sabato 26 Aprile 2025
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USA, la Camera approva la risoluzione di bilancio di Trump

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La Camera degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione che prevede 4.500 miliardi di dollari di tagli fiscali e 2.000 di riduzione della spesa federale in un periodo di 10 anni, senza una specificazione di quali saranno i settori coinvolti. Il provvedimento stanzia anche 300 miliardi per la sicurezza del confine e fondi per la difesa. Decisivo è stato l’intervento di Trump nel convincere i deputati scettici: i Repubblicani hanno alla Camera una maggioranza risicata e hanno avuto bisogno praticamente di tutti i loro membri per approvare le misure. Il voto è passato con 217 sì e 215 no, con un singolo repubblicano e tutti i democratici ad aver votato contro.

In Italia gli omicidi volontari sono calati di un terzo in dieci anni

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Negli ultimi dieci anni, il numero degli omicidi volontari consumati in Italia ha registrato un calo significativo, riducendosi complessivamente del 33%. Secondo l'ultimo rapporto stilato dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale, infatti, il numero di casi rilevati è passato dai 475 del 2015 ai 319 del 2024. Questo decremento, confermato anche dai dati Eurostat, pone l'Italia tra le nazioni europee con il minor numero di uccisioni dolose, con un tasso di 0,54 vittime ogni 100mila abitanti, inferiore alla media europea di 0,87.
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Santanché, la Camera ha respinto la mozione di sfiducia

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Con 206 voti contrari, 134 favorevoli e un solo astenuto, l’Aula della Camera dei Deputati ha respinto la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni nei confronti della ministra del Turismo Daniela Santanchè, rinviata a giudizio per falso in bilancio per il caso Visibilia e accusata di truffa ai danni dell’INPS sui fondi Covid. Sui banchi del governo non erano presenti né la premier Giorgia Meloni né i suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini. Nel suo intervento, la ministra Santanchè ha aperto all’ipotesi delle dimissioni nel caso di un suo rinvio a giudizio nel processo in cui è sotto inchiesta per truffa all’INPS.

Il Brasile entra nell’OPEC+, ma alle sue condizioni: no ai tagli alla produzione di petrolio

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Il Brasile ha accettato l’invito dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) di unirsi al gruppo OPEC+ che riunisce, oltre ai tredici membri effettivi, altri dieci produttori di petrolio, tra cui la Russia che è il terzo produttore di petrolio al mondo. La decisione è stata presa nel corso della riunione del Consiglio nazionale per la politica energetica (Cnpe) ed è stata annunciata dal ministro dell’Energia brasiliano Alexandre Silveira. Il Brasile è entrato nel gruppo alle proprie condizioni, tenendo conto innanzitutto dei suoi interessi nazionali: la Nazione sudamericana, infatti, non sarà vincolata agli obblighi sui tagli alla produzione, ma potrà partecipare solo con un ruolo consultivo, soprattutto per quanto concerne l’andamento dei prezzi del petrolio. Questa scelta riflette, dunque, la volontà del Brasile di perseguire il proprio sviluppo interno e di far parte delle nazioni che contano, acquisendo influenza a livello internazionale, come attore chiave delle politiche energetiche. Tuttavia, si tratta di una decisione che si scontra con la visione “progressista” e ambientalista che il presidente Lula ha dichiarato di voler sostenere negli ultimi anni, tanto che l’annuncio dell’ingresso nell’OPEC+ ha immediatamente suscitato la reazione degli ambientalisti, secondo i quali il Brasile, aderendo all’organizzazione dei maggiori produttori di petrolio, invia «un segnale sbagliato al resto del mondo». Nonostante ciò, l’ingresso nell’OPEC+ rappresenta una svolta geopolitica ed economica per il Paese sudamericano.

«Il Brasile è stato invitato a far parte del gruppo di cooperazione e oggi abbiamo autorizzato l’avvio del processo di adesione», ha dichiarato Silveira alla stampa. «Si tratta solo di un forum per discutere le strategie dei Paesi produttori di petrolio. Non dovremmo vergognarci di essere produttori di petrolio», ha aggiunto con un chiaro riferimento alle critiche degli ambientalisti. L’associazione Greenpeace, infatti, ha duramente contestato l’iniziativa del governo brasiliano: «Il Brasile sta andando controcorrente cercando di unirsi a un gruppo che funziona come un cartello del petrolio, impegnandosi a sostenere prezzi redditizi controllando l’offerta», ha affermato Camila Jardim, responsabile brasiliana dell’associazione. La stessa, inoltre, ha detto che in questo modo il Brasile invia «un segnale sbagliato al resto del mondo», soprattutto nell’anno in cui il Paese ospiterà la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2025 (Cop 30), a Belém, in Amazzonia. L’esortazione è stata, dunque, quella di cercare «nuove strategie» e di non rivolgere la propria attenzione ai «vecchi schemi» di esplorazione petrolifera.

Tuttavia, proprio l’ingresso di Brasilia nell’OPEC+ mostra come il petrolio resti centrale nelle politiche energetiche globali e nelle dinamiche di potere, nonostante gli sforzi verso la transizione ecologica, cardine delle politiche dei Paesi occidentali e dell’UE, non privo di ripercussioni che soffocano la crescita dei Paesi del cosiddetto Sud globale. L’obiettivo di Brasilia è, dunque, quello di imporsi tra i grandi produttori di petrolio accelerando lo sviluppo economico interno e rivendicandolo come un diritto dinanzi ai Paesi “ricchi”. Già ora il Brasile si colloca tra i primi sette produttori mondiali di petrolio, con l’obiettivo di raggiungere i 5,4 milioni di barili al giorno entro il 2030, arrivando così a collocarsi al quarto posto della classifica globale. Un obiettivo che contrasta con i piani della transizione energetica che pure il Brasile continua a perseguire: insieme all’adesione alla Carta di cooperazione tra i paesi produttori di petrolio (CoC), infatti, il Paese sudamericano ha di recente approvato una risoluzione che riconosce come nell’interesse della politica energetica nazionale la partecipazione del Brasile a tre forum internazionali: l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) e l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), oltre alla CoC. «Con una forte presenza di fonti rinnovabili nelle matrici elettrica ed energetica, oltre alla leadership nella produzione di biocarburanti, il Brasile rafforza la sua posizione a livello mondiale unendosi a queste organizzazioni. […] La partecipazione a questi forum è inoltre in linea con il Piano Energetico Nazionale 2050, che prevede lo sviluppo sostenibile delle energie rinnovabili parallelamente all’esplorazione delle risorse fossili», si legge in un comunicato del ministero dell’Energia.

La mossa del Brasile appare, dunque, una sorta di compromesso teso a conciliare l’esigenza di sviluppo economico e di rilievo internazionale con il rispetto degli impegni di decarbonizzazione e testimonia implicitamente come le energie rinnovabili non siano riuscite a imporsi sui combustibili fossili nonostante la spinta in tal senso dei Paesi avanzati. Al netto della questione ambientale, l’ingresso del Brasile nel cartello petrolifero può modificare gli equilibri globali dell’energia, rendendo più difficile per i produttori di petrolio non OPEC e per l’Occidente controllare le dinamiche energetiche internazionali, nonostante le notevoli divergenze all’interno del gruppo, composto da Paesi con interessi molto diversi tra loro.

[di Giorgia Audiello]

Tutela degli animali, l’80% degli atti legislativi italiani non rispetta la costituzione

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A tre anni dall’inserimento della tutela degli animali nella Costituzione italiana, il bilancio legislativo attuale è tutt’altro che in linea con i nuovi principi fondamentali. Legambiente ha analizzato l’attività legislativa tra il 2022 e il 2024, evidenziando che solo 91 atti su 617 approvati hanno riguardato gli animali. Di questi, quasi l’80% non ha rispettato il principio costituzionale. Per gli animali d’affezione, un terzo delle leggi approvate (33,33%) ha portato miglioramenti. Per gli animali da reddito, solo il 18,82% delle leggi approvate è stato positivo, mentre il 71,79% non ha preso in considerazione la nuova normativa costituzionale e il 15,38% ha peggiorato la tutela. Ancora peggio per gli animali selvatici, con solo il 16,67% degli atti legislativi che ha migliorato la loro protezione, mentre il 69,44% è rimasto neutrale e il 13,89% ha avuto effetti negativi.

L’analisi di Legambiente analizza la produzione legislativa relativa agli animali, dopo tre anni dall’inserimento della tutela della biodiversità tra i principi fondamentali della Costituzione nell’articolo 9. Il problema che evidenzia Legambiente, è che, oltre alla scarsa produzione legislativa sulla questione («appena il 14,75%», scrive l’associazione), la quasi totalità dei già pochi atti approvati non rispetta il nuovo principio costituzionale introdotto nel 2022. In particolare, sostiene l’associazione ambientalista, il 67,12% degli atti legislativi non avrebbe tenuto conto di questa novità costituzionale e il 12,33% sarebbe «andato addirittura contro» i suoi principi, peggiorando la tutela per gli animali». La percentuale di provvedimenti approvati che vanno nella direzione indicata dall’art. 9 della Costituzione è del 20,55%. Il fatto, continua Legambiente, è che quasi tutte le proposte e i disegni di legge figurano in stallo, specialmente quelli migliorativi.

«Con questa analisi, Legambiente vuole lanciare un chiaro invito a Governo e Parlamento per il rispetto del principio costituzionale in fatto di tutela degli animali, superando i ritardi accumulati in questi tre anni per la sua concreta attuazione e sbloccando l’iter delle diverse proposte di legge migliorative in stallo alla Camera e al Senato», si legge nel comunicato. In particolare, Legambiente chiede che vengano approvate tre misure legislative fondamentali: in primo luogo l’associazione chiede che venga inserito il delitto di bracconaggio nel Codice penale, con pene da tre a sei anni di reclusione, «estendendo la sanzioni anche ai traffici di specie protette, come previsto dalla direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente»; successivamente, chiede che i prodotti di origine animale che provengono da allevamenti più rispettosi del benessere degli animali possano dotarsi dell’etichetta «Cage Free»; infine, chiede che le cure veterinarie vengano rese accessibili a tutti, «attraverso un Piano nazionale, approvato in Conferenza Stato-Regioni, per l’assunzione di veterinari pubblici».

[di Dario Lucisano]

UK: stop agli aiuti al Ruanda per il supporto ai ribelli congolesi

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Il Regno Unito ha dichiarato che sospenderà gli aiuti al Ruanda e imporrà sanzioni al Paese per il suo ruolo nel conflitto in corso in Congo. Il Ruanda è accusato di sostenere i ribelli congolesi del Movimento del 23 marzo (M23), che nell’ultimo mese sono avanzati nell’area orientale del Paese, conquistando Goma e Bukavu, capitali rispettivamente delle province del Nord Kivu e del Sud Kivu, nonché le due più importanti città della regione. Il Ruanda nega da anni di essere dietro l’M23. Il Regno Unito ha dichiarato che le sanzioni e l’interruzione degli aiuti saranno attive fino a che il Ruanda non ritirerà le proprie truppe dal territorio congolese.

Negli USA gli ebrei continuano ad essere la minoranza più sovrarappresentata nel Congresso

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Nello studio condotto dal Pew Research Center sulla suddivisione religiosa dei componenti del Congresso degli Stati Uniti, emerge come, ancora una volta, la rappresentanza ebraica nel consesso politico sia di molto superiore rispetto alla popolazione ebraica statunitense. Questo dipende in buona parte dalle attività di lobby delle associazioni pro-ebraiche e pro-israeliane (una su tutti AIPAC, l’American Israel Public Affairs Committee), le quali spendono decine di milioni di dollari in sostegno dei candidati ebraici e filo-israeliani. È importante sottolineare come non tutti gli ebrei siano necessariamente pro-Israele e sionisti, e come il sionismo, in quanto ideologia nazionalista, sia appoggiato anche da molti non ebrei. Allo stesso modo, è oggettivo che il sionismo sia fortemente presente nella politica statunitense in maniera bipartisan. Il presidente uscente, Joe Biden, cattolico, si è definito sionista, mentre il presidente eletto Donald Trump è un grande sostenitore di Israele e delle sue politiche.

Dallo studio Faith on the Hill del Pew Research Center (che analizza la suddivisione religiosa dei componenti del Congresso), emerge che la popolazione ebraica è sovrastimata rispetto alla sua consistenza numerica negli Stati Uniti. Dei 532 membri totali del Congresso, 32 si sono dichiarati di fede ebraica. In questo modo, gli ebrei continuano a costituire una rappresentazione più alta rispetto alla popolazione adulta complessiva. Infatti, a fronte di una quota che al Senato si attesta al 9%, alla Camera al 5% e al Congresso al 6%, la popolazione ebraica rappresenta invece il 2% della popolazione totale statunitense. Questa tendenza non è una novità, ma rappresenta piuttosto una costante. Il numero più alto si è registrato nella 111° legislatura, 2009-2011, con ben 45 membri ebrei. Ad esclusione della 114° legislatura, 2015-2017, in cui il numero è stato di 28, dal 1979 la quota minima di politici ebrei è sempre stata di 30.

Come accennato, il sionismo è fortemente presente nella politica statunitense in maniera bipartisan. In questo giocano un ruolo chiave le attività di lobby di associazioni pro-ebraiche e pro-israeliane, una su tutti AIPAC. Nell’ultimo ciclo elettorale, soltanto AIPAC ha speso un totale di 43 milioni di dollari in finanziamenti ai partiti e ai candidati alle elezioni presidenziali, così come ai singoli candidati al Congresso. Oltre ad AIPAC ci sono organizzazioni minori ma anche singoli individui che fanno donazioni a singoli rappresentanti o candidati presidenziali. Tra questi individui c’è senz’altro l’israelo-statunitense Miriam Adelson, moglie del defunto Sheldon Adelson, il cui contributo alla campagna di Trump è stato di 100 milioni di dollari. Adelson, con un patrimonio netto di 30 miliardi di dollari, si stima che sia l’israeliana più ricca del mondo e la quinta donna più ricca degli USA, oltre che una strenua sostenitrice di Israele e del sionismo. Adelson è una sostenitrice dell’Organizzazione Sionista d’America, del museo e memoriale dell’Olocausto Yad Vashem a Gerusalemme, oltre che di vari gruppi statunitensi che raccolgono fondi per l’esercito israeliano.

[di Michele Manfrin]

Dal Piano Mattei all’IA, Italia ed Emirati Arabi firmano accordi per 40 miliardi

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Arriva un piano di investimenti degli Emirati Arabi Uniti in Italia per un valore di 40 miliardi di dollari. Lo ha reso noto, durante il Forum imprenditoriale Italia-Emirati Arabi Uniti tenutosi a Roma, la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha definito l’operazione «uno degli investimenti esteri più rilevanti e imponenti per la storia nazionale». La cooperazione si giocherà su settori strategici come IA, energia rinnovabile, ricerca spaziale e infrastrutture digitali. Tra le aziende coinvolte, Eni svilupperà data center e trasmissione energetica, mentre Fincantieri, Enel, Leonardo e Intesa Sanpaolo parteciperanno ad altri «progetti chiave». Continua così a crescere la collaborazione tra Italia ed Emirati Arabi Uniti: nei primi 11 mesi del 2024, l’interscambio commerciale tra Roma e Abu Dhabi aveva già raggiunto il valore di 9 miliardi di euro (+14,5% sul 2023).

L’annuncio di Meloni è arrivato ieri, lunedì 24 febbraio, in occasione del Forum Imprenditoriale tra Italia ed Emirati Arabi Uniti, al quale erano presenti i rappresentanti di oltre 300 aziende. Gli accordi in discussione sono diversi. Negli ultimi giorni erano già trapelati alcuni accordi che facevano capo all’italiana Eni, primo fra tutti il progetto per la trasmissione di energia rinnovabile che, partendo dagli Emirati, passerebbe dall’Albania e arriverebbe in Italia, per poi giungere nell’intero continente europeo. In aggiunta a tale intesa, Eni ha firmato altri due accordi: il primo vede una stretta collaborazione con MGX, fondo che investe in tecnologie avanzate come l’IA, e con G42, con sede a Dubai, per la realizzazione di data center in cui immagazzinare vaste quantità di informazioni digitali; questo progetto prevede la realizzazione di un supercomputer presso il Tecnopolo di Bologna del valore di circa 430 milioni di euro. Il secondo, invece, è un memorandum firmato con ADQ, fondo sovrano globale che si focalizza sulle catene di approvvigionamento, e che pone al centro la ricerca relativa all’estrazione di minerali critici.

Eni non è la sola ad aver firmato accordi con le aziende emiratine. Anche Cassa Depositi e Prestiti ha firmato con l’Abu Dhabi Investment Office (ADIO) un memorandum per facilitare la collaborazione tra imprese italiane ed emiratine e agevolare l’accesso delle aziende ai mercati di riferimento. Fincantieri ha annunciato un accordo con EDGE, uno dei gruppi più attivi nel settore della tecnologia avanzata e della difesa, nell’ambito della subacquea; le due società opereranno tramite la joint venture MAESTRAL per sviluppare tecnologie «per la protezione delle infrastrutture critiche subacquee, la mappatura dei fondali marini, sottomarini di nuova generazione, navi porta-droni e siluri leggeri». Tim ha firmato un’intesa dal valore di quasi mezzo miliardo con ADIO, volta a sviluppare soluzioni di comunicazione di ultima generazione, ampliare la banda larga e creare un centro di eccellenza nel settore dell’AI per le industrie locali. Leonardo ha firmato un accordo con EDGE nei settori chiave dell’aerotrasporto, della difesa antimissilistica, della sorveglianza antidrone, dei sistemi di gestione del combattimento navale e delle comunicazioni radio. Intesa Sanpaolo ha rilanciato la collaborazione con Masdar nel settore delle rinnovabili, esattamente come fatto da Enel.

Gli accordi annunciati negli ultimi giorni e siglati ieri viaggiano sulla scia di una sempre più stretta collaborazione tra le aziende italiane e quelle emiratine. Non solo: molti progetti risultano interdipendenti e si collocano in un orizzonte di accordi ben più ampio. Si pensi, per esempio, all’accordo Eni-MGX-G42. Gli impianti previsti, si legge nel comunicato, verranno interamente alimentati con energia elettrica prodotta da centrali a gas naturale, le cui emissioni di CO2 verranno catturate e stoccate. Per farlo, però, saranno necessarie una centrale per produrre energia e una per stoccarla. Ecco dunque che è prevista la costruzione di una nuova centrale elettrica, mentre la cattura e il conferimento della CO2 avverranno presso il già noto hub CCS di Ravenna. Altro accordo che si colloca su una scala più ampia è quello tra Acea e SACE per lo sviluppo di reti idriche e per vari progetti dedicati al Piano Mattei.

I nuovi accordi con gli Emirati Arabi Uniti sanciscono definitivamente la riapertura dei dialoghi tra Roma e Abu Dhabi dopo un periodo di frizioni iniziato con il governo Conte, seguendo lo stesso percorso di normalizzazione tracciato con l’Arabia Saudita. Nel 2019 il governo Conte aveva infatti sospeso l’invio di bombe, aerei e missili all’Arabia Saudita e agli Emirati a causa della loro responsabilità nella grave crisi umanitaria che colpisce lo Yemen da 15 anni. Successivamente, nel 2021, ha revocato le stesse autorizzazioni. Nel giugno del 2023, Meloni ha rimosso le limitazioni imposte all’Arabia Saudita, con cui a gennaio di quest’anno ha siglato un accordo su difesa ed energia dal valore di 10 miliardi di euro. Similmente a quanto fatto con l’Arabia Saudita, nell’aprile del 2023 il governo Meloni ha dapprima revocato le restrizioni sull’export di armi agli Emirati, per poi rilanciare la produzione bellica congiunta.

[di Dario Lucisano]

Antitrust contro Atac: “Mancati obiettivi di regolarità del servizio”

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L’Antitrust ha reso noto di aver avviato un’istruttoria nei confronti di Atac, l’azienda di trasporto pubblico interamente controllata da Roma Capitale, per possibile pratica commerciale scorretta. Secondo l’Antitrust, nel triennio 2021-2023, Atac avrebbe infatti  «sistematicamente» mancato gli obiettivi di regolarità del servizio, sia nelle tratte della metropolitana che in superficie. Altre lacune sono state individuate in relazione ai presidi di sicurezza in metropolitana e nel funzionamento di ascensori, scale e montascale, nonché nell’illuminazione delle stazioni. Atac ha assicurato «massima collaborazione»”.

Elon Musk vuole “correggere” il fact-checking che non gli piace

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Sbugiardato dal sistema di fact-checking del social media di sua stessa proprietà, Elon Musk promette di “correggere” X, così da assicurarsi che non possa più essere “ingannato dai Governi e dai media tradizionali”. Il sistema adoperato dalla piattaforma, quello delle note della comunità gestite in autonomia da volontari, verrà presto replicato anche da altri portali. Le scelte odierne di Musk potrebbero dunque diventare la matrice attraverso cui plasmare il futuro dei social network e della divulgazione di informazioni.

La decisione del miliardario di intervenire nel sistema di moderazione di contenuti del portale è scaturita indirettamente dalle dichiarazioni del Presidente USA Donald Trump, il quale ha descritto il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky come un “comico modesto”, nonché come un “dittatore” con appena il 4% di indice di gradimento. Trump non ha fornito riferimenti riguardanti i dati statistici citati, di contro i sondaggi del Kyiv International Institute of Sociology (KIIS), pubblicati a inizio febbraio, parlano di un supporto a Zelensky pari al 57%. 

La comunità di X non ha mancato di evidenziare questa discrepanza con una nota, ridimensionando di fatto le parole del Presidente. La cosa non è piaciuta a Musk. “Se Zelensky fosse veramente amato dagli ucraini, non avrebbe sospeso le elezioni”, ha dichiarato il miliardario. “Sa che le perderebbe nettamente nonostante abbia ottenuto il controllo di TUTTI i media ucraini, quindi ha cancellato le elezioni. In verità, è odiato da tutti gli ucraini”. Musk non ha fornito dati in supporto alla sua opinione aneddotica, si è limitato a etichettare l’intera stampa tradizionale come un megafono della propaganda di “estrema sinistra”.

Per anni, Musk ha sostenuto con forza che le note della comunità rappresentino la soluzione ideale per verificare le informazioni caricate sui social, che l’intervento collettivo degli utenti sia più affidabile di qualsiasi fact-checker indipendente. “Il sistema è completamente decentralizzato e open source, sia nel codice che nei dati”, aveva scritto lo scorso dicembre. “Qualsiasi manipolazione si noterebbe con un segnale al neon! Nessuno in X, me compreso, ha qualsivoglia controllo editoriale”. Ora che gli utenti mettono in dubbio le sue parole, però, questa decentralizzazione inizia a non piacergli.

Musk ha già dimostrato di essere più che pronto a ritoccare gli algoritmi del social network per sostenere i suoi interessi: si è assicurato che i suoi post personali siano promossi oltre alla norma, ha nascosto i contenuti a lui poco grati e ha agito contro coloro che hanno evidenziato le sue bugie. Il miliardario non ha chiarito come abbia intenzione di “correggere” le note della comunità, tuttavia qualsiasi intervento andrà ulteriormente a consolidare la cassa di risonanza attraverso cui propagare l’idea che l’unico detentore della Verità debba essere Elon Musk. 

Il desiderio di Musk di centralizzare su di sé il concetto di realtà rischia peraltro di estendersi all’intero settore tech. Lo scorso gennaio, Meta ha annunciato che avrebbe rinunciato ai fact-checker tradizionali per replicare lo schema delle note consolidato da X, mentre YouTube sta già collaudando una soluzione omologa. Qualora la mossa editoriale di Musk dovesse venire normalizzata, non è detto che anche gli altri dirigenti non possano decidere di intervenire con maggiore decisione sui processi di verifica dei contenuti, i quali sono stati lungamente affidati a realtà che, almeno su carta, sono indipendenti.

L’eventuale manipolazione delle note di comunità da parte di X andrà inoltre quasi sicuramente a complicare il rapporto tra social media e Unione Europea. La Commissione Europea ha già avviato da tempo un’indagine che, tra le altre, dovrà verificare che le strategie di moderazione del social di Musk siano adeguate a soddisfare le norme previste dal Digital Service Act (DSA). Questa ennesima evoluzione non farà che accrescere le già solide perplessità delle istituzioni, complicando ulteriormente i già marcati attriti tra UE e Big Tech statunitensi.

[di Walter Ferri]