venerdì 9 Maggio 2025
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Nel Regno Unito si arrestano giornalisti e attivisti che difendono la resistenza palestinese

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Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno per la resistenza palestinese puoi essere arrestato, perquisito e incarcerato, il tuo cellulare e pc possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in tenuta d’assalto; puoi anche perdere il tuo posto di lavoro ed essere espulso dal Paese. 

Non era così in passato. Persino Karl Marx, per quanto tenuto sott’occhio dalla polizia, godeva pienamente della libertà di espressione e di stampa mentre risiedeva a Londra, dal 1849 fino alla morte, nel 1883. Lì poteva non solo far stampare il Manifesto del Partito Comunista, ma anche distribuire tranquillamente il suo saggio Sulla questione ebraica, testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga ferocemente quello economico – o “sionista”, diremmo oggi. Bei tempi passati. Oggi in UK c’è la repressione

La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti pro-palestinesi 

In foto: il giornalista britannico Craig Murray

Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista per i diritti umani ed ex diplomatico di Sua Maestà (è stato ambasciatore del Regno Unito in Uzbekistan dal 2002 al 2004) è stato fermato dalla polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgow di ritorno da un incontro con lo staff di WikiLeaks in Islanda. Ha subìto non solo il sequestro del suo pc e del suo cellulare, ma anche un interrogatorio durato un’ora che non riguardava solo l’organizzazione fondata da Julian Assange. Infatti, gli agenti – probabilmente dietro segnalazione della lobby sionista in UK, la quale tiene attivisti come Murray sotto stretto controllo – sapeva che il giornalista aveva assistito a una manifestazione pro-Palestina mentre era in Islanda e il brigadiere all’aeroporto voleva ragguagli su cosa si era detto a quell’evento. «Non ho idea, non parlo islandese, ci sono andato solo per solidarietà» ha risposto Murray. Gli agenti lo hanno lasciato andare, ma gli hanno sequestrato i dispositivi elettronici.

Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista pro-palestinese Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow. Motivo: i suoi post favorevoli alla resistenza palestinese, che qualcuno avrebbe segnalato alla polizia come apologia del terrorismo. Sbattuto in una cella per 15 ore, Medhurst ha dovuto dormire – mezzo svestito – su un freddo blocco di cemento. Alla fine, il giornalista è stato rilasciato con l’obbligo di presentarsi a un commissariato di polizia tre mesi dopo e con la raccomandazione di stare attento al contenuto dei suoi post in futuro. 

Due settimane dopo, all’alba del 29 agosto 2024, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro tutte le stanze e confiscando il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici. Con irriverente crudeltà, stando alle dichiarazioni della stessa giornalista, gli agenti avrebbero sparso per terra e calpestato le ceneri della sua defunta madre, che Sarah teneva in un’urna sigillata su una mensola. Messa agli arresti domiciliari per sospettato sostegno al terrorismo, la 61enne non poteva nemmeno andare in farmacia per comprare i medicinali di cui aveva bisogno e, senza cellulare e col divieto di uscire da casa, non poteva chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia 14 anni di galera. Per che cosa? Per i suoi articoli a favore della lotta palestinese, ha dichiarato. «Vogliono inculcare la paura, farmi cessare di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno».

All’alba del 17 ottobre 2024, la polizia ha messo a soqquadro la casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice capo redattore del portale filo-palestinese Intifada Elettronica, confiscando il suo cellulare e il suo pc e intimidendolo durante la perquisizione. Anche in questo caso, il motivo sono stati i suoi scritti pro-resistenza palestinese, che qualcuno ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo. È facile immaginare quale potente lobby può aver incoraggiato quel qualcuno a passare al setaccio ogni parola degli articoli di Winstanley apparsi sul suo giornale, per poter poi sporgere una denuncia circostanziata e farlo arrestare. 

La legge contro il terrorismo, manipolata ad arte

Questi soprusi della polizia britannica sono stati resi possibili per via di una draconiana legge contro il terrorismo risalente all’anno 2000, il Terrorism Act. In particolare, la Sezione 12 criminalizza qualsiasi sostegno dato a un’organizzazione proscritta, nonché qualsiasi espressione di simpatia nei confronti di quella organizzazione. 

Il Terrorism Act fa un elenco delle organizzazioni proscritte che non si possono aiutare e di cui non è possibile parlare favorevolmente, pena commettere un reato. La maggior parte sono gruppi realmente terroristi, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani), Boko Haram (in Nigeria) o al-Shabaab (in Somalia). Ma nel 2019 e poi nel 2021, dietro pressioni della potente lobby sionista in UK, sono stati aggiunti alla lista di organizzazioni proscritte due gruppi armati che si oppongono alle occupazioni israeliane. Da una parte, Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano. Dall’altra, Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano che stava occupando Gaza. 

È bene notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi cercavano di occupare terre israeliane; costituivano forze di resistenza contro chi occupava le loro terre. In questo senso, esse si possono paragonare ai partigiani italiani durante il dominio nazista dell’Italia oppure ai partigiani cinesi, guidati da Mao Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica Popolare Cinese. 

Alla luce di tutto ciò, è manifestamente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas come organizzazioni «terroriste» – anche perché la XX Assemblea Generale dell’ONU (1965) ha legittimato «la lotta [armata] da parte dei popoli…per l’autodeterminazione e l’indipendenza». Nonostante la pretestuosità, però, la lobby sionista in UK (e anche altrove nel mondo) è riuscita a far chiamare «terroristi» – da apposite leggi e perciò da molti esponenti politici e da gran parte dei mass media – sia Hezbollah, forza di resistenza armata libanese, sia Hamas, forza di resistenza armata palestinese. Ma succede spesso così. Durante la Resistenza in Italia, i nazisti fecero chiamare «banditi» i partigiani italiani come, durante la Resistenza in Cina, i giapponesi fecero chiamare «diavoli» i partigiani cinesi, per alienare loro le simpatie della gente. 

Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato proibito parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente della «resistenza palestinese»: sono tutti atti che costituiscono apologia del terrorismo. Da qui, gli arresti e le perquisizioni dei malcapitati giornalisti britannici che hanno osato sostenere il diritto dei palestinesi a difendersi. 

Ma una legge sul terrorismo così generica ha maglie troppo larghe e la polizia non riesce a controllare tutte le possibili violazioni negli scritti di tutti i giornalisti del Paese. La repressione del giornalismo pro-palestinese in UK è dunque senz’altro il frutto anche di una rete – questa a maglie strettissime – di sionisti di base che forniscono le segnalazioni usate poi dai loro vertici per far reprimere dalla polizia chiunque fustighi il sionismo oggi. 

Gli attivisti britannici potrebbero avviare un’azione legale chiedendo all’Alta Corte di riconoscere che Hezbollah e Hamas sono sì gruppi di resistenza armata, ma non organizzazioni terroristiche; di conseguenza, sostenerli non costituirebbe un reato.

[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

Zelensky china la testa: “pronti a lavorare sotto la leadership statunitense”

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è detto pronto a firmare un accordo sui minerali e sulla sicurezza con gli Stati Uniti e a lavorare sotto la «forte leadership» del presidente Donald Trump. Dopo aver ammesso che il suo colloquio con Trump «non è andato come avrebbe dovuto», Zelensky ha ribadito l’impegno dell’Ucraina per la pace e ha elogiato il presidente USA. Secondo alti funzionari dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti sarebbero pronti a sospendere gli aiuti militari verso l’Ucraina, in una mossa che costringerebbe Kiev a sedersi al tavolo con la Russia per porre fine alla guerra. In una dichiarazione rilasciata su X, il presidente ucraino ha detto: «Vorrei ribadire l’impegno dell’Ucraina per la pace. Nessuno di noi vuole una guerra senza fine. L’Ucraina è pronta a sedersi al tavolo dei negoziati per una pace duratura».

La posizione di Zelensky sarebbe stata ribadita in una lettera inviata al presidente statunitense Donald Trump, che ne ha riportato il contenuto (sostanzialmente identico a quello del post su X) durante il suo discorso al Congresso di ieri sera. Secondo quanto riferito da Trump, Zelensky avrebbe confermato che l’Ucraina è pronta a «sedersi al tavolo dei negoziati il prima possibile» e ad avvicinarsi a una pace duratura il prima possibile, in quanto «nessuno vuole la pace più degli ucraini». L’Ucraina si è anche detta a firmare un accordo sulle terre rare «in qualunque momento». Allo stesso tempo, Trump avrebbe ricevuto dalla Russia «forti segnali che anche loro sono pronti per la pace».

Le dichiarazioni di Zelensky sono arrivate subito dopo la notizia, circolata su numerosi quotidiani, secondo la quale Trump avrebbe interrotto gli aiuti militari all’Ucraina, a seguito della «condotta» del presidente ucraino dopo l’incontro alla Casa Bianca dello scorso 28 febbraio. Nel suo discorso alla popolazione ucraina di ieri sera, Zelensky ha riferito di aver chiesto informazioni ufficiali circa l’effettivo blocco degli aiuti militari statunitensi, incaricando il ministro della Difesa, i capi delle agenzie di intelligence e i diplomatici di contattare le loro controparti a Washington per ottenere informazioni ufficiali. «Le persone non dovrebbero dover tirare a indovinare, Ucraina e Stati Uniti meritano un dialogo rispettoso e una posizione chiara l’una da parte dell’altra, soprattutto quando si tratta di proteggere vite durante una guerra» ha dichiarato il presidente ucraino.

Allo stesso tempo, Zelensky ha riferito di aver avuto ieri colloqui con il presidente della Finlandia Alexander Stubb, con il primo ministro inglese Keir Starmer, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, quello croato Andrej Plenković, con il segretario generale della NATO Mark Rutte e con Friedrich Merz, leader del partito tedesco Unione Cristiano-Democratica di Germania (CDU) che lo scorso 23 febbraio ha vinto le elezioni parlamentari tedesche. Secondo quanto riferito dal presidente ucraino, ci sarebbero infatti «aggiornamenti molto importanti dalla Commissione Europea in merito a finanziamenti sostanziali per la difesa europea». Questo si tradurrebbe in «una difesa aerea aggiuntiva: più sistemi, più missili, capacità aggiuntive per proteggere le nostre città e i nostri villaggi, le nostre posizioni», con la possibilità di creare «una solida base aggiuntiva per i nostri sforzi per porre fine alla guerra». «Gli ucraini meritano la pace. L’Ucraina merita rispetto» ha riferito il presidente, che sembra così tenere un atteggiamento ambivalente per quanto riguarda il rapporti con i Paesi dell’UE e con gli Stati Uniti.

[di Valeria Casolaro]

Attacco in Pakistan: 12 morti

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Nella notte tra ieri e oggi, mercoledì 5 marzo, in Pakistan, c’è stato un attacco contro un’infrastruttura militare nella provincia nordorientale di Khyber Pakhtunkhwa, vicino al confine con il Pakistan, in seguito al quale sono state uccise 12 persone. Ancora ignote le dinamiche dell’attacco. Secondo una fonte militare ripresa dall’Associated Press, due individui avrebbero guidato dei veicoli pieni di esplosivi contro l’edificio, schiantandovisi contro, mentre altri attentatori vi facevano irruzione armati. L’attacco è stato rivendicato da Jaish al-Fursan, gruppo legato ai talebani pakistani; si tratta del terzo scontro tra talebani e forze pakistane negli ultimi giorni.

L’Uganda rimuove i monumenti legati alla dominazione britannica

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uganda

La Corte Suprema dell’Uganda ha ordinato la rimozione dei monumenti coloniali britannici da Kampala, la capitale, e la ridenominazione delle strade che ancora portano il nome di personaggi legati al dominio europeo. La decisione, emessa dal giudice Musa Ssekaana, arriva al culmine di una battaglia portata avanti da attivisti e cittadini del Paese dell'Africa centro-orientale che, da cinque anni, chiedono attraverso petizioni e cause legali di liberare la capitale dall’eredità coloniale che continua a farsi sentire nei luoghi pubblici e nei simboli della città. Nel 2020 più di 5.800 persone fir...

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Gli indigeni Inuit del Canada hanno ottenuto il diritto alla conservazione del loro habitat

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Il governo canadese ha annunciato un accordo da 270 milioni di dollari per sostenere la conservazione ambientale guidata dagli Inuit nella regione di Qikiqtani, nel Nunavut. L'accordo prevede un investimento di 200 milioni di dollari da parte del governo federale, a cui si aggiungono 70 milioni provenienti da donatori privati canadesi e internazionali. Si tratta di una importante vittoria per le popolazioni indigene, che da tempo reclamavano il controllo delle terre ancestrali, denunciandone la devastazione ambientale con conseguenze pesanti sulle possibilità di vita dei nativi.
Secondo le sti...

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Indonesia, inondazioni causano migliaia di sfollati a Giacarta

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Migliaia di persone sono state evacuate oggi nella capitale indonesiana Giacarta dopo che le inondazioni hanno travolto la regione. Lo ha reso noto l’agenzia nazionale per le calamità naturali dell’Indonesia in una nota. Le piogge torrenziali cadute ieri hanno infatti provocato inondazioni fino a 3 metri di altezza a Giacarta e nei dintorni, bloccando molte strade e sommergendo oltre mille abitazioni. Le inondazioni hanno sommerso anche un ospedale nella città orientale di Bekasi: l’acqua è penetrata in alcuni reparti e si sono verificate  interruzioni di corrente. Il governatore di Giacarta, Pramono Anung, ha innalzato l’allerta al secondo livello più alto tra quelli critici.

Bruxelles, transizione indietro tutta: la fine delle auto endotermiche può attendere

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Durante il secondo dialogo strategico per il futuro dell’industria automobilistica, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha teso la mano alle cause automobilistiche per affrontare quello che ha definito come un periodo di forte incertezza e di grande competizione a livello mondiale. Von der Leyen ha così presentato una proposta per l’industria dell’automotive, basata su tre punti: innovazione tecnologica della guida autonoma; allentamento dei tempi di esame (ed eventuali sanzioni) per i produttori di auto rispetto alle emissioni di CO2 e accelerazione dei lavori di revisione per lo stop ai motori endotermici previsto per i 2035; competitività in materia di produzione di batterie per auto elettriche. In questo modo, la presidente della Commissione UE conferma il rimodernamento del Green Deal e delle stesse politiche europee in materia di transizione, sconfessando di fatto l’agenda “green” dai lei stessa promossa durante la precedente legislatura. Una retromarcia dettata sia dalla crisi che investe il settore automobilistico in Europa, sia dai nuovi equilibri politici europei che hanno visto il forte rafforzamento dei gruppi conservatori che difendono lo status quo industriale.

Accelerare il processo di revisione (inizialmente previsto per il 2026) sullo stop ai motori convenzionali dal 2035 e congelamento delle multe per tre anni per i produttori che non soddisfano i criteri di sostenibilità stabiliti dall’Unione Europea. Questo è uno dei tre punti su cui la Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, basa la nuova strategia europea per il futuro dell’industria automobilistica. I nuovi requisiti anti-emissione per le case automobilistiche, già in vigore quest’anno, prevedono una soglia di 95 grammi di CO2 per chilometro guidato. Le sanzioni per chi disattende questa soglia limite vengono però congelate per tre anni, nel tentativo di dare maggior respiro al settore. Quindi, secondo il principio del banking and loan, invece della conformità esaminata su base annuale, le aziende avranno tre anni di tempo per mettersi in regola. Nonostante questa decisione sconfessi in parte le stesse politiche, e gli stessi standard, di cui von der Leyen si è fatta promotrice, la presidente della Commissione Europea ha affermato che «la piena neutralità tecnologica rimane il principio fondamentale».

Von der Leyen ha poi affermato la necessità di una grande spinta nella produzione europea di software e hardware per le auto a guida autonoma. «Sappiamo che la concorrenza globale è feroce. Quindi dobbiamo agire in grande e dobbiamo essere grandi», ha detto. Per questo, sostiene, le aziende dovranno essere in grado di mettere in comune le risorse. L’Unione Europea, dal canto suo, dovrà essere di aiuto nel lanciare progetti pilota su larga scala per la guida autonoma. «Perché l’obiettivo è molto semplice: dobbiamo portare i veicoli autonomi sulle strade europee più velocemente», ha detto von der Leyen.

Infine, la produzione di batterie per veicoli elettrici e l’enorme competizione da parte di produttori stranieri. Senza essere citata direttamente, è chiaro che qui ci si riferisce alla Cina e alla sua capacità di produrre batterie a costi di molto inferiori rispetto ai produttori europei. Nel tentativo di mantenere i costi bassi, così da poter fornire veicoli che non costino troppo rispetto al resto del mercato mondiale, von der Leyen annuncia aiuti diretti da parte delle istituzioni europee. Tradotto, l’Europa darà soldi pubblici alle case automobilistiche per abbassare i costi delle batterie e quindi per mantenere competitivi sul mercato mondiale i veicoli elettrici europei. Insomma, i tanto odiati aiuti di Stato che i neoliberisti rifiutano e che denigrano quando si devono mettere in altri settori dell’economia o quando sono altri Paesi a farlo. Per arrivare a questo obiettivo, spiega von der Leyen, verrà continuato il processo di semplificazione normativa e di riduzione burocratica già annunciato dalla stessa presidente della Commissione quando, di fatto, ha rivisto e rimodellato pesantemente il Green Deal che lei stessa ha tanto voluto.

Insomma, nel tentativo di salvare il settore automobilistico in forte difficoltà, von der Leyen rivede i suoi stessi piani inerenti l’Agenda verde e la transizione Green, promettendo meno burocrazia e, soprattutto, enormi quantità di soldi pubblici alle case automobilistiche per mantenere la loro competitività sul mercato mondiale.

[di Michele Manfrin]

Programma Alimentare Mondiale: chiusi gli uffici in Africa meridionale

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Il Programma Alimentare Mondiale ha annunciato la chiusura degli uffici in Africa Meridionale, in seguito al taglio dei finanziamenti statunitensi provenienti dalla piattaforma USAID. L’annuncio è arrivato oggi, martedì 4 marzo, e riguarda l’ufficio regionale di Johannesburg, in Sudafrica. Un portavoce dell’ufficio ha affermato che, d’ora in poi, le operazioni di assistenza per la regione meridionale saranno accentrate nell’ufficio di Nairobi, in Kenya. La scorsa settimana, l’amministrazione Trump ha dichiarato che avrebbe rescisso il 90% dei contratti di aiuti esteri di USAID perché non promuovevano gli interessi nazionali dell’America. In totale, si stima siano stati bloccati circa 60 miliardi di dollari in progetti umanitari in tutto il mondo.

Trump avrebbe sospeso tutti gli aiuti militari a Kiev

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, avrebbe sospeso l’invio di tutti gli aiuti militari all’Ucraina. La notizia è apparsa sulla maggior parte dei quotidiani statunitensi, che avrebbero ricevuto conferma da fonti anonime interne alla Casa Bianca, ma non è ancora stata confermata da fonti ufficiali. Secondo quanto riportato dall’emittente statunitense Fox News, particolarmente vicina all’amministrazione Trump, la decisione sarebbe stata presa in seguito alla «condotta» del presidente ucraino durante l’incontro del 28 febbraio presso lo Studio Ovale, giudicata da Trump «irrispettosa» e prova del fatto che Zelensky non sarebbe «pronto alla pace». La sospensione avrebbe lo scopo di costringere Zelensky a trattare; secondo Fox News, sarebbe una soluzione temporanea e riguarderebbe tutti gli aiuti. L’indiscrezione stampa ha sollevato un polverone in tutte le istituzioni del mondo, e ha costretto Zelensky a correre ai ripari e ad annunciare la propria volontà di sedersi a un tavolo di pace.

La notizia dell’eventuale sospensione degli aiuti militari a Kiev gira su tutti i quotidiani e i siti di informazione dalla mattina di oggi, martedì 4 marzo, e in molti la stanno dando praticamente per certa. Dopo aver adeguatamente verificato le varie fonti, si può sostenere che, per il momento, si tratta solo di indiscrezioni apparse sulla stampa. Esse, inoltre, non solo non sono ancora confermate, ma sono anche abbastanza confuse nei dettagli: non è infatti chiaro se lo stop agli aiuti includa tutti i programmi, o solo quelli che devono venire attivati; Fox News sostiene che a venire inclusi sarebbero «tutti» gli aiuti. I giornali statunitensi sembrano però d’accordo sul fatto che la sospensione avrà effetto immediato, e che dunque sarà avviata non appena uscirà la notizia ufficiale. Si tratterebbe, comunque, di una soluzione temporanea, ma non è chiaro fino a quando dovrebbe restare in vigore.

La mancata conferma della notizia non ha impedito ai Paesi di tutto il mondo di esprimersi sulla vicenda. Zelensky ha affermato di essere pronto a parlare di pace, mentre il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak ha pubblicato una dichiarazione sul social X in cui invita alla calma: «Innanzitutto è necessario valutare quali specifici programmi cesseranno di funzionare, considerando che molti erano già nella fase finale», scrive Podolyak; «non dimentichiamo che l’Ucraina ha già sperimentato sospensioni prolungate dei programmi di aiuto militare degli Stati Uniti e ha imparato ad adattarsi a tali situazioni». Nel suo post, Podolyak parla anche di «cercare alternative per acquistare o acquisire equivalenti dai nostri partner europei», tenendo inoltre aperta l’opzione di «negoziare» con gli USA, riferendosi probabilmente all’accordo sulle terre rare. Malgrado le parole di Podolyak, RBC Ukraine scrive che il deputato ucraino Fedor Venislavsky avrebbe dichiarato che, in assenza del sostegno statunitense, l’Ucraina avrebbe sei mesi di autonomia sul fronte bellico. Il Guardian, invece, riporta che il primo ministro ucraino Denys Shmyhal avrebbe mostrato preoccupazioni circa il mantenimento del sistema aereo di difesa Patriot.

In Russia si respira tutta un’altra aria. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha parlato di un «grande contributo per la pace», mentre il vertice del comitato per gli affari internazionali della Duma, Leonid Slutsky, ha affermato che la decisione di Trump metterebbe per l’ennesima volta Zelensky in una situazione critica. In Europa, la notizia sta venendo condannata da quasi tutto il panorama politico. Il primo ministro polacco, riportato dai media nazionali, Donald Tusk, sembra aver dato per certa la decisione di Trump, e ha affermato che lo stop agli aiuti all’Ucraina mette l’Europa in uno «stato di emergenza». Il premier ha poi rilanciato le discussioni sul riarmo, ricordando il vertice di Londra, e i recenti annunci militaristi che hanno fatto schizzare le azioni delle maggiori aziende belliche europee. Anche in Francia c’è stata una condanna generale della presunta scelta di Trump, arrivata anche, riporta Le Figaro, da Marine Le Pen. In generale, insomma, la notizia ha scatenato il panico in tutto il Vecchio Continente, che è rapidamente corso a parlare di riarmo e alternative su come continuare a portare avanti la guerra.

[di Dario Lucisano]

L’UE accelera l’avvio del sistema di controllo biometrico alle frontiere

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Il 2022 avrebbe dovuto segnare l’inizio del grande lancio europeo dell’Entry/Exit System (EES), il sistema di monitoraggio dei confini concepito per registrare i dati biometrici di tutti i viaggiatori provenienti da Paesi esterni allo Spazio Economico Europeo. Nonostante l’implementazione sia stata ripetutamente rinviata per limiti tecnici e le pressioni provenienti dal Regno Unito, il Consiglio Europeo sembra volere più che mai sbloccare la situazione, orientandosi verso l’approvazione di deroghe che consentiranno l’avvio dell’EES già a partire da ottobre 2025.

A seguito della pubblicazione di una proposta normativa datata 28 febbraio, il Consiglio ha avanzato l’idea di procedere con un’implementazione “progressiva” del sistema, una strategia che mira a superare gli ostacoli attuali tramite future negoziazioni, presumibilmente nell’arco di sei mesi. Secondo quanto riportato dalla testata francese The Connexion, discussioni interne alla Commissione per le Libertà civili, la Giustizia e gli Affari interni del Parlamento europeo (LIBE) hanno ipotizzato come data papabile per il lancio l’inizio di novembre, se non addirittura la fine di ottobre.

Le ragioni dei continui rinvii sono molteplici, ma possono essere sintetizzate in tre criticità principali: in primo luogo, non tutte le nazioni europee sono adeguatamente pronte a introdurre il sistema; in secondo luogo, il Regno Unito esprime attraverso attività di lobby un notevole malcontento per il fatto che i suoi cittadini dovranno sottoporsi a controlli più stringenti quando viaggiano verso l’Unione Europea; infine, permangono dubbi sulla capacità dell’infrastruttura digitale di essere resiliente quanto basta per sostenere un’iniziativa così ambiziosa. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni aeroporti nazionali hanno acquisito già da tempo i dispositivi per la registrazione biometrica, i quali sono tuttavia rimasti inattivi, in attesa dell’effettiva attuazione dell’EES.

L’obiettivo primario dell’Entry/Exit System consiste nella creazione di un archivio centrale europeo che raccolga, in maniera sistematica, i dati relativi ai passeggeri provenienti da paesi esterni all’area Schengen – dalle generalità fino alle informazioni derivanti dal riconoscimento facciale – al fine di monitorarne identità e movimenti. Pur rappresentando una proposta audace, l’iniziativa rischia di compromettere i diritti fondamentali degli extracomunitari se non adeguatamente regolata, soprattutto in un contesto in cui le situazioni di frontiera sono spesso insufficientemente tutelate, come evidenziato anche dalle criticità del neonato AI Act.

L’interdipendenza tra l’EES e il Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (ETIAS) evidenzia la complessità della gestione dei flussi migratori e delle misure di sicurezza a livello continentale. ETIAS, che prevede l’introduzione di requisiti di ingresso per i viaggiatori, mira – secondo la Commissione europea – a “identificare i rischi per la sicurezza, la migrazione irregolare e la propagazione di pericoli epidemici posti dai visitatori esenti dall’obbligo del visto“. L’attivazione di ETIAS è prevista a circa sei mesi di distanza dall’effettiva messa in opera dell’Entry/Exit System.

[di Walter Ferri]