mercoledì 2 Aprile 2025
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È uscito il primo numero del nuovo mensile de L’Indipendente

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Oggi, 5 febbraio 2025, è la data che segna un nuovo capitolo importante nella storia de L’Indipendente: esce il primo numero del nostro nuovo mensile, ed è una rivoluzione. 80 pagine di contenuti esclusivi in una rivista rilegata da leggere e conservare. Inchieste che svelano i lati oscuri del potere e dell’industria, guide per un consumo critico, reportage e approfondimenti per comprendere il mondo che ci circonda. Si chiama semplicemente Il mensile de L’Indipendente e ha come sottotitolo i tre pilastri che ne definiscono la cifra giornalistica: inchieste, consumo critico, beni comuni. Ogni parola è stata scelta con cura, racchiudendo ciò che vogliamo fare e che, a differenza di altri media, possiamo fare, perché non abbiamo padroni, padrini o sponsor da compiacere.

Questi tre punti cardinali rappresentano il nostro impegno per il giornalismo che crediamo necessario: inchieste (per svelare i lati nascosti della politica e dell’economia), consumo critico (per vivere meglio, certo, ma anche per promuovere scelte consapevoli capaci di colpire gli interessi privilegiati) e beni comuni (perché la nostra missione è quella di leggere la realtà nell’interesse dei cittadini e non delle élite oligarchiche che controllano i media dominanti). Al suo interno ci saranno poi, naturalmente, approfondimenti sull’attualità e sui temi che caratterizzano da sempre la nostra agenda: esteri, geopolitica, ambiente, diritti sociali.

Abbiamo lavorato a lungo a questo progetto, coinvolgendo decine di giornalisti indipendenti. Questi sono solo alcuni dei contenuti che troverete all’interno del primo numero:

  • Le privatizzazioni del governo “sovranista” di Giorgia Meloni: La nostra inchiesta di copertina dettaglia la nuova ondata di privatizzazioni promossa dal governo Meloni e racconta come le lunghe mani dei fondi d’investimento USA si stiano allungando su industrie e infrastrutture strategiche italiane.
  • La nuova vita di Julian Assange: Il fondatore di WikiLeaks ancora preferisce non parlare, ma abbiamo ottenuto una intervista esclusiva con suo fratello Gabriel, che racconta la sua nuova vita e cosa ha in mente.
  • Wuhan, cinque anni dopo: Un reportage esclusivo ci porta nella città da cui ha avuto origine il Covid, tra le opinioni delle persone, i dubbi e il biolaboratorio ancora in funzione.
  • Carrefour, il supermercato dell’occupazione israeliana: L’apartheid israeliana sulla Palestina si nutre anche di aziende complici, la famosa catena di supermercati ne è parte integrante.
  • Strage di Ustica, chi sapeva è morto: Sono tredici le morti sospette avvenute negli anni di persone in qualche modo collegate ai fatti del 27 giugno 1980, quando 81 persone morirono nell’esplosione del DC9 Itavia. Una scia di decessi archiviati spesso in fretta e furia.
  • Lo sguardo di Giove: anche le questure italiane si muovono verso la polizia predittiva. Il software promosso dal ministero dell’Interno si chiama Giove e resta avvolto nel mistero.

Questo è solo un assaggio di quanto si troverà in questo numero. Cerchiamo ogni giorno di fare meglio, e siamo convinti che questo nuovo mensile sia un passaggio importante per raggiungere il compito che ci siamo dati quando abbiamo fondato L’Indipendente: portare in Italia un’informazione corretta e coraggiosa, senza filtri né padroni, che contribuisca a informare correttamente i cittadini. E come sempre, visto che una comunità di lettori critica e partecipe è un ingrediente fondamentale per un giornale che punta a migliorarsi costantemente, vi chiedo di farci sapere – sul forum e nei commenti – cosa ne pensate e ad offrirci nuovi spunti per migliorare ancora.

Il primo numero della rivista de L’Indipendente è acquistabile (in formato cartaceo o digitale) sul nostro shop online, ed è disponibile anche tramite il nuovo abbonamento esclusivo alla rivista, con il quale potreste riceverlo a casa ogni mese per un anno al prezzo in offerta lancio di 70 euro, spese di spedizione incluse. Per riceverlo basta consultare la pagina: lindipendente.online/abbonamenti.

Trump nell’incontro con il criminale di guerra Netanyahu si fa portavoce del genocidio

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«Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza e ci occuperemo di essa». Sono queste le parole con cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato il proprio piano per il futuro di Gaza. Lo scopo dell’abbozzato programma è quello di raggiungere i tre obiettivi di Israele, che consistono nel distruggere la capacità militare e governativa di Hamas, assicurare il ritorno di tutti gli ostaggi, e accertarsi che «Gaza non costituisca mai più una minaccia per Israele». Le modalità con cui perseguirli sono state elencate senza lasciare spazio a dubbi: gli USA vogliono occupare la Striscia di Gaza per un indefinito periodo «a lungo termine», aiutare Israele a eradicare Hamas inviando altre armi, contrastare l’Iran esercitandovi la massima pressione possibile, e occuparsi delle macerie per costruire la «Riviera del Medio Oriente» aperta a «tutti i cittadini del mondo». Per i palestinesi, invece, il piano è lineare: deportarli nei Paesi vicini.

Il discorso di Trump è arrivato in occasione della conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha seguito i colloqui bilaterali tra i due leader tenutisi a Washington negli ultimi giorni. Il vertice ha costituito il primo ricevimento di un politico estero da parte del presidente statunitense e aveva l’obiettivo di discutere preliminarmente la seconda fase del cessate il fuoco a Gaza. In sede di conferenza stampa, Trump ha preso la parola per primo. Dopo aver elencato quelli che egli ritiene i fallimenti della precedente amministrazione e i successi delle sue due presidenze, Trump ha elencato i punti fondamentali della sua idea per il post-massacro a Gaza. La Striscia non può vivere «un processo di ricostruzione e occupazione da parte di quelle stesse persone che hanno resistito lì, combattuto lì, vissuto una misera esistenza lì e che sono morte lì». A occuparsi del territorio deve essere uno Stato terzo, nello specifico proprio gli Stati Uniti. Gli USA, insomma, occuperanno la Striscia per un periodo indefinito di tempo: «Ne saremo i proprietari e saremo responsabili dello smantellamento di tutte le bombe inesplose e delle altre armi pericolose presenti sul sito. Spianeremo l’area, elimineremo gli edifici distrutti, la renderemo uniforme e creeremo uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e abitazioni per le persone della zona. Faremo un vero lavoro, faremo qualcosa di diverso».

Il destino dei palestinesi, invece, è quello di essere sparpagliati nei Paesi arabi vicini. «Dovrebbero andare in altri Paesi di interesse, dotati di intenti umanitari; ce ne sono diversi che vogliono accoglierli», ha detto Trump. «La loro accoglienza può essere pagata dagli Stati vicini dotati di grande ricchezza; possono essere uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, dodici siti diversi», l’importante è che se ne vadano. «Così le persone potranno vivere nel benessere e nella pace, non gli si sparerà, e non verranno uccisi o distrutti». Alla fine, in un certo senso, ritiene Trump, anche gli stessi palestinesi potrebbero essere d’accordo con l’idea. «L’unico motivo per cui i palestinesi vogliono tornare a Gaza è che non hanno un’alternativa». Trump, inoltre, ha deciso di eliminare ogni finanziamento all’UNRWA, agenzia «antisemita» che «finanzia il terrorismo»; l’ordine esecutivo è già stato firmato. Il presidente ha anche annunciato che nelle prossime quattro settimane rilascerà annunci riguardo al destino della Cisgiordania.

Dopo il discorso di Trump, «il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca», la parola è passata a Netanyahu, che ha parlato col sorriso stampato sul volto. Il primo ministro ha spiegato il triplice obiettivo di Israele, sostenendo che il piano di Trump «va preso in considerazione» e che «potrebbe cambiare la storia». Tra gli obiettivi di Tel Aviv illustrati da Netanyahu figura anche la distruzione totale di Hamas, di cui i due leader sembrano aver discusso durante i colloqui. Come ottenerla non è ancora chiaro, ma chiara risulta la transazione da un miliardo di dollari in armi firmata da Trump nei giorni scorsi. Altrettanto limpida appare la postura che i due alleati intendono assumere nei confronti dell’Iran: Trump ha parlato della maggiore intransigenza possibile, che passerà dal «restauro di una politica di massima pressione sul regime iraniano» e dalle «più alte sanzioni immaginabili per ridurre l’export di petrolio iraniano a zero» e «ridurre le capacità del regime di finanziare il terrorismo». A tal proposito, Trump ha già firmato un ordine esecutivo e ha dichiarato che chiunque vorrà comprare idrocarburi dall’Iran non potrà fare affari con gli Stati Uniti.

Le parole di Trump hanno avuto un’eco mediatica in tutto il mondo, scatenando reazioni di sdegno da diversi partiti. Egitto e Giordania, i Paesi che secondo Trump sarebbero più disposti ad accogliere i palestinesi deportati, hanno dichiarato il diritto del popolo palestinese a restare nella propria terra, come già fatto in precedenza in occasione dell’ultima analoga dichiarazione del presidente statunitense, appoggiati dall’intera Lega Araba. Il Cremlino e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno espresso contrarietà verso le parole di Trump, sostenendo la soluzione dei due Stati. Analoghe critiche sono arrivate dalla Cina. Hamas ha rilasciato una nota dove respinge «la dichiarazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in cui invita il nostro popolo a lasciare la propria patria con il pretesto della ricostruzione», descrivendo la proposta come un «tentativo oltraggioso di sradicare la causa palestinese», e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abbas ha rimarcato la «necessità» che l’ANP controlli la Striscia.

Le dichiarazioni di Trump sono certamente forti; per quanto abbia illustrato in maniera piuttosto chiara le proprie intenzioni, non risulta altrettanto chiaro quando e come, a tutti gli effetti, pensa di portarle avanti. Anche la posizione di Israele a riguardo, per quanto Netanyahu abbia accolto di buon grado le dichiarazioni di Trump, non risulta ancora del tutto evidente, anche perché sul tema non pare essersi espresso nessun altro politico israeliano al di fuori del premier. In questo momento le trattative per la transizione alla seconda fase del cessate il fuoco dovrebbero essere aperte, e quello di Trump sembrerebbe un piano da attuare durante la terza fase della tregua. Non è insomma chiaro il destino di Gaza nell’imminente futuro, anche perché lo stesso presidente ha dichiarato di «non essere certo che il cessate il fuoco possa rimanere in piedi».

[di Dario Lucisano]

La lotta contro il ddl Sicurezza è arrivata a Bruxelles

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La rete nazionale “A Pieno Regime” contro il ddl sicurezza ha portato la propria protesta al Parlamento europeo di Bruxelles. A partire da ieri e per tutta la giornata di oggi, mecoledì 5 febbraio, presso l’Eurocamera, sono in corso una serie di assemblee e incontri per «sollecitare i parlamentari e le istituzioni europee ad avere una speciale attenzione per la deriva autoritaria» in corso in Italia, mentre intanto a Roma il Senato si appresta a discutere il disegno di legge. Ieri, in particolare, si è svolta una conferenza stampa e un’assemblea cui hanno partecipato diverse realtà dell’attivismo italiano, reti civiche, organizzazioni non governative ed alcuni europarlamentari del gruppo The Left. Nel frattempo, la rete contro il ddl sicurezza inizia i preparativi per le prossime manifestazioni in tutta Italia, che sono state fissate per il prossimo 22 febbraio.

Gli incontri di ieri e oggi sono stati organizzati dalla Rete Nazionale No DDL Sicurezza – A Pieno Regime e dall’eurogruppo The Left (sinistra radicale). Sono iniziati nella mattina di ieri e hanno trattato diverse tematiche, dai migranti alla varia produzione normativa che si sta in un certo senso portando avanti con la realizzazione di parte del contenuto del disegno di legge. Alle 18 si è tenuta un’assemblea pubblica per discutere dei vari punti del DDL, con un focus proprio su quegli stessi provvedimenti contenuti nel disegno di legge che sono già stati messi parzialmente in atto, come nel caso delle cosiddette “zone rosse”. Agli incontri, oltre ai rappresentanti dell’Eurogruppo The Left, presenti anche parlamentari del gruppo Verde, raggiunti da politici italiani di diversi schieramenti. Parallelamente, la rete contro il DDL Sicurezza ha lanciato diverse manifestazioni a Bologna, Milano, Napoli e Roma, che si terranno il 22 febbraio.

L’assemblea di Bruxelles è stata preceduta da diversi incontri che sono culminati nella manifestazione del 14 dicembre, a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. Contro il DDL Sicurezza si sono mosse realtà di tutta Italia sin dal suo concepimento. A sollevare critiche è stato anche il Consiglio d’Europa e, in particolare, il Commissario per i Diritti Umani presso la medesima istituzione, Michael O’Flaherty, che ha inviato una lettera al presidente del Senato per sollecitare i senatori ad «astenersi dall’adottare» il DDL, «a meno che non venga modificato in modo sostanziale». Approvato dalla Camera il 18 settembre 2024, il DDL Sicurezza prevede una serie di norme che viaggiano prevalentemente su due binari. Come ha spiegato l’avvocato Eugenio Losco a L’Indipendente, esso, da una parte, criminalizza il dissenso e, dall’altra, aumenta le tutele alle forze dell’ordine.

[di Dario Lucisano]

USA, in congedo il personale USAID

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Ieri, martedì 5 febbraio, l’amministrazione Trump ha annunciato che metterà in congedo tutti i dipendenti assunti direttamente dall’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (USAID) e richiamerà in patria migliaia di dipendenti che lavorano all’estero. Il congedo amministrativo inizierà a partire dalla mezzanotte di sabato 8 febbraio e coinvolgerà tutto il personale a «livello globale», ad eccezione di pochi responsabili di programmi scelti. Secondo il Congressional Research Service, il personale di USAID conta oltre 10.000 lavoratori, di cui circa i due terzi all’estero. L’agenzia ha più di 60 missioni nazionali e regionali. Il personale all’estero dovrebbe rientrare entro trenta giorni.

Una montagna Māori ha ottenuto gli stessi diritti legali delle persone

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montagna Taranaki New_Zealand

La Nuova Zelanda ha riconosciuto a Taranaki Maunga, la seconda montagna più alta dell'Isola del Nord, lo status giuridico di persona. Da oggi, questa altura, considerata un antenato dai popoli indigeni, sarà ufficialmente proprietaria di sé stessa e verrà amministrata congiuntamente dalle tribù locali Iwi e dal governo neozelandese. Questo riconoscimento simboleggia una tappa importante nel risarcimento delle ingiustizie subite dai Māori, tra cui la confisca delle terre avvenuta nell’Ottocento con l’arrivo dei coloni europei.
Dopo il 1840, infatti con l’espansione britannica nella regione di T...

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Inail: nel 2024 saliti a 1.090 i morti sul lavoro

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Nel 2024 le morti sul lavoro in Italia sono aumentate del 5% rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 1.090. Il dato torna ai livelli del 2022, nonostante l’introduzione della “patente a crediti” e la promessa di un aumento delle ispezioni. Gli infortuni mortali in occasione di lavoro sono stati 797, con un incremento nei settori dell’industria e servizi. Le costruzioni restano tra i settori più colpiti. A livello territoriale, le vittime sono aumentate soprattutto nel Centro e nelle Isole. Crescono anche gli infortuni tra gli studenti e quelli in itinere. Le denunce totali di infortunio sono salite a 589.571 (+0,7%).

La nuova Siria di al-Sharaa prepara un gigantesco piano di privatizzazioni

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La nuova Siria post Assad guidata da Ahmed al-Sharaa, conosciuto anche come Abu Mohammad Al-Jolani, capo del gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e noto in passato per i suoi legami con l’organizzazione terroristica Al-Qaeda, ha deciso di ristrutturare la dissestata economia siriana – provata da anni di sanzioni occidentali – all’insegna di un grande piano di privatizzazioni, secondo i dogmi della dottrina economica neoliberista teorizzata e imposta per anni dalle istituzioni finanziarie occidentali. Il piano prevede il licenziamento di un terzo dei dipendenti del settore pubblico e la privatizzazione delle aziende statali cruciali durante il governo della famiglia Assad. Le principali industrie siriane trattano petrolio, cemento e acciaio. Il nuovo ministro dell’Economia siriano, l’ex ingegnere energetico quarantenne Basil Abdel Hanan, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che si sta verificando un importante passaggio verso «un’economia di libero mercato competitiva», promettendo allo stesso tempo che le risorse energetiche e gli asset di trasporto strategici rimarranno in mani pubbliche. Hanan ha anche specificato che le aziende industriali statali da privatizzare ammontano a 107, senza però fornire i nomi delle aziende in questione.

Come già accaduto in altri contesti, il motivo per dare il via alle privatizzazioni è individuato nella corruzione e negli sprechi pubblici: in un’intervista, il ministro delle Finanze Mohammad Abazeed ha affermato che alcune aziende statali sembrano esistere solo per appropriarsi indebitamente di risorse e per questo motivo saranno chiuse. Secondo Abazeed, l’obiettivo delle riforme, che mirano anche a semplificare il sistema fiscale con un’amnistia sulle sanzioni, sarebbe quello di rimuovere gli ostacoli e incoraggiare gli investitori a tornare in Siria. Dal canto suo, Mohammad Alskaf, ministro per lo sviluppo amministrativo che supervisiona il personale del settore pubblico ha spiegato che lo Stato avrebbe bisogno di un numero compreso tra 550.000 e 600.000 lavoratori, meno della metà del numero attuale. In questo contesto, non sono mancate le proteste dei dipendenti pubblici: i piani di privatizzazione hanno scatenato manifestazioni di dissenso a gennaio in città come Deraa nella Siria meridionale, dove la ribellione contro Assad è scoppiata per la prima volta nel 2011, e a Latakia sulla costa. I dipendenti della Direzione sanitaria di Deraa hanno esposto cartelli con la scritta «No ai licenziamenti arbitrari e ingiusti», mentre secondo un manifestante interpellato dalla Reuters «Se questa decisione verrà approvata, aumenterà la disoccupazione in tutta la società, una cosa che non possiamo permetterci».

Il nuovo governo di Damasco, in particolare il ministro dell’Economia, Hanan, è già corso ai ripari, affermando che la politica economica sarà pensata per gestire le ricadute delle rapide riforme di mercato. Il governo ha dichiarato di voler aumentare gli stipendi statali – che attualmente si attestano intorno ai 25 dollari al mese – del 400% a partire da febbraio e di voler attutire il colpo dei licenziamenti con una buonuscita. «L’obiettivo è bilanciare la crescita del settore privato con il sostegno ai più vulnerabili», ha affermato Hanan. Tuttavia, il malcontento si è già diffuso tra i lavoratori che temono il rischio di una disoccupazione su larga scala in un Paese con un tasso di povertà tra i più alti al mondo, dovuto anche alle sanzioni occidentali. Una preoccupazione che trova conferma da parte di alcuni esperti del settore come Maha Katta, specialista senior in risposta alle crisi per gli Stati arabi presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo la quale l’economia siriana non è attualmente in grado di creare sufficienti posti di lavoro nel settore privato. Secondo Katta ristrutturare il settore pubblico avrebbe senso solo dopo aver rilanciato l’economia: «Non sono sicura che questa sia davvero una decisione saggia», ha affermato.

Non stupisce che il nuovo governo siriano, salutato come “governo di liberazione” dal cosiddetto mondo libero, nonostante sia guidato da una figura inserita nella lista dei terroristi dagli Stati Uniti, stia mettendo in atto le riforme cardine del neoliberismo imposte dalle istituzioni finanziarie occidentali a tutte le nazioni indirettamente controllate da Washington. Si ripete così uno schema collaudato che negli anni Novanta ha portato al collasso dell’economia dell’ex Unione Sovietica, grazie agli interventi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) basati proprio sulle privatizzazioni e la deregolamentazione dei mercati, e ancora prima al crollo di quella cilena, dopo il golpe del 1973 orchestrato dagli USA. Un modus operandi che si ripete, nonostante le conseguenze nefaste che si sono registrate ovunque sia stato applicato, e che non prospetta nulla di positivo soprattutto nel contesto della già decadente economia siriana.

[di Giorgia Audiello]

Torna a crescere lo spreco alimentare in Italia: nella spazzatura cibo per 8 miliardi

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88,2 grammi di cibo al giorno: è questa la media dello spreco giornaliero di cibo di ciascun italiano nel 2025, in aumento rispetto agli anni passati. Una cifra irrisoria solo in apparenza, che si trasforma in oltre 600 grammi alla settimana. Moltiplicato per 60 milioni circa di cittadini, i numeri diventano impressionanti. Ancor di più se a queste si aggiungono gli sprechi dell’intera filiera alimentare, che raggiunge 4,513 milioni di tonnellate ogni anno. Insieme ad essi c’è poi la perdita economica: 130,71 euro pro capite ogni anno, o 14,1 miliardi di euro complessivamente, 8,42 miliardi provenienti solamente dalle nostre case.

I dati sono stati elaborati dall’Osservatorio Waste Watcher, che monitora lo spreco alimentare domestico e le abitudini di acquisto e fruizione del cibo. Il report Il caso Italia 2025 è stato diffuso in occasione della 12° Giornata Nazionale dello Spreco Alimentare, che ricorre il 5 febbraio. In cima alla “classifica” dei cibi più buttati nelle case degli italiani vi è la frutta fresca (24,3 grammi settimanali), seguita da pane (21,2 grammi), verdure (20,5 grammi), insalata (19,4 grammi), cipolle, aglio e tuberi (17,4 grammi) – questi ultimi, sottolinea l’Osservatorio, spesso confezionati in quantità che eccede notevolmente il bisogno di una singola famiglia. Oltre la metà (8,42 miliardi, il 58,55%) del costo dello spreco alimentare proviene dalle case, il 28,5% dalle fasi di commercializzazione del cibo. Paradossalmente, mentre aumentano i dati sullo spreco crescono anche quelli sull’impoverimento alimentare – ovvero l’impossibilità di accedere a cibo sano e sostenibile -, passato dal +10,27% del 2024 al +13,95% del 2025. A risentirne maggiormente sono le famiglie meridionali e straniere. Un terzo degli italiani ha comunque ammesso di non essere troppo preoccupato dal tema degli sprechi.

Come ricorda Andrea Segrè, fondatore della Giornata Nazionale di Prevenzione dello Spreco Alimentare e direttore scientifico dell’Osservatorio, sono già passati 10 anni da quando è stata adottata l’Agenda di Sostenibilità delle Nazioni Unite e ne mancano solamente cinque al 2030, data entro il quale è stato fissato il raggiungimento dell’obbiettivo di dimezzare gli sprechi alimentari – passando dai 737,4 grammi del 2015 ai 369,7. Ma se durante il periodo pandemico le buone pratiche adottate dagli italiani in termini di consumo degli alimenti avevano comportato un minore spreco, questa tendenza si è ora invertita. Per raggiungere l’obbiettivo fissato dalle Nazioni Unite sarebbe sufficiente tagliare 50 grammi di cibo buttato alla settimana da qui al 2029. Luca Falasconi, docente dell’Università di Bologna e coordinatore del rapporto, ritiene che si tratti di una sfida «ambiziosa», ma non impossibile. «Ogni piccola azione conta», ricorda: «cinquanta grammi di spreco in meno ogni settimana significa ¼ di mela in meno nel bidone ogni settimana, o ¼ di bicchiere di latte in meno gettato negli scarichi, o una rosetta di pane in meno nell’umido».

[di Valeria Casolaro]

Svezia, colpi di arma da fuoco in una scuola: 5 feriti

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Cinque persone sono state ferite in un attacco in una scuola per adulti in Svezia. La notizia è riportata dai media svedesi, che segnalano che le condizioni delle persone coinvolte sono ancora ignote; secondo gli stessi media, l’attentatore si sarebbe sparato. La sparatoria è avvenuta a Örebro, circa 200 km a ovest di Stoccolma, presso la scuola per adulti Risbergska, situata in un campus che ospita anche scuole per bambini. Sono ancora in corso le indagini sull’accaduto, mentre gli abitanti sono stati invitati a rimanere in casa. Sul posto sono arrivati anche i servizi di soccorso e un’ambulanza.

Un software di spionaggio israeliano sorveglia giornalisti e attivisti nel mondo

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Un centinaio di persone, tra giornalisti e attivisti della società civile, sarebbero stati spiati tramite lo spyware Graphite della società israeliana Paragon Solutions. Lo ha reso noto la stessa Meta, che ha riferito come l’attacco informatico sia stato perpetrato attraverso la sua app di messaggistica WhatsApp. L’azienda statunitense ha avvisato con un messaggio coloro che sarebbero stati presi di mira dall’azione di spionaggio: tra di loro rientra anche il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Meta ha fatto sapere di stare indagando sull’accaduto e di aver inviato una lettera di protesta a Paragon Solutions – tuttavia le tecnologie di sorveglianza profotte dall’azienda sono vendute e utilizzate da decine di governi.

Secondo quanto riferito da Meta, l’interruzione della campagna di spionaggio è avvenuta con successo. Sarebbero circa un centinaio le persone spiate con la tecnologia spyware, tra giornalisti e attivisti della società civile. Non è dato tuttavia sapere con precisione chi sia stato spiato e dove, e neanche chi abbia ordinato tale attacco. Ciò che è certo è che lo spionaggio è durato fino a tutto il mese di dicembre. Le persone coinvolte sarebbero comunque cittadini di diversi Paesi europei. La tipologia di attacco è stata del generezero-click, per cui lo spiato non deve necessariamente cliccare su un link compromesso ma basta che sia soggetto all’arrivo di un file contenente l’arma informatica. In questo specifico caso, si sarebbe trattato di un file pdf.

Tra gli oltre novanta giornalisti e attivisti bersaglio dello spyware dell’azienda israeliana Paragon Solutions, c’è anche il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. A confermare la faccenda è lo stesso Cancellato, il quale ha dichiarato: «abbiamo iniziato le analisi tecniche sul dispositivo necessarie per valutare l’effettiva portata di questo attacco, cosa effettivamente sia stato prelevato o spiato nel telefono e per quanto tempo. Ovviamente è nostro interesse sapere anche, se sarà possibile farlo, chi abbia ordinato questa attività di spionaggio».

Paragon Solutions è stata fondata nel 2019 dall’ex comandante dell’unità di intelligence d’élite 8200 dell’IDF, Ehud Schneorson, insieme a Idan Nurick, a Igor Bogudlov e a Liad Abraham. Nel cda della società figura anche l’ex primo ministro israeliano Barak Ehud. Nel dicembre scorso, l’azienda israeliana Paragon Solutions è stata acquistata per 900 milioni di dollari da AE Industrial Partners, società di private equity statunitense, un gruppo di investimento specializzato in servizi per la sicurezza nazionale, aerospaziali e industriali. Sempre nel dicembre 2024, WhatsApp ha vinto una causa contro la rivale di Paragon Solutions, ovvero NSO Group, altra azienda israeliana attiva nel settore dello spionaggio, per aver utilizzato il suo celebre software Pegasus per spiare circa 1.400 utenti, contravvenendo alle leggi federali e statali degli USA.

Questi eventi sottolineano la crescente minaccia degli spyware zero-click e l’importanza di proteggere le comunicazioni digitali. La sorveglianza non autorizzata rappresenta un rischio significativo per la privacy, la sicurezza delle persone e della stessa democrazia, visto che coloro che vengono presi di mira dallo spionaggio sono giornalisti e attivisti che raccontano scomode verità rispetto al sistema di potere o che non sono gradite al governo di turno.

[di Michele Manfrin]