lunedì 10 Marzo 2025
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Urbanistica del transito e del consumo: la città come non-luogo

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Marc Augé, antropologo e filosofo francese, negli anni Novanta coniò il termine «non-luogo» per definire tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici. Fanno parte dei non-luoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (tangenziali, autostrade, aeroporti etc.), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli outlet e tutti quegli spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti dal solo desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotid...

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Crisi del gas: in Transnistria chiudono le industrie, mentre in Europa i prezzi salgono

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La decisione del governo di Kiev di non rinnovare l’accordo quinquennale con Gazprom per il transito del gas russo attraverso l’Ucraina sta già facendo sentire i primi effetti negativi sui mercati e sulle nazioni europee. Nonostante Bruxelles abbia rassicurato che l’UE è pronta a compensare la perdita grazie ai terminali di GNL (gas naturale liquefatto) in Germania, Grecia, Italia e Polonia, il prezzo all’ingrosso del gas ha raggiunto il livello più alto in più di un anno e nella regione separatista della Transnistria, in Moldavia, le industrie sono state costrette a chiudere. La regione russofona che si è separata dalla Moldavia negli anni Novanta è il territorio che sta pagando maggiormente le conseguenze per l’interruzione delle forniture di gas russo, ma anche le nazioni europee rischiano di subire un’impennata dei prezzi energetici, sebbene di minore entità rispetto alla crisi energetica che ha colpito l’Europa tra il 2022 e il 2023. Da parte sua, la Commissione europea ha garantito che «L’Ue è ben preparata ad affrontare la fine del transito del gas attraverso l’Ucraina, grazie agli sforzi di collaborazione della Commissione e degli Stati membri».

Nel dettaglio, il prezzo del metano per la consegna di febbraio nei Paesi Bassi è aumentato fino al 4,3% giovedì – il giorno dopo che Gazprom ha interrotto le forniture in seguito al mancato rinnovo del contratto – prima di scendere all’1,9% in più, attestandosi a 49,83 euro per megawattora. L’aumento dei prezzi è dovuto soprattutto alla speculazione finanziaria, dato che il gas è quotato alla borsa di Amsterdam Dutch Ttf, e non alla carenza di approvvigionamenti energetici. Tuttavia, questa potrebbe non essere l’unica ragione: gli analisti di Deutsche Bank, infatti, hanno affermato che «Vale la pena tenere a mente che i prezzi sono ancora ben al di sotto dei livelli visti per tutto il 2022. Ma lo stoccaggio di gas europeo ha chiuso il 2024 al livello più basso degli ultimi tre anni e il recente aumento dei prezzi è destinato ad aumentare ulteriormente le pressioni inflazionistiche», come riferito dal Guardian. A opporsi alla decisione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky di non rinnovare l’accordo con Gazprom è stato soprattutto il premier slovacco Robert Fico, secondo cui l’interruzione delle forniture avrà un «impatto drastico su tutti noi nell’Unione europea, ma non sulla Federazione Russa». La Slovacchia, insieme a Austria, Repubblica Ceca e, in misura minore, Italia, faceva ancora affidamento su una parte considerevole di gas russo, avendo un contratto a lungo termine con Gazprom, e ha calcolato che acquistare gas altrove gli costerebbe 220 milioni di euro in più in spese di trasporto. Nonostante ciò, Zelensky ha affermato in un post su X che l’interruzione completa di tutte le forniture dalla Russia «è una delle più grandi sconfitte di Mosca», auspicando un maggiore afflusso di GNL americano in Europa.

Ben più seria è, invece, la situazione in Transnistria, dove le conseguenze dello stop al gas russo non si sono limitate a un aumento dei prezzi, ma hanno determinato la chiusura delle industrie e la mancanza di riscaldamento e erogazione di acqua calda nelle abitazioni. «Tutte le imprese industriali sono inattive, ad eccezione di quelle impegnate nella produzione alimentare, ovvero quelle che garantiscono direttamente la sicurezza alimentare della Transnistria», ha dichiarato a un canale di informazione locale Sergei Obolonik, vice primo ministro della regione. Il leader della Transnistria filorussa, Vadim Krasnoselsky, ha affermato, invece, che la regione possiede riserve di gas sufficienti solo per dieci giorni e che la centrale elettrica principale è passata dal gas al carbone e dovrebbe essere in grado di fornire elettricità ai residenti nei mesi di gennaio e febbraio. Mosca forniva circa due miliardi di metri cubi di gas all’anno alla Transnistria, un territorio con circa 450.000 abitanti. Il direttore della compagnia nazionale moldava del gas Moldovagaz, Vadim Ceban, ha dichiarato che la sua azienda è disponibile a aiutare la regione separatista ad acquistare il gas da altri Paesi europei come la Romania. Tuttavia, questo andrebbe contro gli interessi della Transnistria: il territorio filorusso, infatti, per diversi anni non ha pagato nulla a Gazprom, grazie a un tacito accordo con Mosca, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Reuters.

Con l’interruzione delle forniture di gas attraverso il gasdotto russo-ucraino, l’UE sta ripetendo la stessa strategia applicata negli ultimi anni contro il Cremlino, che però si è dimostrata lesiva degli interessi europei. È, infatti, proprio a causa degli alti costi energetici che l’industria tedesca – cuore economico dell’UE – è crollata con un effetto domino sulle altre principali economie dell’UE. Ora, un eventuale ulteriore aumento dei prezzi del gas, anche minimo, non farebbe altro che peggiorare le condizioni dell’industria del Vecchio continente.

[di Giorgia Audiello]

Truffe online, nel 2024 sottratti 181 milioni di euro

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Nel 2024 sono stati registrati 18.714 casi di truffe online, con un incremento del 15% rispetto al 2023, quando ne vennero trattati 16.325. In questo arco temporale sono cresciute anche le somme sottratte, passate da 137 a 181 milioni di euro. In aumento le frodi, pari a una somma di circa 48 milioni di euro (+20% rispetto all’anno scorso). A rivelarlo è il rapporto 2024 della Polizia postale sulla lotta al crimine informatico.

La Svezia apre la caccia al lupo tra le proteste degli animalisti

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In Svezia ha preso ufficialmente il via oggi la caccia al lupo, autorizzata dal governo con l’obiettivo dichiarato di dimezzare la popolazione di questo predatore, nonostante il suo stato di pericolo d’estinzione. Nello specifico, il piano prevede l’abbattimento di 30 esemplari, corrispondenti a cinque interi branchi familiari. La decisione ha suscitato dure reazioni da parte di attivisti ed esperti di conservazione: secondo i critici, infatti, tale operazione violerebbe le normative europee e internazionali, come la Convenzione di Berna, che proibisce di ridurre le specie protette al di sotto di un livello sostenibile.

Attualmente, la popolazione di lupi in Svezia è pari a 375 esemplari, risultando già in calo del 20% rispetto al 2022-2023. Tale diminuzione è stata attribuita all’aumento della pressione venatoria, che ha storicamente contribuito alla precarietà della presenza di lupi nel Paese. La Svezia, infatti, non ha avuto una popolazione riproduttiva stabile di lupi tra il 1966 e il 1983, e la specie è oggi inserita nella lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) come in pericolo. L’esecutivo svedese ha giustificato questa scelta affermando che il nuovo obiettivo è fissare un minimo di 170 lupi per garantire uno «stato di conservazione favorevole», riducendo il limite attuale di 300. Tuttavia, gli ambientalisti avvertono che questa soglia metterà ulteriormente a rischio la sopravvivenza della specie. «Il governo ha ignorato le leggi europee sin dal 2010, autorizzando quote di caccia annuali nonostante la protezione speciale del lupo», ha denunciato Magnus Orrebrant, presidente della Swedish Carnivore Association. La Commissione Europea ha già avviato una procedura di infrazione contro la Svezia, ma finora senza esiti concreti. «Il lupo è diventato un capro espiatorio politico e vittima di disinformazione, declassare la protezione non risolverà le sfide della coesistenza, né aiuterà realmente gli agricoltori», ha dichiarato Léa Badoz, responsabile del programma sulla fauna selvatica presso Eurogroup for Animals. Gli animalisti denunciano anche che questa politica si basa più su pressioni lobbistiche che su basi scientifiche: la Svezia, in particolare, viene accusata di aver preso decisioni in contrasto con gli impegni europei sulla biodiversità, anteponendo interessi economici alla conservazione della fauna.

Questo dibattito si inserisce in un contesto più ampio. La Convenzione di Berna, nel dicembre scorso, ha approvato una modifica che entrerà in vigore nel marzo 2025, declassando i lupi da specie «strettamente protetta» a semplicemente «protetta». Un adeguamento che, seppur con le limitazioni imposte dagli Stati membri poiché ancora «obbligati a garantire che venga raggiunto e mantenuto uno stato di conservazione favorevole per le popolazioni nelle loro regioni biogeografiche», prevede di concedere loro maggiore flessibilità per «affrontare i casi più difficili di coesistenza tra lupi e comunità», inaugurando così un maggiore spazio di manovra per la cattura e l’abbattimento degli animali. Nel frattempo, la Commissione europea sta valutando la possibilità di rivedere la sua direttiva sull’habitat per riflettere il fatto che il numero di lupi è aumentato, in particolare nelle regioni alpine e forestali della Scandinavia e dell’Europa centrale.

Quanto accade in Svezia non è estraneo a ciò che avviene in altri Paesi europei, Italia inclusa. Una questione molto dibattuta in particolare in Trentino-Alto Adige, dove lo scontro tra amministrazione e animalisti si è intensificato negli ultimi anni, in cui sono fioccate le ordinanze di abbattimento, così come i ricorsi e i contro-ricorsi davanti al TAR e al Consiglio di Stato. In ultimo, a novembre, nel Ddl Montagna è stato inserito un emendamento, approvato in Senato, che consentirà di procedere con l’uccisione dei lupi in Italia. La norma “ammazzalupi” – come l’ha definita l’Ente Nazionale Protezione Animali – prevede che le Regioni e le Province possano uccidere ogni anno una certa quantità di esemplari. «La maggioranza – ha dichiarato LNDC Animal Protection – risponde alle logiche di interessi privati di alcune lobby che non hanno alcun rispetto per la vita e l’ambiente. Bisognerebbe invece adottare politiche basate su un approccio scientifico ed etico, che rispettino il diritto alla vita degli animali selvatici e il valore della biodiversità».

[di Stefano Baudino]

Pakistan: accordo di pace tra sunniti e sciiti nel nordovest

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I capi tribali, sostenuti dalle autorità locali nell’irrequieto Pakistan nordoccidentale, hanno mediato un accordo di pace tra la minoranza sciita e le tribù sunnite. L’accordo giunge a poche settimane dagli ultimi scontri tra le due fazioni, che avevano causato la morte di almeno 130 persone. Le violenze erano esplose il 21 novembre, quando uomini armati avevano teso un’imboscata a un convoglio di veicoli, uccidendo 52 persone, per lo più musulmani sciiti. L’attacco, benché non rivendicato, aveva innescato attacchi di ritorsione da parte di gruppi rivali a Kurram, un distretto nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan.

La spesa sanitaria dei cittadini italiani è cresciuta tre volte e mezzo più di quella pubblica

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Nel 2023, la spesa sanitaria privata in Italia ha superato i 43 miliardi di euro, con un incremento del 7% rispetto al 2022 e del 24% rispetto al 2019, secondo il rapporto della Ragioneria generale dello Stato. Parallelamente, la spesa sanitaria pubblica è cresciuta solo del 2% rispetto al 2022 e del 13,6% rispetto al 2019, raggiungendo i 132,8 miliardi di euro. Si tratta della dimostrazione plastica di come, nonostante le rassicurazioni governative, gli investimenti nella sanità pubblica non siano sufficienti a garantire il mantenimento degli standard di assistenza, costringendo sempre più spesso i cittadini ad aprire il portafogli per ottenere visite e cure.

Come racconta il report, nel decennio 2014-2023, la spesa sanitaria pubblica è aumentata a un ritmo medio del 2% annuo, accelerando durante la pandemia di Covid-19 con un picco del 5,4% nel 2020. Tuttavia, negli ultimi anni, il tasso di crescita si è stabilizzato, influenzato dai rincari delle fonti energetiche e risentendo meno degli oneri emergenziali. Parallelamente, la spesa privata è cresciuta a un ritmo estremamente più sostenuto, riflettendo l’enorme difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel soddisfare pienamente la domanda di prestazioni sanitarie. Il fenomeno è ulteriormente aggravato dall’aumento dei costi sostenuti dai cittadini per l’acquisto di farmaci e prestazioni private, spesso conseguenza di lunghe liste d’attesa nel sistema pubblico. Nel periodo 2014-2023, la spesa farmaceutica diretta ha registrato un incremento medio annuo del 5,7%, con un’impennata del 13,9% solo nell’ultimo anno. Le difficoltà del SSN sono evidenti anche nei conti delle regioni: nel 2023 il disavanzo complessivo ha toccato 1,85 miliardi di euro, il valore più alto degli ultimi dieci anni. Ben 14 regioni hanno registrato bilanci negativi, costringendole a tagliare su altre voci di spesa extra-sanitarie per coprire il deficit. Calabria e Umbria sono le uniche ad aver registrato una contrazione della spesa sanitaria pubblica, rispettivamente del 4,3% e dello 0,6%.

I numeri della legge di bilancio del Governo Meloni hanno certificato i tagli alla sanità pubblica: gli stanziamenti per il Fondo sanitario nazionale sono infatti scesi sotto il 6% del Pil entro tre anni, dal 6,3% del 2024 al 5,9% del 2027. Storicamente, anche i governi precedenti hanno ridotto i finanziamenti alla Sanità. Tra il 2010 e il 2019, infatti, il sistema sanitario ha subito un “definanziamento” di oltre 37 miliardi di euro. L’unica eccezione si è avuta durante la pandemia con il secondo governo Conte, con l’aumento dei fondi durante la pandemia. Alla luce dei vincoli di bilancio e delle trasformazioni demografiche, la Ragioneria Generale dello Stato ha evidenziato la necessità di un monitoraggio più efficace dei costi e della qualità delle prestazioni erogate. Il crescente ricorso al settore privato e l’aumento della spesa out of pocket sollevano infatti molteplici interrogativi in ordine all’equità del sistema sanitario nazionale. Se la tendenza attuale dovesse continuare, il rischio è di accentuare le già palpabili disuguaglianze nell’accesso alle cure, penalizzando le fasce più deboli della popolazione.

A lanciare l’allarme sul pessimo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale era già stato, lo scorso ottobre, un importante rapporto della Fondazione GIMBE. Il report aveva attestato che nel 2023 – tra tempi di attesa infiniti e difficoltà di accesso alle strutture sanitarie – circa 4,5 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare a visite mediche e cure specialistiche, rilevando inoltre come il SSN soffra un deficit di oltre 52 miliardi rispetto agli standard europei. La situazione è particolarmente grave nel Sud Italia, dove solo Puglia e Basilicata rispettano i Livelli essenziali di assistenza (LEA). A complicare ulteriormente il quadro, tra mancate assunzioni e fughe dall’Italia, la grave carenza di personale sanitario: il SSN ha perso tra il 2019 e il 2022 oltre 11 mila medici e il numero degli infermieri, attualmente 6,5 per mille abitanti, resta drammaticamente basso.

[di Stefano Baudino]

Il settore auto in Europa ha perso 30.000 posti di lavoro nell’ultimo anno

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Dopo un anno di crisi commerciale, problemi finanziari, delocalizzazioni e tagli di personale, il fatto che il settore automotive dell’Unione Europea non se la passasse esattamente alla grande era cosa nota a molti. I dati, però, dipingono uno scenario più grigio di quanto non ci si immaginasse: nel 2024 i fornitori europei di componenti per auto hanno perso più di 30.000 posti di lavoro, oltre il doppio rispetto all’anno precedente. A dirlo è un’analisi condotta dall’Associazione europea dei fornitori automobilistici (Clepa) per il Financial Times, in cui vengono sottolineate le conseguenze del rallentamento dell’industria automobilistica del continente. In netto calo anche la creazione di posti di lavoro: dal 2020, in Europa, il settore ha registrato più di 58.000 perdite nette sul fronte occupativo, a fronte di un totale di circa 1,7 milioni di persone impiegate nell’intera area comunitaria.

La ricerca del Clepa è stata pubblicata dal quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times giovedì 2 gennaio. Da quanto riporta il giornale, a venire colpite sono state tutte le maggiori aziende produttrici di componenti per automobili europee, dal produttore francese di pneumatici Michelin all’azienda tedesca Bosch. Nell’ultimo anno, la filiera del settore automobilistico ha annunciato migliaia di tagli di posti di lavoro a fronte della drastica riduzione delle vendite di nuovi veicoli da parte dei produttori europei, che hanno lasciato i fornitori con capacità in eccesso e poche prospettive di ripresa delle vendite. Se le aziende più grandi, come le stesse Michelin e Bosch, sono finite per tagliare posti di lavoro e chiudere stabilimenti, le imprese di dimensioni minori sono state costrette a chiudere i battenti, dichiarare bancarotta o insolvenza.

Secondo il Clepa, la crisi del settore è iniziata con la pandemia di Covid-19, per poi essere acuita dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente inflazione: tutti questi elementi hanno portato a un progressivo calo della domanda nel settore automobilistico, mentre parallelamente le aziende cinesi rivali hanno continuato a crescere. A causare il crollo della filiera, oltre alla crisi energetica e finanziaria e alla competizione cinese, sembrerebbero essere le stesse regolamentazioni comunitarie: le nuove restrizioni sulle emissioni di carbonio per le case automobilistiche in arrivo nel 2025 e l’obiettivo di passare alle auto elettriche nel 2035 hanno rappresentato una sfida per le aziende che producono motori tradizionali e spinto molti produttori a concentrarsi sulle componenti per vetture a batteria. Eppure, se da un lato l’UE non ha smesso di spingere per l’introduzione e l’adozione di auto elettriche, dall’altro il loro costo elevato ha continuato a limitarne il mercato, mentre i singoli Paesi hanno faticato a erogare sussidi e incentivi per le fasce di popolazione che non possono permettersi di acquistare vetture tante onerose. Tutti questi elementi messi insieme hanno provocato una crisi nelle vendite di quelle aziende che si sono concentrate sul mercato delle componenti per l’elettrico, a tal punto che, riporta il Clepa, nel 2024 sono andati persi 4.680 posti di lavoro legati ai fornitori di auto a batteria, a fronte di 4.450 creati.

Il problema era già stato sollevato svariate volte, per giunta dagli stessi organismi interni all’Unione Europea: introdurre limitazioni che nessuno è in grado di soddisfare non serve a niente. Quello che invece potrebbe servire sono maggiori finanziamenti alla produzione di vetture elettriche, incentivi per la popolazione che non può permettersi questo tipo di veicoli, e investimenti mirati nell’intera filiera produttiva e di approvvigionamento, nei servizi, nelle infrastrutture, nella formazione di lavoratori qualificati, nella ricerca. In mancanza di questi elementi, l’addio alla benzina è un miraggio, mentre una ipotetica crisi, la cronaca di una morte annunciata: a febbraio, Forvia, un produttore di cruscotti, pannelli di porte e sistemi di scarico, ha dichiarato che entro il 2028 taglierà 10.000 posti di lavoro in Europa, dove conta oltre 75.000 lavoratori; a ottobre, anche Volkswagen ha certificato la propria crisi, annunciando la chiusura di tre stabilimenti e rischiando di generare decine di migliaia di licenziamenti; a novembre, Michelin ha dichiarato che avrebbe chiuso due fabbriche francesi che producono pneumatici per camion e furgoni, tagliando 1.200 dipendenti; Stellantis, infine, è stata al centro di una crisi di dimensioni non indifferenti, che ha portato anche alle dimissioni di Tavares, e che è stata frenata solo grazie alla mobilitazione dei lavoratori.

[di Dario Lucisano]

Corea del Sud, fallito tentativo di arresto del presidente deposto

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Le autorità sudcoreane hanno deciso di sospendere oggi l’esecuzione del mandato di arresto del presidente deposto Yoon Suk-yeol nella sua abitazione di Seul, dopo che le sue guardie del corpo glielo hanno impedito. Lo ha reso noto l’Ufficio investigativo sulla corruzione (Cio) in una nota. Gli inquirenti non sono così riusciti a effettuare l’arresto di Yoon, ordinato dalla magistratura in seguito al suo un tentativo di imporre la legge marziale la sera dello scorso 3 dicembre. Gli investigatori hanno presentato mandati per trattenere Yoon e perquisirne la residenza, ma il capo del servizio di sicurezza Park Chong-jun, invocando norme sulla privacy, ha negato loro l’ingresso.

L’Italia si è dotata di un Garante per i diritti delle persone con disabilità

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Dal primo gennaio del 2025, in Italia è entrato ufficialmente in funzione il Garante nazionale per i diritti delle persone con disabilità, un nuovo organo istituzionale creato per assicurare maggiore tutela e valorizzazione dei diritti di chi vive con limitazioni funzionali. L'autorità, composta da tre membri eletti dai Presidenti della Camera e del Senato, dovrà vigilare sul rispetto delle libertà fondamentali della categoria, garantendo l'applicazione dei principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con esigenze specifiche. Il trattato, adottato a New York...

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Gaza, ondata di raid israeliani: 63 morti in un solo giorno

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È di almeno 63 morti il bilancio delle vittime dell’ondata di raid israeliani che oggi ha colpito varie aree della Striscia di Gaza. Lo ha reso noto Al-Jazeera, citando fonti mediche. Fra le zone teatro dei bombardamenti di oggi, ci sono anche la cosiddetta area umanitaria di Al-Mawasi e il campo profughi di Jabalia, a nord, che è stato a più riprese attaccato negli ultimi giorni. Nei bombardamenti di oggi, in cui hanno perso la vita anche dei bambini, sono rimasti uccisi il capo della polizia di Hamas e il suo vice.