mercoledì 12 Marzo 2025
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“Ode all’odore della legna”, una poesia di Pablo Neruda (1955)

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Tardi, con le stelle
aperte nel freddo
aprii la porta.
Il mare
galoppava
nella notte.

Come una mano
dalla casa oscura
uscì l’aroma
intenso
della legna custodita.

L’aroma era visibile
come
se l’albero
fosse vivo.
Come se ancora palpitasse.

Visibile
come una veste.

Visibile
come un ramo spezzato.

Girai
dentro
la casa
circondato
da quella balsamica
oscurità.
Fuori
le punte
del cielo scintillavano
come pietre magnetiche,
e l’odore della legna
mi toccava
il cuore
con dita
come di gelsomino,
come di alcuni ricordi.

Non era l’odore acuto
dei pini,
no,
non era
la scalfittura nella pelle
dell’eucalipto,
non erano

neppure
i profumi verdi
della vigna,
ma
qualcosa di più segreto,
perché quella fragranza
una sola,
una sola
volta esisteva,
e lì, di tutto ciò che vidi nel mondo,
nella mia stessa
casa, di notte, presso il mare d’inverno,
lì stava attendendomi
l’odore
della rosa più profonda,
il cuore reciso della terra,
qualcosa
che m’invase come un’onda
staccata
dal tempo
e si perse in me stesso
quando aprii la porta
della notte.

La poesia è sensorialità radicale, è percezione assoluta. L’orchestra delle immagini in Neruda allestisce una compagnia di strumenti che alternano urli e sussurri, dove i profumi innalzano il tempo a una vertigine senza contorni: «come una mano/ dalla casa oscura/uscì l’aroma/ intenso/ della legna custodita».

Ma c’è una posizione particolare del poeta, una soggettiva circolare che snida i retaggi, in un vortice di sguardi e percezioni, che confonde aromi e ricordi, che punteggia di porte metafisiche il paesaggio marino.

«Il cuore reciso della terra» rende antropomorfico il tutto, come «la scalfittura nella pelle/ dell’eucalipto». Tutto si fa mitologico, personale, corporeo, trafitto di eros e nostalgia.

Ogni segreto, cioè ogni oggetto che fa esplodere il suo senso e il suo sentore, colma di scintillii e di oscurità l’intorno.

La poesia è svelamento, confessione di un modo speciale di cogliere la natura, il destino sublime di ogni dettaglio, rivestito di stelle e di «pietre magnetiche».

[di Gian Paolo Caprettini]

Gaza: forze israeliane arrestano il direttore dell’ospedale Kamal Adwan

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Le forze israeliane hanno arrestato il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, la sola struttura sanitaria attualmente operativa nel nord della Striscia di Gaza. Lo ha reso noto il ministero della Sanità palestinese. A confermare la notizia è stata anche la Protezione civile di Gaza. Nella giornata di ieri, l’esercito israeliano ha dichiarato di avere effettuato un’operazione nell’area dell’ospedale Kamal Adwan, sostenendo che la struttura era una «roccaforte chiave dei terroristi». Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’attacco israeliano «ha messo fuori servizio l’ultima importante struttura sanitaria nel nord di Gaza».

Gli USA, per smentire la carestia in Palestina, hanno ammesso che è in corso una pulizia etnica

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L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Jack Lew, ha respinto il rapporto pubblicato, poi ritirato, da Famine Early Warning System Network, organizzazione che si occupa di analisi e allerte sull’insicurezza alimentare acuta in tutto il mondo, istituita dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), che avvertiva della carestia in corso nel Nord di Gaza e della sua pericolosità. Nel fare questo, Lew non solo ha smentito direttamente un’agenzia governativa del suo stesso Paese ma ha indirettamente confermato che a Gaza è in corso un’effettiva pulizia etnica e che quasi 400.000 palestinesi hanno subito sfollamento forzato, arresti arbitrari e uccisioni di massa, tutte azioni che rientrano nella definizione di genocidio. Questa situazione, tra l’altro, è sotto gli occhi di tutti ed è confermata ormai da tutte le più importanti istituzioni mondiali, così come dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

Il 23 dicembre, Famine Early Warning System Network, organizzazione istituita nel 1985 direttamente dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ovvero l’agenzia governativa indipendente degli Stati Uniti principale responsabile della gestione degli aiuti civili all’estero e dell’assistenza allo sviluppo, ha pubblicato un rapporto sulla situazione di “emergenza carestia” nel Nord di Gaza successivamente ritirato dopo l’intervento del governo statunitense e della propria ambasciata in Israele. Come riportato da Al Jazeera, il rapporto ritirato dal Famine Early Warning System Network affermava che «sulla base del collasso del sistema alimentare e del peggioramento dell’accesso all’acqua, ai servizi igienico-sanitari e ai servizi sanitari in queste aree, insieme a un’analisi comparativa delle tendenze del consumo alimentare e dei dati degli indicatori di malnutrizione acuta», nel prossimo gennaio nel Nord di Gaza moriranno di fame e disturbi correlati tra le 2 e le 15 persone ogni giorno. Il rapporto condannava Israele sulla politica di blocco degli aiuti umanitari diretti a Gaza, ormai praticamente fermi in zone come Jabaliya, Beit Hanoun e Beit Lahia. Sul sito dell’organizzazione statunitense viene adesso riportato che «l’allerta FEWS NET del 23 dicembre è in fase di ulteriore revisione e si prevede che verrà ripubblicata con dati e analisi aggiornati a gennaio». Jack Lew, ambasciatore USA in Israele, è intervenuto contestando l’operato dell’organizzazione statunitense per prendere le difese di Israele. Come si suol dire, però, la “toppa è stata peggiore del buco”. In tal modo, infatti, Lew ha indirettamente confermato la pulizia etnica in corso in Palestina.

«Il rapporto pubblicato oggi su Gaza da FEWS NET si basa su dati obsoleti e imprecisi. Abbiamo lavorato a stretto contatto con il governo di Israele e l’ONU per fornire un maggiore accesso al Governatorato del Nord, ed è ora evidente che la popolazione civile in quella parte di Gaza è compresa tra 7.000 e 15.000 persone, non tra 65.000 e 75.000 che è la base di questo rapporto. Il COGAT stima che la popolazione in quest’area sia compresa tra 5.000 e 9.000. L’UNRWA stima che la popolazione sia compresa tra 10.000 e 15.000 abitanti. In un momento in cui informazioni inesatte causano confusione e accuse, è irresponsabile pubblicare un rapporto come questo. Lavoriamo giorno e notte con le Nazioni Unite e i nostri partner israeliani per soddisfare i bisogni umanitari – che sono grandi – e fare affidamento su dati imprecisi è irresponsabile», ha scritto in una nota l’ambasciata statunitense in Israele, riportata sul social X dall’ambasciatore Jack Lew. Implicitamente, Lew, per smentire il rapporto sull’emergenza carestia, ha così ammesso che la parte settentrionale di Gaza è sottoposta a pulizia etnica. Infatti, dall’inizio dell’assedio israeliano su Gaza, il Nord della Striscia aveva una popolazione di circa 400.000 persone (come riportato anche nel precedente rapporto di novembre pubblicato da FEWS NET) mentre adesso, secondo l’ambasciatore, vi vivrebbero tra le 7.000 e le 15.000 persone. Questo, in altre parole, significa che tra le 385.000 e le 393.000 persone sono state sfollate, arrestate o uccise.

Una dichiarazione di carestia sarebbe stata un grande imbarazzo per Israele, che ha insistito sul fatto che la sua guerra a Gaza è diretta contro Hamas e non contro la popolazione civile palestinese. Lo scontro interno tra componenti governative statunitensi sulla drammatica situazione a Gaza, inerente l’emergenza alimentare dovuta al blocco israeliano degli aiuti umanitari, ha però portato alla conferma indiretta che i palestinesi stanno subendo pratiche riconducibili a un genocidio da parte di Israele.

[di Michele Manfrin]

Gli USA hanno sanzionato il leader di Sogno Georgiano

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Gli Stati Uniti hanno sanzionato il politico e imprenditore georgiano Bidzina Ivanishvili, fondatore del partito Sogno Georgiano, accusandolo di minare la democrazia e di essere troppo vicino alla Russia. Con l’introduzione di sanzioni, gli USA congelano i beni di Ivanishvili nel Paese, vietando inoltre ai cittadini americani di intrattenere affari con lui. Dopo le elezioni tenutesi lo scorso ottobre, vinte da Sogno Georgiano, migliaia di persone hanno riempito le strade in risposta alla decisione del partito di sospendere i negoziati per l’adesione all’UE. Gli USA e il Regno Unito avevano già sanzionato alcuni funzionari del partito, accusandoli di avere represso troppo duramente le proteste.

La Siria alla resa dei conti: attacchi contro alawiti, cristiani e curdi

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Finita una repressione ne comincia un’altra. In Siria dalle macerie del post-Assad si sta consolidando un regime sprezzante dei diritti umani e della democrazia. Uno scenario prevedibile, nei confronti del quale soltanto le cancellerie europee avevano nascosto la testa sotto la sabbia. La nuova Siria targata Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) ed Esercito Nazionale Siriano (SNA), a cui si aggiunge una galassia di gruppi ribelli, ha infatti preso di mira le minoranze del Paese. Tra queste figurano gli alawiti, il gruppo religioso di cui faceva parte anche la famiglia Assad, i cristiani e i curdi. Contro questi ultimi e la loro esperienza di confederalismo democratico in Rojava va avanti l’offensiva via terra, con supporto aereo fornito da Ankara. Dopo la presa di Manbij, l’SNA e l’esercito turco stanno ammassando soldati nei pressi di Kobane, città simbolo della rivoluzione curda.

Mappa della Siria aggiornata a dicembre 2024.

Gli attacchi alle minoranze non si arrestano ai confini dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est ma procedono spediti anche nelle aree dove si è insediato il nuovo regime, guidato dal gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham. La diffusione delle immagini relative alla distruzione del santuario alawita di Sayyid Abi Abdullah Al-Hussein bin Hamdan Al-Khusaibi e all’uccisione dei suoi custodi da parte dei miliziani di HTS hanno generato un’ondata di proteste a Qardaha e Homs, a cui il nuovo governo siriano ha risposto aprendo il fuoco. Si registrano diversi feriti e almeno una vittima. A Homs, il 25 dicembre, è stato imposto il coprifuoco, seguito da rastrellamenti nei confronti degli alawiti, etichettati come sostenitori del vecchio regime. In rete sono apparsi diversi video ritraenti uomini della minoranza religiosa calpestati dai miliziani o costretti a terra ad abbaiare.

A Suqaylabiyah, una città a maggioranza ortodossa, degli uomini incappucciati hanno bruciato un albero di Natale, scatenando il malcontento della popolazione locale e dei cittadini cristiani di Damasco, che sono scesi nelle strade della capitale. Risalire con certezza ai responsabili non è semplice, dal momento che la maggior parte delle notizie che attualmente filtrano dalla Siria sono veicolate da canali filoturchi. Le strade portano o ai miliziani di HTS o a gruppi ribelli al di fuori del loro controllo (secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i soldati erano stranieri del gruppo jihadista Ansar al-Tawhid). Il primo caso comporterebbe la caduta della maschera di coloro che sono stati ribattezzati “jihadisti moderati”, il secondo invece alimenterebbe, a dispetto della propaganda, l’immagine di un Paese tutt’altro che pacificato, anche nelle aree descritte come sotto il controllo del nuovo regime.

Proteste contro il nuovo governo si sono registrate anche in altre città dove la comunità alawita è particolarmente radicata, come le città costiere di Tartus e Latakia, colpite a inizio mese da pesanti attacchi israeliani. In risposta alle mobilitazioni, l’HTS e l’SNA hanno effettuato arresti di massa, aumentando la presenza dei miliziani nella regione costiera.

L’effettiva sovranità della nuova Siria è compressa dalla Turchia, sponsor dell’offensiva che in due settimane ha rovesciato Assad. In queste ore il presidente Recep Tayyip Erdoğan sta giocando un’importante partita in Siria, contro il Rojava e l’esperienza democratica realizzata da curdi, arabi, assiri e altre minoranze, che nel 2015 hanno fondato le proprie forze armate: le Forze Democratiche Siriane (SDF). Domenica scorsa al-Jolani, leader di HTS, ha dichiarato che le armi nel Paese, comprese quelle detenute dalle fazioni presenti nell’area delle SDF, passeranno sotto il controllo statale.

Ad arginare, almeno per il momento, l’avanzata turca e dei suoi proxy è la resistenza curda, a cui si aggiunge la presenza militare degli Stati Uniti, che martedì scorso ha dispiegato mezzi e uomini a Kobane, nel tentativo di congelare quello che è a tutti gli effetti un attacco annunciato da parte della Turchia.

Sul campo siriano si fronteggiano dunque due membri della NATO da tempo ai ferri corti. Una situazione delicata – che da un lato vede la potenza egemone degli ultimi trent’anni minacciata dal mondo multipolare e dall’altro un attore regionale con aspirazioni imperialistiche via via crescenti – arricchita da una certa imprevedibilità data dall’imminente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.

I miliziani SNA, nei pressi del fronte a est di Kobane, replicano il gesto dei lupi grigi, gruppo paramilitare ultranazionalista turco.

La repressione a suon di violenze, torture ed esecuzioni contro le minoranze da parte dei nuovi padroni della Siria è inversamente proporzionale alla critica (sostanzialmente nulla) nei confronti di Tel Aviv, che oltre ad aver occupato un altro pezzo di Golan ha sferrato centinaia di attacchi su edifici civili e infrastrutture strategiche con l’obiettivo di rendere militarmente inoffensiva la Siria.

L’accondiscendenza verso lo Stato ebraico è evidentemente una delle clausole che al-Jolani deve rispettare per il sostegno dell’Occidente. In occasione di un incontro «dai segnali positivi» con una delegazione statunitense, il leader di HTS ha visto rimossa dalla propria testa una taglia di 10 milioni di dollari posta nel 2017 da Washington. Gli Stati Uniti sorridono per la caduta di Assad e l’indebolimento dell’Asse della Resistenza, l’Unione Europea si sfrega le mani all’idea di un freno alla migrazione siriana. Poco importa ai paladini della giustizia e della democrazia se tutto ciò avverrà sulla pelle di milioni di persone.

[di Salvatore Toscano]

“Dagliele all’occupante”: l’emergenza abitativa nel racconto distorto dei media dominanti

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C’erano una volta le residenze di edilizia pubblica, quelle che in Italia si chiamavano case popolari. Alloggi di proprietà pubblica, nati da una duplice convinzione: una di carattere universalistico (un tetto sulla testa come diritto inalienabile di ogni cittadino) e l’altra di carattere utilitaristico (la loro costruzione è stato un poderoso investimento in edilizia, che ha alimentato l’occupazione e la disponibilità economica dei beneficiari, alimentando quindi i consumi). In Italia, solo tra il 1949 e il 1963 si costruirono 355 mila alloggi popolari, attraverso oltre 20.000 cantieri che arrivarono a dare lavoro al 10% degli operai edili dell’epoca. Fino agli anni ’80 del secolo scorso in media si costruirono oltre 300.000 alloggi di edilizia pubblica al decennio. Dall’inizio degli anni ’90, invece, gli investimenti si sono fermati, parallelamente al progressivo smantellamento dello Stato sociale e al ritiro dello Stato dalla pianificazione economica – che ha segnato il passaggio dall’economia di tipo keynesiano, che dominava l’Europa fino alla fine della guerra fredda, al neoliberismo che prese le redini in seguito. Dal 2000 a oggi, il numero delle case pubbliche costruite in Italia si è praticamente azzerato: gli unici investimenti riguardano i lavori di ristrutturazione per tenere in vita almeno parte del patrimonio costruito nei decenni precedenti. Nel 2023, il patrimonio di case popolari in Italia conta circa 805.000 unità. Ma circa il 10% di queste è sfitto e di quelle rimanenti la gran parte ospita famiglie (o più spesso solo eredi dei nuclei storici) che non avrebbero più il diritto di abitarle perché non a basso reddito, ma a cui nessuno chiede di fare spazio a chi ne avrebbe bisogno.

Non è tutto. Nel 1992 è stato abolita la legge sull’equo canone, che calmierava il prezzo degli affitti in base ad alcuni parametri come il valore dell’immobile e il suo stato di conservazione, lasciando l’intero settore immobiliare in mano al libero mercato. Nel mentre, parallelamente ai tagli agli enti locali, in tutte le Regioni sono stati ridotti al lumicino i contributi per l’affitto destinati ai nuclei a basso reddito. Il risultato prevedibile dell’accoppiata tra soppressione dell’edilizia pubblica e deregolamentazione del mercato è stato l’esplosione dell’emergenza abitativa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, dal 2002 al 2021 in Italia sono stati eseguiti 519.243 sfratti, l’83% per morosità, ovvero perché gli inquilini non erano in grado di pagare il canone d’affitto. E i numeri continuano a peggiorare: nel 2022 è stato raggiunto il record di quasi 42 mila sfratti

Nel frattempo, in nome del libero mercato, le nostre città piene di gente senza casa si sono riempite anche di case senza gente. L’ultimo censimento ISTAT sulle abitazioni certifica che in Italia ci sono oltre 9,5 milioni di abitazioni sfitte: il 27% delle 35 milioni presenti nel Paese. Solo a Milano gli appartamenti disabitati sono 109.000, a Roma 162.00, e molti di questi appartengono a fondi immobiliari che le tengono volutamente vuote per non alterare al ribasso i prezzi di mercato. Ma, mentre diversi Paesi europei intraprendono misure per limitare il fenomeno degli affitti turistici e scoraggiare il fenomeno delle abitazioni mantenute sfitte attraverso l’innalzamento della loro tassazione, in Italia questo argomento è ancora un tabù. 

Si tratta di una dinamica spietata, che colpisce le famiglie in quello che è un diritto primario per poter vivere una vita degna. Per questo non dovrebbe stupire che in tutte le città italiane, a cominciare da quelle più grandi dove è maggiormente impattante l’emergenza abitativa, sono attivi movimenti per il diritto alla casa. Questi, oltre a manifestare, non disdegnano di attuare pratiche formalmente illegali come l’occupazione degli alloggi pubblici sfitti. Si tratta di un fenomeno in continua espansione: si stima che il 4% degli alloggi popolari sfitti sia attualmente occupato, spesso da parte di alcune di quelle 605 mila famiglie che avrebbero i requisiti per richiederli ma sono da anni in graduatoria senza che gli vengano assegnati. Tra di loro, come è purtroppo naturale che sia, si annidano anche storie di alcuni che occupano per semplice tornaconto o, peggio, per attuare una sorta di racket degli affitti illegale. Storie numericamente marginali, ma su cui i media puntano quotidianamente il faro, fomentando nell’opinione pubblica l’idea distorta che il problema della carenza di alloggi sia da imputare a chi occupa piuttosto che allo Stato, che non costruisce alloggi popolari e non assegna quelli esistenti, e ai grandi fondi immobiliari che mantengono sfitte migliaia di abitazioni per fini speculativi. 

Gli interessi mediatici nel distorcere la questione

La criminalizzazione dei movimenti per il diritto alla casa si muove a ondate, seguendo picchi mediatici che quasi mai arrivano per sbaglio. Negli ultimi mesi, dopo le indagini dell’ente ALER a Milano sull’europarlamentare Ilaria Salis e l’attenzione mediatica sulle proteste contro la turistificazione, l’occupazione abusiva sembra essere nuovamente una tra le principali preoccupazioni degli editori. Che la stampa generalista sia solita fiondarsi su argomenti che possano attirare l’attenzione, per affrontarli con superficialità, non è purtroppo una novità. Tuttavia, sarebbe bene notare che, in molti casi, a soffiare su un fuoco inesistente sono gli stessi giornali, con il fine di creare inutile allarmismo e, magari, veicolare altri messaggi.

Dietro al racconto sul rischio, statisticamente insignificante, di vedere la propria casa occupata «mentre si esce per fare la spesa», non c’è semplicemente il bisogno di fare clickbait, ma una vera e propria propaganda fatta per distogliere l’attenzione dai reali problemi e dai reali responsabili della situazione. Analizzando, senza grande difficoltà, le proprietà dietro ai gruppi editoriali che gestiscono la quasi totalità dei media nostrani, si scopre che queste posseggono contemporaneamente enti turistici, imprese di costruzione e, soprattutto, holding di investimento immobiliare. Il conflitto d’interessi che si staglia sulle prime pagine dei giornali, rende impossibile la denuncia delle reali cause dietro all’inaccessibilità, sempre maggiore, di un’abitazione degna. Il dito puntato dalla stampa contro l’occupazione cela coloro che trasformano le città e simultaneamente finanziano il racconto della propria impunità.

Prendiamo il caso di Roma. Da anni ormai il quotidiano Il Messaggero porta avanti una campagna ossessiva contro le occupazioni. Nella sua narrazione i movimenti diventano racket mafiosi e la Capitale appare una terra di nessuno, dove la proprietà della casa è minacciata non dai prezzi fuori controllo che impediscono di acquistarla, ma da chi si organizza per rivendicare il diritto ad avere un tetto sulla testa. Le case della malavita, Case occupate: il listino prezzi del racket, Roma: il racket delle case occupate: ecco alcuni dei titoli che quotidianamente affollano le pagine del principale quotidiano romano. A leggerlo, pare che Roma sia una sorta di Gotham City governata dagli occupanti. Mai una parola, invece, sulla vergogna di oltre centomila appartamenti sfitti o sulle case popolari non assegnate. Non a caso, Il Messaggero è di proprietà della Caltagirone Editore Spa, a sua volta controllata da Francesco Gaetano Caltagirone, storico palazzinaro della capitale con un patrimonio di 3,5 miliardi di euro, membro della Giunta di Confindustria e del Comitato di Presidenza della Federazione italiana editori giornali. Non è un caso isolato: noti sono, ad esempio, anche gli interessi immobiliari e legati al settore bancario di Fininvest (che controlla Mediaset) e Urbano Cairo (La7, Corriere della Sera e decine tra quotidiani locali e periodici). 

Fare chiarezza è uno dei doveri del giornalismo e, in questo caso, sarebbe forse più corretto, da un lato, presentare dei dati reali e incontrovertibili e, dall’altro, ricordare che in Italia, secondo i dati, circa una casa su quattro non è abitata, ovvero 9,5 milioni su 35,3. Quando ascoltiamo notizie che ci parlano ossessivamente del “pericolo occupazione abusiva”, chiediamoci chi ce lo sta dicendo e chi sta finanziando questo tipo d’informazione.

[di Andrea Legni e Armando Negro]

Gaza, Israele occupa il più grande ospedale del nord della Striscia

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Dopo mesi di attacchi, Israele ha completato l’assedio dell’ospedale Kamal Adwan, il più grande del nord della Striscia di Gaza. Il complesso è stato occupato e centinaia di persone, tra pazienti e personale sanitario, sono state costrette a evacuare e a dirigersi a piedi verso sud. A nulla è servito l’appello di Hussam Abu Safiya, direttore del Kamal Adwan, che nei giorni scorsi aveva chiesto alla comunità internazionale di intervenire prima che fosse troppo tardi. Nelle scorse ore lo Stato ebraico ha bombardato un edificio nei pressi dell’ospedale, uccidendo almeno 50 persone, tra cui 5 membri del personale medico.

Brasile: le prime immagini della tribù incontattata dei Massaco

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Per la prima volta, alcune fototrappole installate nella foresta pluviale amazzonica hanno catturato immagini della tribù incontattata dei Massaco, un gruppo indigeno isolato che vive nello stato brasiliano di Rondonia, al confine con la Bolivia. Le fotografie, che sono state pubblicate dal quotidiano britannico The Guardian e dal brasiliano O Globo, rappresentano un evento straordinario per lo studio delle popolazioni indigene. I Massaco, così denominati dal fiume che attraversa il loro territorio, sono infatti una comunità la cui lingua, cultura e nome originario rimangono sconosciuti.

Le immagini, scattate tra il 2019 e il 2024 dalla Fondazione Nazionale dell’Indio del Brasile (Funai), mostrano membri della tribù nudi e intenti a osservare e utilizzare strumenti lasciati dagli studiosi, come machete, punte metalliche e asce. La tribù vive all’interno di un’area protetta di 421mila ettari, costantemente minacciata da attività illegali come il disboscamento, l’espansione agricola e il traffico di droga. Malgrado queste pressioni, la popolazione Massaco è sorprendentemente in crescita: dagli anni Novanta, quando si stimavano circa 100 membri, si è passati a oltre 200 individui, suddivisi in circa 50 famiglie. Un incremento demografica testimoniato anche dalla presenza di giocattoli rudimentali, segno della presenza di bambini nei villaggi. Tuttavia, l’aumento della popolazione Massaco potrebbe aumentare il rischio di contatto con il mondo esterno, specialmente se le condizioni ambientali li costringessero a spostarsi per cercare acqua o prede.

FUNAI | Uno scatto che mostra alcuni membrì della tribù dei Massaco

Le abilità dei Massaco sono straordinarie: utilizzano archi lunghi fino a tre metri, probabilmente per cacciare sdraiati, e proteggono il loro territorio con trappole di legno appuntito, piantate nel terreno per scoraggiare intrusioni. Queste strategie riflettono una profonda conoscenza dell’ambiente e una volontà di difendere la propria indipendenza a tutti i costi. Altair Algayer, coordinatore del Funai e veterano nello studio delle tribù amazzoniche, ha evidenziato l’eccezionalità del caso Massaco. Osservando il materiale a disposizione, il ricercatore ha desunto che, molto probabilmente, la tribù attribuisce un ruolo di comando al componente più anziano. «Il territorio dei Massaco è abbastanza intatto, ma ha bisogno di essere monitorato e protetto: è circondato da allevatori che rappresentano una minaccia e l’accaparramento di terre è diffuso nella regione», ha dichiarato Fiona Watson di Survival.

Negli ultimi decenni, le popolazioni indigene hanno iniziato a riorganizzarsi, unendosi e definendo obiettivi comuni. Attraverso questa nuova coesione, sono riuscite a raggiungere importanti traguardi, spesso in risposta a minacce concrete come progetti minerari, petroliferi, disboscamenti e altre forme di sfruttamento, trasformando la loro lotta per la terra in un movimento globale per i diritti umani, la giustizia ambientale e la salvaguardia del pianeta. Nonostante gli sforzi di conservazione e le politiche di protezione, la situazione delle tribù incontattate rimane critica, con il disboscamento e l’accaparramento di terre che continuano a minacciare il futuro di queste popolazioni. Proprio in Brasile, a settembre 2023, in seguito a settimane di proteste indigene, la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale il Marco Temporal, una legge che limitava la demarcazione e protezione delle terre ancestrali alle popolazioni indigene che dimostrassero di occuparle fisicamente da prima del 5 ottobre 1988. Questa sentenza ha bloccato l’applicazione della legge, rappresentando una significativa vittoria per le comunità locali.

[di Stefano Baudino]

L’ex capo della NATO è stato nominato co-presidente del gruppo Bilderberg

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L’ex capo della NATO Jens Stoltenberg è stato nominato nuovo copresidente del Gruppo Bilderberg, l’influente organizzazione che ogni anno organizza riunioni di quattro giorni rigorosamente a porte chiuse, in cui si ritrovano i più importanti esponenti della politica, del mondo finanziario, bancario, militare e mediatico, per affrontare i principali argomenti che plasmano le sorti del mondo. Ritenuta una delle organizzazioni più rappresentative della collaborazione transatlantica in materia di difesa e non solo, grazie agli stretti legami con l’esercito e l’apparato industriale militare, l’arrivo di Stoltenberg ai vertici del Gruppo segna l’intenzione di rafforzare i legami tra le due sponde dell’Atlantico in un momento non semplice per la NATO, costretta a confrontarsi con la guerra in Ucraina, da un lato, e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, dall’altro. A febbraio, inoltre, Stoltenberg assumerà anche la presidenza della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, un altro importante evento riguardante la difesa e la sicurezza europea, mentre l’olandese Mark Rutte – altro veterano del Bilderberg – ha assunto la direzione dell’Alleanza atlantica, confermando così la determinante influenza che gli esponenti del Gruppo hanno sulle più importanti organizzazioni militari e sugli eventi attinenti ai temi della sicurezza e della geopolitica.

Nel suo nuovo ruolo, Stoltenberg ha già rilasciato una dichiarazione alla stampa norvegese, affermando che il Bilderberg «insieme alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco è una buona piattaforma per la cooperazione tra leader dell’arena politica, del mondo imprenditoriale e accademico». Inoltre, secondo alcuni osservatori, la nomina di Stoltenberg potrebbe segnare una svolta radicale del Gruppo nella direzione di una suo maggiore coinvolgimento mediatico, mentre fino ad ora l’elitaria organizzazione era sempre rimasta rigorosamente nell’ombra dando adito per questo anche a teorie cospirative sul suo conto. L’ex segretario generale della NATO, infatti, è avvezzo alle relazioni con i media e, inoltre, un’altra co-presidente, Marie-Josée Kravis, siede nel Consiglio di amministrazione di Publicis, una delle più grandi società di pubbliche relazioni e comunicazione del mondo. Per confermare questo aspetto, però, bisognerà attendere la prima conferenza di Stoltenberg come co-presidente del Bilderberg, mentre certamente l’ex capo della NATO sarà impegnato a rafforzare i legami transatlantici e a cercare un modo per interagire con la nuova amministrazione Trump.

Fondato nel 1954 dal banchiere statunitense David Rockefeller, a caratterizzare in modo spiccato il Bilderberg e altre organizzazioni simili come la Commissione trilaterale è soprattutto l’influenza e il filo diretto che esse hanno con i governi, in quanto al loro interno ci sono spesso sostenitori di entrambi i partiti politici del Congresso americano e altri illustri rappresentanti della politica delle nazioni europee. Inoltre, molti dei 31 membri del comitato direttivo del gruppo hanno ruoli di alto livello nel settore della difesa: ad esempio, l’ex capo di Google, Eric Schmidt, è attualmente impegnato a lanciare un’azienda di droni kamikaze rivolta al redditizio mercato ucraino, mentre l’industriale svedese Marcus Wallenberg è presidente del produttore di difesa Saab, che ha registrato un aumento del 71% degli ordini nei primi nove mesi del 2024, in gran parte dovuto alla guerra con la Russia, come riferisce il Guardian. L’organizzazione, inoltre, è molto nota per il meccanismo delle porte girevoli, per cui le stesse personalità ricoprono in modo continuativo diversi incarichi in varie istituzioni pubbliche e private, non di rado con un palese conflitto d’interesse. Non a caso, il Gruppo deve la sua influenza agli stretti legami con l’esercito e alla presenza di esponenti dell’intelligence come l’ex capo dell’MI6, Sir John Sawers, membro del comitato direttivo del gruppo. Anche diversi esponenti politici e dei media italiani hanno preso parte agli incontri, tra cui Gianni e Umberto Agnelli che hanno fatto parte anche del Comitato direttivo del Club, Enrico Letta, Emma Bonino, Mario Monti, Romano Prodi, Ignazio Visco, Matteo Renzi e, tra i giornalisti, Lilli Gruber, Monica Maggioni, Stefano Feltri, solo per citarne alcuni.

L’obiettivo del Gruppo, negli anni, non è mai cambiato: se negli anni Cinquanta era principalmente quello di contrastare la “minaccia comunista” e espandere, al contrario, l’egemonia anglo-americana nel mondo attraverso il rafforzamento dell’Alleanza atlantica e il controllo dei principali centri di potere transatlantici, oggi è quello di contrastare ciò che Stoltenberg ha definito «l’asse emergente degli autocrati», composto da Russia, Cina e Corea del Nord. Alex Karp, membro del Comitato direttivo del Bilderberg e amministratore delegato di Palantir Technologies Inc – società di software statunitense che offre servizi per le agenzie di intelligence – ha dichiarato in un’intervista al New York Times che gli Stati Uniti molto probabilmente presto combatteranno una guerra su tre fronti con Cina, Russia e Iran.

La nomina di Stoltenberg alla copresidenza del Gruppo e alla guida della Conferenza sulla sicurezza di Monaco segna la volontà di blindare i vertici delle organizzazioni sulla difesa con personalità fedeli alle strategie atlantiche e conferma allo stesso tempo la determinante rilevanza che ha il Bilderberg sulle decisioni che riguardano la politica estera e la stessa Alleanza atlantica. Per l’importanza e il ruolo dei suoi esponenti, infatti, l’organizzazione fondata da Rockefeller non può non influire sulle maggiori decisioni che riguardano il futuro del mondo, in un processo che di democratico ha ben poco, considerata la rigida riservatezza degli incontri e il considerevole potere economico-finanziario e politico che detengono i suoi membri.

[di Giorgia Audiello]

Iran, arrestata la giornalista italiana Cecilia Sala

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Il ministero degli Affari Esteri ha reso noto che la giornalista italiana Cecilia Sala, in Iran per effettuare servizi giornalistici, è stata arrestata il 19 dicembre dalla polizia di Teheran. Il dicastero ha dichiarato che l’ambasciata e il consolato d’Italia a Teheran stanno seguendo il caso «con la massima attenzione». La Podcast Company italiana Chora Media, per cui Sala lavora, ha scritto che la giornalista si trova in una cella di isolamento della prigione di Evin, dove vengono tenuti i dissidenti, e il motivo del suo arresto non è stato ancora formalizzato. Oggi l’ambasciatrice d’Italia Paola Amadei ha svolto una visita consolare per verificare le sue condizioni.