Almeno 124 persone sono morte in seguito a un atterraggio fallito presso l’aeroporto internazionale di Muan, in Corea del Sud. Secondo le prime ricostruzioni, l’aereo è atterrato male, finendo fuori pista e schiantandosi contro un muro, per poi essere avvolto dalle fiamme. A bordo si trovavano 181 persone, due delle quali sono state tratte in salvo. Le operazioni di salvataggio e il riconoscimento dei corpi sono ancora in corso. L’aereo apparteneva alla compagnia Jeju Air ed era partito da Bangkok.
Il Mozambico è in rivolta
Il Mozambico è attraversato da una crisi che si fa sempre più profonda, dopo che lunedì la Corte costituzionale ha confermato il risultato delle elezioni del 9 ottobre. I giorni natalizi hanno visto l’esplosione di nuove proteste e la conseguente repressione. Ad oggi, dopo più di due mesi dalla tornata elettorale, il numero dei morti sembra essere tra i 130 e i 150, come riportano Amnesty international e Human rights watch, con la possibilità che siano quasi 100 in più come invece riporta Plataforma Decide, un gruppo di monitoraggio mozambicano, che attesta il conteggio delle vittime a 248. Nell’ultima settimana i morti hanno continuato ad aumentare, solo tra lunedì e martedì, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, hanno perso la vita durante le proteste almeno 21 perone e «ci sono stati almeno 236 atti violenti» ha dichiarato il ministro degli Interni Pascoal Ronda.
Il giorno di natale poi, con proteste e scontri all’esterno, è scoppiata una rivolta nel carcere di massima sicurezza di Maputo. La struttura si trova a 14 chilometri dalla capitale e mercoledì mattina i detenuti sono riusciti a impossessarsi delle armi dei secondini sfruttando «il giorno festivo dove le guardie presenti nella struttura sono meno», ha raccontato a South African Broadcasting Corporation il giornalista mozambicano Clemente Carlos. A seguito della rivolta più di 1.500 prigionieri sono riusciti a fuggire e «gli scontri hanno provocato 33 morti e 15 feriti nei pressi della prigione» ha dichiarato il capo della polizia Bernardino Rafael. Secondo la ministra della Giustizia Helena Kida «i disordini sono iniziati all’interno della prigione e non hanno nulla a che fare con le manifestazioni esterne». Però, per il capo della polizia, le proteste iniziate la mattina di mercoledì nella struttura sarebbero conseguenza della presenza, nei dintorni del carcere, di «un gruppo di manifestati sovversivi». Rafael ha aggiunto che le proteste «hanno portato al crollo di un pezzo del muro di cinta, da dove sono fuggiti i prigionieri», come riporta Ap.
Le manifestazioni però non cominciano questa settimana, ma sono iniziate a ridosso della tornata elettorale del 9 ottobre, ancor prima dell’arrivo dei conteggi definitivi, pubblicati il 24 ottobre. Le strade di diverse città del paese dell’Africa australe si sono riempite di giovani cittadini che hanno contestato l’ennesima vittoria del Frelimo, partito al governo da 50 anni. Diversi osservatori indipendenti internazionali e nazionali hanno denunciato irregolarità nei verbali, come il conteggio di voti superiori al numero di elettori, oltre a intimidazioni e acquisti di voti. Il candidato di opposizione del partito Podemos, Venancio Mondlane, ha sempre sostenuto di aver raggiunto il 53% delle preferenze, basandosi sui conteggi fatti dal suo partito, contro il 20% dichiarato dalla Commissione elettorale nazionale. Nei giorni successivi alle votazioni Mondlane ha chiamato più volte la popolazione a scendere in piazza per contestare i risultati elettorali, chiedendo di fermare il paese fino a che non fosse stato riconosciuto il vero vincitore. Poi, dopo gli omicidi dell’avvocato di Mondlane, Elvino Dias, e del rappresentante di Podemos, Paulo Guambe avvenuti il 19 ottobre, il candidato di opposizione ha lasciato il paese dicendo di essere «in pericolo di morte».

Il ricorso alla Corte costituzionale è stato l’ultimo tentativo da parte del partito Podemos di ribaltare il risultato elettorale ma la massima Corte ha deciso diversamente, confermando la vittoria di Daniel Chapo candidato del Frelimo. Mercoledì 18 dicembre, prima della sentenza della Corte costituzionale, Mondlane ha avuto un colloquio di un’ora e mezza, da remoto, con il presidente uscente e segretario del Frelimo, Filipe Nyusi. Un incontro che avrebbe potuto portare a una soluzione, ma che invece non ha fatto altro che inasprire i toni. Mondlane nel pomeriggio dello stesso giorno ha avuto una riunione con gli europarlamentari del gruppo Renew Europe, durante il quale ha espresso la sua sensazione riguardo alla sentenza della Corte costituzionale, che avrebbe confermato la vittoria del Frelimo, e addirittura che Nyusi volesse dichiarare lo stato d’emergenza per poter allungare il suo mandato. Nelle ore successive è arrivata la risposta del presidente uscente che ha rassicurato la popolazione che nulla di quello che era stato detto dal candidato di Podemos sarebbe mai successo.
Mondlane, prima ancora che la Corte costituzionale si pronunciasse, aveva avvertito che la questione era «di vita o di morte» e che l’intera responsabilità per la probabile degenerazione della situazione sarebbe stata tutta nelle mani di Lúcia Ribeiro, la presidente della Corte Costituzionale. Nonostante le parole incendiarie di Mondlane gli fossero costate l’accusa di insurrezione, la pena a pagare 505 milioni allo Stato e il blocco dei conti bancari nel paese, il candidato di opposizione, ancora all’estero, ha dichiarato prima della sentenza di lunedì scorso: «Se abbiamo la verità elettorale, avremo la pace. Se abbiamo le bugie elettorali, faremo precipitare il paese in un precipizio, nel caos, nel disordine» e così è stato.

Un caos che si incomincia a propagare anche alle province più lontane del grande paese africano, come la martoriata provincia di Capo Delgado. La compagnia di estrazione britannica Gemfields, che detiene delle grandi concessioni di estrazione di rubini nella provincia di Capo Delgado, ha denunciato il dilagarsi delle violenze collegate alle elezioni anche nei villaggi vicini alle miniere, affermando martedì in una nota che «gruppi associati all’estrazione e al commercio illegali di rubini hanno approfittato dei disordini politici», come riportato da Reuters. Ma nella regione più settentrionale del Mozambico le violenze legate alle risorse non sono una novità. Infatti, dal 2017, l’esercito sta combattendo con il gruppo terroristico Al-Shabab, legato all’Isis, che ha intenzione di appropriarsi della ricca regione mozambicana.
L’insurrezione jihadista ha provocato lo sfollamento di più di mezzo milione di persone e la morte di diverse migliaia di civili. Con la guerriglia vanno avanti di pari passo anche i progetti multi miliardari di estrazione del gas a qualche decina di chilometri dalla costa di Capo Delgado. Oggi Eni, Total ed Exxon detengono le concessioni sulle due aree di trivellazione, con la compagnia francese che detiene la concessione per il giacimento più grande, per un investimento di quasi 50 miliardi di dollari. La presenza di tutte queste compagnie estere che sfruttano il suolo mozambicano è un altro motivo di malcontento nei confronti del partito di governo che concede enormi concessioni per avere indietro una piccola fetta dei mirabolanti guadagni. Tutto questo mentre il 65% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la maggior parte della popolazione giovanile, il 56% del totale, non ha un lavoro. In più a settembre è uscita una lunga inchiesta sul quotidiano statunitense Politico, che mostra come le milizie private appaltate da Total Energies, insieme all’esercito mozambicano, si siano macchiati di violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali, torture e incendi dolosi durante le operazioni contro i jihadisti. Il CEO di Total, Patrick Pouyanné, ha difeso l’approccio dell’azienda, sostenendo che l’intervento delle forze di sicurezza è stato richiesto per garantire la protezione dei suoi impianti di gas.
Tuttavia, le preoccupazioni sulla complicità dell’azienda nelle violazioni dei diritti umani, così come il crescente disastro umanitario, stanno mettendo a dura prova l’immagine di Total e sollevano interrogativi sulle sue responsabilità. Con l’instabilità politica attuale, fonti di InfoAfrica riferiscono che diverse società internazionali hanno predisposto piani di emergenza per il proprio personale. Più passano i giorni e più sale la tensione che, da un momento all’altro, potrebbe portare a un colpo di mano politico. A Capo Delgado poi le cose possono degenerare come già sta succedendo, con la possibilità dell’apertura di un’altra crisi umanitaria senza precedenti nel continente. Con il popolo che in piazza chiede giustizia e dignità, la classe politica, come ovunque nel mondo, non ascolta e i morti aumentano.
[di Filippo Zingone]
Uno studio rivela come abilità chiave dell’uomo si siano sviluppate anche negli scimpanzé
Le abilità che si sono rivelate fondamentali per il successo evolutivo dell’uomo possono essere riscontrate anche negli scimpanzé, i quali sono in grado di organizzare le proprie azioni in sequenze complesse e strutturate, proprio come gli esseri umani. È quanto emerge da un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Università di Oxford, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica PeerJ. L’analisi, che ha coinvolto oltre 8.000 azioni svolte con l’uso di strumenti per rompere noci, ha rivelato che le stesse abilità che negli esseri umani sono alla base del linguaggio e della cultura tecnologica vengono inserite in sequenze con relazioni gerarchiche, suggerendo che la capacità di pianificare e agire di conseguenza potrebbe essersi evoluta prima dell’ultimo antenato comune tra uomo e scimpanzé. «È interessante notare che persino gli scimpanzé più giovani nel nostro studio hanno mostrato segni di organizzazione dei comportamenti in blocchi di azioni. Ciò suggerisce che questo sistema di organizzazione comportamentale potrebbe essere qualcosa che emerge molto presto nella vita», ha commentato il ricercatore e coautore Elliot Howard-Spink.
Gli scimpanzé (Pan troglodytes) sono tra i primati più studiati per la loro stretta parentela genetica con gli esseri umani: condividiamo con loro circa il 98,7% del DNA. Questa affinità li rende un modello fondamentale per esplorare l’evoluzione dei comportamenti complessi. Nel caso dello studio recentemente pubblicato, i ricercatori hanno utilizzato un decennio di filmati registrati nella foresta di Bossou, in Guinea, per analizzare come gli scimpanzé utilizzano strumenti naturali, in particolare martelli e incudini di pietra, per rompere noci dai gusci duri. Durante queste osservazioni, sono state identificate circa 8.260 azioni distribuite su oltre 300 noci e, grazie a modelli statistici avanzati, gli studiosi hanno esaminato le relazioni tra le diverse azioni, scoprendo che gli scimpanzé non si limitano a risposte riflessive, ma pianificano e regolano i propri comportamenti in modo flessibile e adattivo. In particolare, è stato rilevato che la maggior parte delle scimmie osservate organizza le azioni attraverso la produzione di “pezzi ripetibili”, analogamente a quanto succede quando decidiamo di far scaldare il bollitore prima di versare l’acqua quando decidiamo di preparare una tazza di tè. Tuttavia, tale abilità non è stata rilevata per tutti gli esemplari e ciò, secondo i ricercatori, suggerisce che tale attitudine non è presente universalmente come accade invece per gli umani.
Infine, gli autori hanno spiegato di aver osservato che tali capacità sono state osservate anche negli scimpanzé più giovani, suggerendo che vi sarebbe una predisposizione che emerge precocemente nella vita. Tuttavia, esistono diverse teorie che sono state formulate ma che meriteranno ulteriori indagini prima di una conferma: i ricercatori studieranno se le capacità di formulare queste sequenze complesse sia o meno condivisa tra le specie di scimmie antropomorfe, e inoltre potrebbero esistere delle regole ben precise che gli esemplari seguono quando generano le loro strategie di utilizzo degli strumenti, le quali potrebbero emergere durante lo sviluppo o essere modellate nel corso della vita adulta. «Le prove archeologiche di altri studi suggeriscono che gli scimpanzé hanno utilizzato strumenti di pietra per migliaia di anni, in modo simile a oggi. Sono necessarie ulteriori ricerche per capire perché gli esseri umani possono produrre nuove tecnologie a ritmi così rapidi, mentre i comportamenti di utilizzo di strumenti degli scimpanzé sembrano cambiare molto lentamente», ha concluso Elliot Howard-Spink.
[di Roberto Demaio]
“Ode all’odore della legna”, una poesia di Pablo Neruda (1955)
Tardi, con le stelle
aperte nel freddo
aprii la porta.
Il mare
galoppava
nella notte.
Come una mano
dalla casa oscura
uscì l’aroma
intenso
della legna custodita.
L’aroma era visibile
come
se l’albero
fosse vivo.
Come se ancora palpitasse.
Visibile
come una veste.
Visibile
come un ramo spezzato.
Girai
dentro
la casa
circondato
da quella balsamica
oscurità.
Fuori
le punte
del cielo scintillavano
come pietre magnetiche,
e l’odore della legna
mi toccava
il cuore
con dita
come di gelsomino,
come di alcuni ricordi.
Non era l’odore acuto
dei pini,
no,
non era
la scalfittura nella pelle
dell’eucalipto,
non erano
neppure
i profumi verdi
della vigna,
ma
qualcosa di più segreto,
perché quella fragranza
una sola,
una sola
volta esisteva,
e lì, di tutto ciò che vidi nel mondo,
nella mia stessa
casa, di notte, presso il mare d’inverno,
lì stava attendendomi
l’odore
della rosa più profonda,
il cuore reciso della terra,
qualcosa
che m’invase come un’onda
staccata
dal tempo
e si perse in me stesso
quando aprii la porta
della notte.
La poesia è sensorialità radicale, è percezione assoluta. L’orchestra delle immagini in Neruda allestisce una compagnia di strumenti che alternano urli e sussurri, dove i profumi innalzano il tempo a una vertigine senza contorni: «come una mano/ dalla casa oscura/uscì l’aroma/ intenso/ della legna custodita».
Ma c’è una posizione particolare del poeta, una soggettiva circolare che snida i retaggi, in un vortice di sguardi e percezioni, che confonde aromi e ricordi, che punteggia di porte metafisiche il paesaggio marino.
«Il cuore reciso della terra» rende antropomorfico il tutto, come «la scalfittura nella pelle/ dell’eucalipto». Tutto si fa mitologico, personale, corporeo, trafitto di eros e nostalgia.
Ogni segreto, cioè ogni oggetto che fa esplodere il suo senso e il suo sentore, colma di scintillii e di oscurità l’intorno.
La poesia è svelamento, confessione di un modo speciale di cogliere la natura, il destino sublime di ogni dettaglio, rivestito di stelle e di «pietre magnetiche».
[di Gian Paolo Caprettini]
Gaza: forze israeliane arrestano il direttore dell’ospedale Kamal Adwan
Le forze israeliane hanno arrestato il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, la sola struttura sanitaria attualmente operativa nel nord della Striscia di Gaza. Lo ha reso noto il ministero della Sanità palestinese. A confermare la notizia è stata anche la Protezione civile di Gaza. Nella giornata di ieri, l’esercito israeliano ha dichiarato di avere effettuato un’operazione nell’area dell’ospedale Kamal Adwan, sostenendo che la struttura era una «roccaforte chiave dei terroristi». Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’attacco israeliano «ha messo fuori servizio l’ultima importante struttura sanitaria nel nord di Gaza».
Gli USA, per smentire la carestia in Palestina, hanno ammesso che è in corso una pulizia etnica
L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Jack Lew, ha respinto il rapporto pubblicato, poi ritirato, da Famine Early Warning System Network, organizzazione che si occupa di analisi e allerte sull’insicurezza alimentare acuta in tutto il mondo, istituita dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), che avvertiva della carestia in corso nel Nord di Gaza e della sua pericolosità. Nel fare questo, Lew non solo ha smentito direttamente un’agenzia governativa del suo stesso Paese ma ha indirettamente confermato che a Gaza è in corso un’effettiva pulizia etnica e che quasi 400.000 palestinesi hanno subito sfollamento forzato, arresti arbitrari e uccisioni di massa, tutte azioni che rientrano nella definizione di genocidio. Questa situazione, tra l’altro, è sotto gli occhi di tutti ed è confermata ormai da tutte le più importanti istituzioni mondiali, così come dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani.
Il 23 dicembre, Famine Early Warning System Network, organizzazione istituita nel 1985 direttamente dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ovvero l’agenzia governativa indipendente degli Stati Uniti principale responsabile della gestione degli aiuti civili all’estero e dell’assistenza allo sviluppo, ha pubblicato un rapporto sulla situazione di “emergenza carestia” nel Nord di Gaza successivamente ritirato dopo l’intervento del governo statunitense e della propria ambasciata in Israele. Come riportato da Al Jazeera, il rapporto ritirato dal Famine Early Warning System Network affermava che «sulla base del collasso del sistema alimentare e del peggioramento dell’accesso all’acqua, ai servizi igienico-sanitari e ai servizi sanitari in queste aree, insieme a un’analisi comparativa delle tendenze del consumo alimentare e dei dati degli indicatori di malnutrizione acuta», nel prossimo gennaio nel Nord di Gaza moriranno di fame e disturbi correlati tra le 2 e le 15 persone ogni giorno. Il rapporto condannava Israele sulla politica di blocco degli aiuti umanitari diretti a Gaza, ormai praticamente fermi in zone come Jabaliya, Beit Hanoun e Beit Lahia. Sul sito dell’organizzazione statunitense viene adesso riportato che «l’allerta FEWS NET del 23 dicembre è in fase di ulteriore revisione e si prevede che verrà ripubblicata con dati e analisi aggiornati a gennaio». Jack Lew, ambasciatore USA in Israele, è intervenuto contestando l’operato dell’organizzazione statunitense per prendere le difese di Israele. Come si suol dire, però, la “toppa è stata peggiore del buco”. In tal modo, infatti, Lew ha indirettamente confermato la pulizia etnica in corso in Palestina.
«Il rapporto pubblicato oggi su Gaza da FEWS NET si basa su dati obsoleti e imprecisi. Abbiamo lavorato a stretto contatto con il governo di Israele e l’ONU per fornire un maggiore accesso al Governatorato del Nord, ed è ora evidente che la popolazione civile in quella parte di Gaza è compresa tra 7.000 e 15.000 persone, non tra 65.000 e 75.000 che è la base di questo rapporto. Il COGAT stima che la popolazione in quest’area sia compresa tra 5.000 e 9.000. L’UNRWA stima che la popolazione sia compresa tra 10.000 e 15.000 abitanti. In un momento in cui informazioni inesatte causano confusione e accuse, è irresponsabile pubblicare un rapporto come questo. Lavoriamo giorno e notte con le Nazioni Unite e i nostri partner israeliani per soddisfare i bisogni umanitari – che sono grandi – e fare affidamento su dati imprecisi è irresponsabile», ha scritto in una nota l’ambasciata statunitense in Israele, riportata sul social X dall’ambasciatore Jack Lew. Implicitamente, Lew, per smentire il rapporto sull’emergenza carestia, ha così ammesso che la parte settentrionale di Gaza è sottoposta a pulizia etnica. Infatti, dall’inizio dell’assedio israeliano su Gaza, il Nord della Striscia aveva una popolazione di circa 400.000 persone (come riportato anche nel precedente rapporto di novembre pubblicato da FEWS NET) mentre adesso, secondo l’ambasciatore, vi vivrebbero tra le 7.000 e le 15.000 persone. Questo, in altre parole, significa che tra le 385.000 e le 393.000 persone sono state sfollate, arrestate o uccise.
Una dichiarazione di carestia sarebbe stata un grande imbarazzo per Israele, che ha insistito sul fatto che la sua guerra a Gaza è diretta contro Hamas e non contro la popolazione civile palestinese. Lo scontro interno tra componenti governative statunitensi sulla drammatica situazione a Gaza, inerente l’emergenza alimentare dovuta al blocco israeliano degli aiuti umanitari, ha però portato alla conferma indiretta che i palestinesi stanno subendo pratiche riconducibili a un genocidio da parte di Israele.
[di Michele Manfrin]
Gli USA hanno sanzionato il leader di Sogno Georgiano
Gli Stati Uniti hanno sanzionato il politico e imprenditore georgiano Bidzina Ivanishvili, fondatore del partito Sogno Georgiano, accusandolo di minare la democrazia e di essere troppo vicino alla Russia. Con l’introduzione di sanzioni, gli USA congelano i beni di Ivanishvili nel Paese, vietando inoltre ai cittadini americani di intrattenere affari con lui. Dopo le elezioni tenutesi lo scorso ottobre, vinte da Sogno Georgiano, migliaia di persone hanno riempito le strade in risposta alla decisione del partito di sospendere i negoziati per l’adesione all’UE. Gli USA e il Regno Unito avevano già sanzionato alcuni funzionari del partito, accusandoli di avere represso troppo duramente le proteste.
La Siria alla resa dei conti: attacchi contro alawiti, cristiani e curdi
Finita una repressione ne comincia un’altra. In Siria dalle macerie del post-Assad si sta consolidando un regime sprezzante dei diritti umani e della democrazia. Uno scenario prevedibile, nei confronti del quale soltanto le cancellerie europee avevano nascosto la testa sotto la sabbia. La nuova Siria targata Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) ed Esercito Nazionale Siriano (SNA), a cui si aggiunge una galassia di gruppi ribelli, ha infatti preso di mira le minoranze del Paese. Tra queste figurano gli alawiti, il gruppo religioso di cui faceva parte anche la famiglia Assad, i cristiani e i curdi. Contro questi ultimi e la loro esperienza di confederalismo democratico in Rojava va avanti l’offensiva via terra, con supporto aereo fornito da Ankara. Dopo la presa di Manbij, l’SNA e l’esercito turco stanno ammassando soldati nei pressi di Kobane, città simbolo della rivoluzione curda.

Gli attacchi alle minoranze non si arrestano ai confini dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est ma procedono spediti anche nelle aree dove si è insediato il nuovo regime, guidato dal gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham. La diffusione delle immagini relative alla distruzione del santuario alawita di Sayyid Abi Abdullah Al-Hussein bin Hamdan Al-Khusaibi e all’uccisione dei suoi custodi da parte dei miliziani di HTS hanno generato un’ondata di proteste a Qardaha e Homs, a cui il nuovo governo siriano ha risposto aprendo il fuoco. Si registrano diversi feriti e almeno una vittima. A Homs, il 25 dicembre, è stato imposto il coprifuoco, seguito da rastrellamenti nei confronti degli alawiti, etichettati come sostenitori del vecchio regime. In rete sono apparsi diversi video ritraenti uomini della minoranza religiosa calpestati dai miliziani o costretti a terra ad abbaiare.
A Suqaylabiyah, una città a maggioranza ortodossa, degli uomini incappucciati hanno bruciato un albero di Natale, scatenando il malcontento della popolazione locale e dei cittadini cristiani di Damasco, che sono scesi nelle strade della capitale. Risalire con certezza ai responsabili non è semplice, dal momento che la maggior parte delle notizie che attualmente filtrano dalla Siria sono veicolate da canali filoturchi. Le strade portano o ai miliziani di HTS o a gruppi ribelli al di fuori del loro controllo (secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i soldati erano stranieri del gruppo jihadista Ansar al-Tawhid). Il primo caso comporterebbe la caduta della maschera di coloro che sono stati ribattezzati “jihadisti moderati”, il secondo invece alimenterebbe, a dispetto della propaganda, l’immagine di un Paese tutt’altro che pacificato, anche nelle aree descritte come sotto il controllo del nuovo regime.
Proteste contro il nuovo governo si sono registrate anche in altre città dove la comunità alawita è particolarmente radicata, come le città costiere di Tartus e Latakia, colpite a inizio mese da pesanti attacchi israeliani. In risposta alle mobilitazioni, l’HTS e l’SNA hanno effettuato arresti di massa, aumentando la presenza dei miliziani nella regione costiera.
L’effettiva sovranità della nuova Siria è compressa dalla Turchia, sponsor dell’offensiva che in due settimane ha rovesciato Assad. In queste ore il presidente Recep Tayyip Erdoğan sta giocando un’importante partita in Siria, contro il Rojava e l’esperienza democratica realizzata da curdi, arabi, assiri e altre minoranze, che nel 2015 hanno fondato le proprie forze armate: le Forze Democratiche Siriane (SDF). Domenica scorsa al-Jolani, leader di HTS, ha dichiarato che le armi nel Paese, comprese quelle detenute dalle fazioni presenti nell’area delle SDF, passeranno sotto il controllo statale.
Ad arginare, almeno per il momento, l’avanzata turca e dei suoi proxy è la resistenza curda, a cui si aggiunge la presenza militare degli Stati Uniti, che martedì scorso ha dispiegato mezzi e uomini a Kobane, nel tentativo di congelare quello che è a tutti gli effetti un attacco annunciato da parte della Turchia.
Sul campo siriano si fronteggiano dunque due membri della NATO da tempo ai ferri corti. Una situazione delicata – che da un lato vede la potenza egemone degli ultimi trent’anni minacciata dal mondo multipolare e dall’altro un attore regionale con aspirazioni imperialistiche via via crescenti – arricchita da una certa imprevedibilità data dall’imminente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.

La repressione a suon di violenze, torture ed esecuzioni contro le minoranze da parte dei nuovi padroni della Siria è inversamente proporzionale alla critica (sostanzialmente nulla) nei confronti di Tel Aviv, che oltre ad aver occupato un altro pezzo di Golan ha sferrato centinaia di attacchi su edifici civili e infrastrutture strategiche con l’obiettivo di rendere militarmente inoffensiva la Siria.
L’accondiscendenza verso lo Stato ebraico è evidentemente una delle clausole che al-Jolani deve rispettare per il sostegno dell’Occidente. In occasione di un incontro «dai segnali positivi» con una delegazione statunitense, il leader di HTS ha visto rimossa dalla propria testa una taglia di 10 milioni di dollari posta nel 2017 da Washington. Gli Stati Uniti sorridono per la caduta di Assad e l’indebolimento dell’Asse della Resistenza, l’Unione Europea si sfrega le mani all’idea di un freno alla migrazione siriana. Poco importa ai paladini della giustizia e della democrazia se tutto ciò avverrà sulla pelle di milioni di persone.
[di Salvatore Toscano]