe ogni giorno di portare avanti. Eppure le dichiarazioni di entrambi vengono di continuo smentite dalle loro azioni: tra ieri e oggi, lunedì 30 settembre, Israele è tornato a colpire la città portuale di Hodeida, in Yemen, sotto il controllo degli Houthi, uccidendo almeno 5 persone; non si sono fermate neanche le aggressioni in Libano, dove l’aviazione israeliana sta continuando a fare piazza pulita dei vertici dei movimenti di resistenza, causando dozzine di “vittime collaterali”. Mentre l’attenzione del mondo è rivolta ai fronti aperti, continuano anche le operazioni in Siria, a cui ieri hanno partecipato anche gli stessi Stati Uniti, colpendo obiettivi iracheni. Proprio gli Stati Uniti, intanto, hanno annunciato l’invio di ulteriori truppe e di due navi anfibie, per «rinvigorire la presenza statunitense nel Medioriente», lanciando quello che sembrerebbe a tutti gli effetti un monito all’Iran, volto a scongiurare ogni possibile intervento in difesa di quello che Teheran definisce “asse della resistenza”.

Tra ieri e oggi sono state lanciate un gran numero di offensive su tutti i territori dell’asse della resistenza, a eccezione di quello iracheno. Nonostante ciò, USA e Israele hanno preso di mira le milizie irachene vicine all’Iran colpendo i loro avamposti su suolo siriano: attorno alle 11:00, le autorità siriane hanno annunciato l’uccisione di due civili nella città di Beit Saber, situata nel sud del Paese, vicino alla capitale Damasco. Successivamente, sono stati lanciati bombardamenti da e verso la base militare statunitense di Conoco, a Deir Ezzor. Stando a quanto comunicano i movimenti di resistenza, l’avamposto militare sarebbe stato colpito direttamente attorno alle 23:00, e in risposta avrebbe scagliato tre missili in direzione della città di Abu Kamal, vicino al confine con l’Iraq, colpendo proprio un movimento iracheno.

Anche il Libano è stato colpito dall’aviazione israeliana nell’arco di tutta la giornata. Dall’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, l’esercito dello Stato ebraico sta decimando anche i vertici di Amal, altro movimento di resistenza libanese. Ieri, inoltre, sono stati uccisi altri due membri importanti della stessa Hezbollah, Sheikh Nabil Yahya Qaouq e Hajj Ali Abdul Moneim Karaki, nonché quello che gli altri movimenti palestinesi definiscono «il leader di Hamas in Libano», Fateh Al-Sharif. Solo nella giornata di ieri, i raid israeliani in Libano hanno ucciso 105 persone, che vanno ad aggiungersi alle oltre 800 già uccise a partire dagli attacchi di lunedì 23 settembre. Hezbollah non si è limitata a guardare, e ha continuato i propri attacchi contro lo Stato ebraico, scagliando 11 diversi bombardamenti in altrettante località in territorio israeliano e nella Palestina occupata. Intanto, molti Paesi, tra cui quelli dell’UE, USA, Canada, Giappone, Regno Unito, e Australia, hanno chiesto ai propri cittadini di lasciare il Paese e tornare in patria, mentre Israele sembra sempre più pronto a un’invasione terrestre.

Il bombardamento sulla città di Hodeida, infine, è stato scagliato attorno alle 16:15 di ieri, bersagliando serbatoi di carburante e uccidendo almeno 5 persone. Gli Houthi, intanto, hanno dichiarato di avere abbattuto un altro drone americano MQ-9 sopra la città di Sa’ada; questo, dice il movimento yemenita, sarebbe l’undicesimo drone abbattuto da Ansarallah (altro nome degli Houthi) nell’ultimo anno. Ogni drone costa circa 32 milioni di dollari.

Mentre Israele continua la sua guerra contro l’asse, gli USA hanno deciso di inviare altre due portaerei in Medioriente, per «rafforzare la presenza sul territorio»: si tratta delle navi anfibie USS New York e USS Oak Hill; il portavoce del Pentagono ha inoltre dichiarato che la già presente USS Wasp Amphibious Ready Group, inviata sul territorio lo scorso aprile, rimarrà in Medioriente. Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti hanno continuato a inviare truppe, navi, e armi verso Israele. Questo continuo rinvigorimento delle proprie forze militari mentre lo Stato ebraico continua – e anzi, intensifica – le proprie aggressioni nei confronti dei vicini Stati mediorientali, suggerisce, lungi da quanto continua a dichiarare Biden, la volontà di lasciare che Israele continui indisturbato a bombardare l’asse della resistenza, assicurandosi che l’Iran non faccia niente per rispondere. Più che «prevenire l’allargamento del conflitto», insomma, sembrerebbe che gli Stati Uniti siano intenzionati a lasciare che il conflitto venga allargato a tutti i nemici mediorientali scongiurando una possibile reazione di Teheran, che in caso si dovesse muovere dovrebbe vedersela con le stesse truppe statunitensi. Eppure, una risposta dell’Iran sembrerebbe quasi dovuta, soprattutto dopo l’uccisione di Nasrallah e del capo di Hamas, Ismail Haniye, eliminato proprio su suolo iraniano, e per la quale la Repubblica Islamica non ha ancora risposto. Non si sa se ed eventualmente quando l’Iran risponderà alle provocazioni israeliane, ma quello che pare certo, è che Tel Aviv non ha alcuna intenzione di fermarsi, e che sembra volere continuare la propria campagna di aggressione su tutto il Medioriente, con il sostegno e il beneplacito dell’alleato atlantico.

[di Dario Lucisano]

Manifesti “la Russia non è un nemico”: media e Copasir riaprono la caccia ai putiniani

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Nelle ultime settimane, in decine di città italiane sono comparsi manifesti che chiedono uno stop al coinvolgimento italiano nelle guerre in corso: «La Russia non è un nemico», recita una scritta in nero apposta sopra l’immagine di una stretta di mano. La mano sulla sinistra è dipinta con i colori della bandiera italiana, quella a destra con i colori della bandiera russa. Sotto l’illustrazione, un’altra scritta: «Basta soldi per le armi in Ucraina e Israele. Vogliamo la pace e ripudiamo la guerra (articolo 11 della Costituzione)». La notizia ha subito fatto il giro del mondo, finendo su canali internazionali come la CNN e spingendo due senatori di Italia Viva, Ivan Scalfarotto ed Enrico Borghi (quest’ultimo anche membro del COPASIR), a presentare un’interrogazione parlamentare sulla questione. In tempi rapidi, è stato possibile leggere di dubbi e preoccupazioni riguardanti il fatto che potesse essere arrivato un «sostegno economico da parte di soggetti o enti esteri» ed è stata riaperta la caccia ai presunti finanziamenti di Putin. I promotori hanno tuttavia sottolineato che i fondi per l’iniziativa sono arrivati da una raccolta pubblica, mentre l’affissione è stata «pubblicizzata da varie associazioni apartitiche pacifiste».

Ad esprimere «preoccupazione» per la « propaganda russa» nella Capitale italiana è stata anche l’ambasciata ucraina, che ha chiesto al Comune di Roma di «riesaminare la concessione dei permessi per tali manifesti, che hanno il chiaro scopo di riabilitare l’immagine dello Stato aggressore». Pochi giorni dopo, la CNN ha ripreso la notizia, sottolineando come i «poster di propaganda russa» non hanno causato particolare sconvolgimento tra il pubblico italiano, probabilmente perché «sono apparsi durante l’estate, mentre in molti erano in vacanza». Moltissime testate italiane hanno successivamente ripreso un articolo de Linkiesta, il quale cita come tra i principali promotori della campagna vi fosse Domenico Aglioti, ex M5S e consigliere municipale a Roma, definito «generoso committente della campagna pro-Putin» (che sarebbe costata tra i 30 e i 50 mila euro, secondo «esperti» non meglio specificati citati dalla testata), oltre che «animatore dei movimenti no-Vax, anti 5G e putiniano». Secondo la replica del diretto interessato, tuttavia, la campagna sarebbe costata appena 3 mila euro e sarebbe stata finanziata da oltre 200 cittadini provenienti da tutta Italia, che hanno versato ciascuno una piccola quota a titolo volontario. Tuttavia, lo «scoop» del giornale online avrebbe dato il via a un’ondata di indignazione istituzionale, con interrogazioni presentate persino alla Commissione europea da deputati francesi.

Ancora prima che alle istituzioni stesse, l’idea che gruppi di cittadini possano organizzarsi per andare contro alle posizioni dominanti (che si tratti di vaccini contro il Covid o di critiche a Israele e Ucraina) sembra proprio non andar giù alle testate giornalistiche di orientamento libertario, che si dicono custodi e promotrici della libertà di stampa e di parola. È il caso, nemmeno a dirlo, di Repubblica, che, in un articolo a firma di Tommaso Ciriaco e Giuliano Foschini, scrive come «la campagna sembra troppo organizzata per arrivare da gruppetto di cittadini organizzati», come se l’affissione di cartelli pubblicitari costituisse chissà quale tipo di azione sovversiva di inaudita complessità. C’è da dire che Foschini non è nuovo alle ipotesi complottistiche stiracchiate: solamente pochi mesi fa aveva (nemmeno troppo velatamente) accusato proprio L’Indipendente di essere promotore della campagna di disinformazione di Mosca e i suoi donatori di essere agenti pagati dal Cremlino.

Chiunque esprima posizioni diverse da quelle ufficiali in merito alla guerra tra Russia e Ucraina è tacciato di «filoputinismo» sin dal giorno in cui il conflitto è iniziato. Non sono esenti da tale etichetta nemmeno coloro che si limitano a sostenere posizioni pacifiste, chiedendo che l’Italia rispetti l’articolo 11 della sua stessa Costituzione, che ripudia la guerra in ogni sua forma. Già due anni fa, il COPASIR (Comitato per la Sicurezza della Repubblica) stilò una lista di nomi di personalità della politica e del giornalismo (e non solo) accusati di tali posizioni. Lo schema si ripropone identico oggi, con il senatore Enrico Borghi (membro del COPASIR) che ha presentato una interrogazione parlamentare in merito alle affissioni insieme al senatore Ivan Scalfarotto (Italia Viva). «Perché questa iniziativa?» si chiede preoccupato il senatore. L’idea che i cittadini siano semplicemente contrari alla guerra, evidentemente, non appare plausibile.

[di Valeria Casolaro]

Vietnam, il governo offre l’amnistia a circa 3800 detenuti

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Il governo vietnamita ha annunciato che offrirà l’amnistia a 3.765 detenuti, di cui 20 stranieri, provenienti, tra gli altri, da Cina, India, Sudafrica e Stati Uniti. I detenuti in carcere sono accusati di crimini come omicidio, contrabbando e gioco d’azzardo, e dovrebbero venire rilasciati il primo giorno di ottobre. Coloro che sono accusati di avere «tentato di rovesciare il governo comunista» e di «terrorismo» non possono essere rilasciati. L’amnistia annunciata oggi segue il rilascio di due detenuti statunitensi avvenuto a metà settembre, ed è la nona amnistia speciale che il Paese promuove dal 2009. In totale, il Vietnam ha liberato circa 92.000 prigionieri, escludendo sempre gli attivisti politici.

Lousville: la città americana che ha sconfitto le isole di calore piantando alberi

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Louisville, città del Kentucky con oltre 700.000 abitanti, è riuscita a trasformarsi da una delle principali “isole di calore” degli Stati Uniti a un esempio virtuoso di riforestazione urbana. Grazie a una sovvenzione di 12,6 milioni di dollari derivante dall’Inflation reduction act, la città ha infatti combattuto l’aumento delle temperature, e i suoi effetti sulla popolazione, piantando migliaia di nuovi alberi. Le ultime valutazioni hanno evidenziato che l'iniziativa ha apportato benefici tangibili sia all'ambiente che alla salute pubblica. La riforestazione, oltre alle temperature locali, h...

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Migranti, pronti i centri in Albania

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Il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, ha annunciato che i centri per migranti in Albania sono quasi pronti e che i collaudi inizieranno nei primi giorni di ottobre. Mantovano ha spiegato che la realizzazione ha incontrato difficoltà legate «alla natura del terreno e a condizioni atmosferiche sfavorevoli», e che l’opera sarà consegnata per i collaudi «entro la prima decade di ottobre», per diventare operativa dopo pochi giorni. I due centri si trovano a Shengjin, come centro di prima accoglienza, e a Gjader, che ospiterà gli stranieri soggetti alle procedure accelerate di frontiera.

Libano, continuano i bombardamenti: decine di morti

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Dopo l’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, Israele non ha smesso di bombardare il Libano, tanto che nella sola giornata di oggi, secondo i canali mediatici di Hezbollah, sarebbero morte almeno 30 persone. Il numero degli sfollati varia sulle centinaia di migliaia di persone e alcune stime ritengono che sia arrivato a toccare il milione di cittadini. Dall’attacco di lunedì 23 settembre, l’esercito israeliano ha ucciso oltre 800 persone, circa la metà rispetto all’aggressione a Gaza partita all’indomani del 7 ottobre.

Perché il diritto internazionale non funziona?

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Il diritto internazionale è parte delle relazioni internazionali ed è l’affinazione costante di relazioni antiche: dall’Asia centrale a quella orientale, in Europa come in America e in Africa. In ogni continente, le autorità politiche hanno avuto la necessità di accordarsi per porre fine a guerre, per segnare i confini dei territori di caccia o di pesca, per negoziare i rapporti da tenere nei confronti degli stranieri, e così via. Oggigiorno, il diritto internazionale è costituito da un impianto complesso che stabilisce linee guida normative e un quadro concettuale comune per gli Stati in una ...

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Cipro, proteste per la Palestina fuori da una base militare UK

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Oggi, domenica 29 settembre, sono esplose delle proteste davanti alla base militare britannica RAF Akrotiri, situata sull’isola mediterranea di Cipro. Centinaia di manifestanti si sono riuniti fuori dalla struttura impugnando bandiere palestinesi e cipriote e intonando cori contro la presenza militare britannica sul territorio: «È una questione di indipendenza e sovranità di Cipro», ha detto uno dei dimostranti, riuniti sotto il motto «Via le basi della morte». Cipro, ex colonia britannica, ospita due basi militari del Regno Unito, la più grande delle quali risulta essere proprio RAF Akrotiri. Settimana scorsa, l’esercito di Londra ha inviato truppe aggiuntive sull’isola per sostenere l’eventuale evacuazione dei cittadini britannici in Libano.