Il governo del Regno Unito ha convocato l’ambasciatore russo e sanzionato il GRU, i servizi segreti moscoviti. L’annuncio arriva dopo la conclusione di una indagine pubblica su un caso risalente al 2018, quando l’ex agente del GRU Sergei Skripal, che collaborava con i servizi britannici, era stato oggetto di un attacco con gas nervino Novichok, che a causa di un incidente portò alla morte di una donna, Dawn Sturgess. Secondo le indagini, due uomini del GRU portarono il gas in Regno Unito all’interno di una boccetta di profumo, che venne raccolta e utilizzata da Sturgess. La Russia ha sempre rigettato l’accusa di essere coinvolta nell’incidente.
ChatGPT funziona male, ma sarebbe meglio se funzionasse anche peggio
«C’è una rivoluzione silenziosa che sta ridisegnando il nostro modo di vivere e lavorare. Le intelligenze artificiali, entrate dapprima di soppiatto nelle nostre abitudini quotidiane, oggi afferrano interi settori produttivi e li rimodellano seconda una logica nuova: rapidità, automazione, efficienza. Dietro l’euforia dell’innovazione si nasconde una domanda che fino a pochi anni fa sarebbe sembrata fantascienza: che fine farà il lavoro umano?».
Ecco, e se vi dicessi che il paragrafo che avete appena letto è stato scritto da ChatGPT? Sentendo sempre più spesso parlare di quest’applicazione che sta letteralmente spopolando tra giovani e non, ho voluto testarla e metterla a prova. I primi risultati che ho ottenuti sono stati penosi. Per arrivare al paragrafo che avete letto ho dovuto far leggere all’IA i miei articoli precedenti per farle memorizzare il mio stile, poi ho dovuto darle indicazioni precise su come doveva essere impostato l’attacco e quale tono usare, quali espressioni evitare.
Alla fine, facendo un calcolo del tempo che ho impiegato per scrivere un paragrafo della stessa lunghezza con il tempo che ha richiesto addestrare ChatGPT, la bilancia, nel mio caso, pende a favore della scrittura manuale.
L’utilizzo dell’IA si è tradotta in una perdita di tempo e non in un guadagno. Inoltre, a dispetto di tutti i miei sforzi, non sono riuscita del tutto a umanizzare la scrittura della macchina. Per riconoscere la scrittura umana da quella artificiale occorre prestare attenzione al tono delle frasi, al loro ritmo, al suono che hanno. La scrittura generata da IA tende ad avere un tono eccessivamente impostato e formale; è drammaticamente perfetta e dunque tragicamente falsa. Ma se fortunatamente per ora le IA fanno fatica a imitare lo stile di un pezzo culturale o di un articolo di approfondimento, di tutti quei contenuti cioè dove si sente con forza lo stile e la voce di un giornalista, ChatGPT può imitare più facilmente lo stile di un pezzo di cronaca. E questo non lascia ben sperare.
Uno studio dell’Università di Trento del 2021 lo dice chiaramente: il 33,2% dei lavoratori svolge una mansione ad altissimo rischio di automazione. E non si parla soltanto di giornalisti, grafici, redattori, traduttori; sono centinaia le professioni a rischio: contabili, consulenti, interpreti, analisti, impiegati, sportellisti, camerieri. In Italia ci sono già i primi ristoranti che hanno assunto camerieri-robot. Per non parlare ovviamente di tutti coloro che in passato lavoravano nei cosiddetti servizi clienti e che oggi sono già stati in larga parte sostituiti da IA, per la grande gioia di noi consumatori costretti a dialogare e a cercare invano di spiegare a una voce artificiale il disservizio di cui siamo vittima.

Mentre si applaude l’innovazione, migliaia di lavori, e di lavoratori, scompaiono. Al loro posto sono subentrate entità digitali che non chiedono ferie, non si ammalano, non scioperano. L’equazione è molto semplice: più la tecnologia avanza, più i posti di lavoro diminuiscono.
Non posso fare a meno di domandarmi come si potrà gestire l’esubero di lavoratori improvvisamente a piede libero perché sostituti da più economiche ed efficienti intelligenze artificiali.
Ho notato che ultimamente si parla sempre più spesso di reddito universale, una misura ideata, almeno ai suoi albori, con lo scopo di garantire ai cittadini una somma mensile che garantisca a ogni individuo di poter vivere dignitosamente. Una misura nata per combattere la povertà, per arginare le diseguaglianze sociali e dare a tutti la possibilità di elevarsi socialmente e di non dover accettare lavori sottopagati perché spinti dalla mera necessità di sopravvivere.
Una misura che ovviamente ha suscitato dibattiti e polemiche infinite e che non è mai stata applicata in Italia; ciò che però mi ha inquietata è che ultimamente si parli di reddito universale come possibile risposta alla disoccupazione futura creata dalle intelligenze artificiali. Resta però in sospeso la domanda: dove trovare i soldi per finanziare questa costosissima manovra? Anche a ciò è stata trovata una soluzione: tassare le intelligenze artificiali, in modo ridotto ovviamente per garantire alle aziende quel margine di guadagno competitivo rispetto all’assunzione di un lavoratore umano. Basta poco per intuire che le entrate derivate dalla tassazione agevolata di un numero esiguo di intelligenze artificiali, a scapito dei milioni di lavoratori che andranno a sostituire, non potrà che produrre entrate marginali nelle casse dello Stato che a loro volta si tradurranno in un reddito minimo da devolvere ai lavoratori improvvisamente superflui e non necessari. Il reddito universale sembra a tutti gli effetti una misura studiata non per agevolare i poveri, ma per tenere buone le persone mentre il lavoro scompare.
Per anni ci è stato raccontato che la tecnologia ci avrebbe liberati dalla fatica e ci avrebbe regalato più tempo per vivere. Ma vivere come? Senza autonomia economica? Senza uno scopo, un fine, una professione? Che razza di libertà è quella che dipende da una carta prepagata dello Stato? In una società in cui il lavoro anziché essere un diritto diventerà un privilegio, e in parte lo è già soprattutto per i giovani, visti i livelli di disoccupazione giovanile, quale fisionomia acquisirà la nostra cultura? Come si evolverà il pensiero umano e quali progressi etici accadranno in un mondo popolato da una massa di disoccupati da una parte e dall’altra da una piccola casta di privilegiati che ancora lavora?
Si stanno gettando le basi per la nascita di una nuova aristocrazia che avrà accesso a tutto ciò che rende la vita interessante e che potrà costruire il mito della propria superiorità sull’utilità che riveste nella società a scapito di un proletariato di disoccupati costretti a un ozio imposto e forzato.
Ma senza spingerci tanto in avanti, c’è un altro aspetto che merita di essere discusso, qualcosa che non è probabile che accada nell’immediato futuro, ma che è già accaduto e che sta accadendo adesso.
Non si tratta più di una questione economica e della perdita di posti di lavoro, ma di qualcosa di più pervasivo: le intelligenze artificiali stanno trasformando e modificando il modo in cui pensiamo. Per millenni l’uomo ha affinato le proprie capacità mentali attraverso lo studio, la ricerca, la scrittura, e le mille attività che sono proprie di noi esseri umani.
Oggi invece stiamo delegando tutte quelle attività che richiedono uno sforzo mentale a un dispositivo esterno. Le IA vengono usate per scrivere email, elaborare progetti, svolgere compiti e mansioni che l’uomo non ha più il tempo o la voglia di svolgere. È comodo, certo. Ma è proprio questo il punto: questa rapidità, questa apparente generosità della macchina ci rende progressivamente più passivi. Le neuroscienze hanno dimostrato che la mente per svilupparsi e non appassire ha bisogno di lentezza e di fatica. Le sinapsi si rafforzano nell’esercizio, un po’ come i muscoli si rafforzano grazie a un allenamento costante e continuativo nel tempo. La domanda che dovremmo porci non è se l’IA sia utile, ma quale prezzo stiamo pagando per questa comodità mentale.

Il filosofo greco Eratostene calcolò la circonferenza della terra grazie a semplici bastoni che proiettavano delle ombre. Copernico elaborò la sua teoria che rivoluzionò l’astrofisica attraverso calcoli e studi manuali. Oggi invece senza una calcolatrice perfino una semplice moltiplicazione mette in crisi ragazzi e adulti.
Oppure pensiamo a come fino a pochi anni fa si facevano le ricerche: si prendevano in mano le enciclopedie, una presenza immancabile nella casa di ogni italiano, e si dava inizio a un vero e proprio viaggio nella conoscenza: i libri venivano sfogliati, le informazioni setacciate.
Era un lavoro lungo, faticoso, estenuante perfino. Oggi invece basta un click. Vuoi sapere in che anno è stata combattuta una certa battaglia? Chi ha inventato il grammofono? Come si chiama l‘uomo che ha dipinto La ronda dei carcerati?
IA, come ChatGPT ad esempio, sono in grado di fornire una risposta immediata. Ma questa non è ricerca e neanche conoscenza: è consumo di informazioni. Non servirà a niente sapere che un uomo di nome Van Gogh ha dipinto La ronda dei carcerati e non servirà a niente sapere che la rivoluzione francese è avvenuta nel 1789, se ci si limita ad assimilare in modo passivo queste informazioni. Il dato non diventa concetto, non si innerva nel pensiero, non trasforma la mente.
Qualcuno obietterà: ma grazie alle IA è tutto più semplice e immediato. Ciò è innegabile, ma era durante questo processo fatto di leggere, scegliere, valutare, soppesare e mettere a raffronto le diverse informazioni che nasceva qualcosa che oggi manca: il senso critico. La innovazioni tecnologiche semplificano la vita, ma questo si traduce in una perdita di funzioni cognitive essenziali: ragionamento, creatività, immaginazione.
Inoltre, quando ci abituiamo a usare un dispositivo che fornisce soluzioni immediate e apparentemente neutre, iniziamo a immaginare il mondo secondo la sua forma, non più secondo la nostra. La creatività, che per definizione devia, inciampa e sbaglia, rischia di irrigidirsi fino a diventare una copia edulcorata delle proposte della macchina. Ci stiamo allontanando sempre più da quel margine di imperfezione che ha generato le più grandi opere dell’umanità, perché ogni vera scoperta nasce dal contrasto, dalla resistenza e non dall’automatismo. Quando leggiamo e ripetiamo a pappagallo le risposte che ci fornisce una macchina, non stiamo pensando, non stiamo ragionando, ci limitiamo a fare da cassa di risonanza per i pensieri e le parole pensate da un cervello artificiale. Prendiamo in prestito il cervello di una macchina, e diventiamo noi stessi cervelli presi in prestito. Superflui, non necessari. E così, mentre la tecnica avanza, il cervello retrocede. Non perché sia diventato improvvisamente incapace, ma semplicemente perché abbiamo smesso di usarlo.
Collegio d’Europa: Mogherini si dimette da rettrice
L’ex ministra degli Esteri italiana, Federica Mogherini, si è dimessa dal proprio incarico di rettrice del Collegio d’Europa. La notizia arriva dopo uno scandalo riguardante l’appalto di un corso di formazioni per giovani diplomatici, in cui Mogherini risulta indagata per frode nell’aggiudicazione di appalti pubblici, corruzione e conflitto di interessi. Le sue dimissioni seguono quelle dell’ex segretario generale del Servizio diplomatico dell’UE (SEAE), Stefano Sannino, che da inizio anno era dirigente delle politiche della Commissione su Medio Oriente, Nord Africa e Golfo. Secondo le indagini, il collegio avrebbe avuto tutte le informazioni necessarie per partecipare e ottenere il bando, indetto dal SEAE, ancora prima della sua pubblicazione.
L’Assemblea ONU ha chiesto a Israele di smantellare le colonie in Palestina
L’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione in cui chiede a Israele di smantellare le proprie colonie in Cisgiordania e di ritirarsi da tutti i territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est. La risoluzione è stata votata il 2 novembre, e ha ottenuto 151 voti favorevoli, 11 astenuti, e 11 contrari tra cui USA, Argentina e Israele; contrariamente a quanto fatto in occasione delle ultime risoluzioni sul tema, anche l’Italia ha votato a favore. La mozione chiede esplicitamente a Israele, in quanto potenza occupante, di porre fine alla propria presenza in Palestina, cessare la costruzione di nuovi insediamenti, ed evacuare i coloni dai territori palestinesi; con essa, inoltre, l’Assemblea chiede a Israele di abrogare le leggi «discriminatorie» nei confronti dei palestinesi. È stata approvata assieme a un’altra risoluzione che chiede a Israele di ritirarsi anche dalle alture del Golan, in Siria.
Con la risoluzione A/RES/80/72, l’Assemblea Generale dell’ONU chiede a Israele di rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto internazionale, ponendo «fine alla sua presenza illegale nel Territorio Palestinese Occupato il più rapidamente possibile», cessando «immediatamente tutte le nuove attività di insediamento», ed evacuando «tutti i coloni dal Territorio Palestinese Occupato»; sempre a tal proposito, essa chiede a Israele di cessare tutte le attività relative agli insediamenti, quali la confisca dei terreni e la demolizione delle abitazioni, e di rilasciare le persone arrestate nell’ambito del proprio piano coloniale. La risoluzione, inoltre, «chiede di abrogare tutte le leggi e le misure che creano o mantengono una situazione illegale, tra cui quelle che discriminano il popolo palestinese, così come tutte le misure volte a modificare la composizione demografica di qualsiasi parte del Territorio Palestinese Occupato, compresa Gerusalemme Est».
La risoluzione parla anche della situazione a Gaza, respingendo «qualsiasi tentativo di cambiamento demografico o territoriale nella Striscia di Gaza, comprese qualsiasi azioni che riducano il territorio di Gaza». Essa si rivolge anche agli Stati membri dell’ONU, a cui chiede di non riconoscere modifiche ai confini precedenti al 1967 anche per quanto riguarda Gerusalemme, e di distinguere nei propri rapporti «tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967», evitando di fornire assistenza alle attività di insediamento coloniali, che vengono giudicate «illegali». Parallelamente, è stata approvata anche la risoluzione A/RES/80/74, relativa alle alture siriane del Golan. Questa è stata adottata con 123 voti favorevoli, 7 contrari (Stati Federati di Micronesia, Israele, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Tonga, Stati Uniti), e 41 astenuti; anche in questo caso, l’Italia ha votato a favore. La risoluzione dichiara nulla la legge israeliana del 1981 con cui Israele riconobbe il proprio diritto di imporre le proprie leggi, giurisdizione e amministrazione sul Golan siriano occupato, chiedendone la rescissione; l’Assemblea ha inoltre chiesto a Israele di ritirarsi dall’area.
Entrambe le questioni state oggetto di numerose altre risoluzioni. L’ultima sulla questione palestinese risale allo scorso anno, ma la richiesta di ritirarsi dai territori palestinesi occupati e di ristabilire i confini pre-1967 va avanti sin da quello stesso anno, a partire dalla risoluzione 242. Essa, emanata dal Consiglio di Sicurezza dopo la Guerra dei sei giorni, chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati durante il conflitto, e il riconoscimento della sovranità di entrambi gli Stati.
Genova, manifestazione degli operai ex Ilva: scontri e stazione bloccata
A Genova i lavoratori dell’ex Ilva hanno lanciato una ingente protesta contro il piano del governo per l’azienda, che prevede una riduzione del personale dello stabilimento ligure. La protesta, organizzata dai sindacati FIOM, FIM, e USB, ha visto la partecipazione di almeno 5.000 persone, che si sono mosse in corteo guidate dai mezzi pesanti per lo spostamento dell’acciaio in direzione Cornigliano, località dello stabilimento. Giunti vicino alla prefettura, sono iniziati degli scontri con la polizia, che ha lanciato lacrimogeni sui presenti; i manifestanti hanno risposto con uova e petardi, e hanno divelto alcune delle inferriate utilizzate per blindare la prefettura. Sono inoltre arrivati presso la stazione di Brignole, bloccandola.
Prosecco, trovati PFAS nelle bottiglie di 15 etichette: i marchi coinvolti
Un brindisi con l’amaro in bocca. L’ultimo test del mensile Il Salvagente su una delle bollicine più amate dagli italiani, il Prosecco, ha recentemente svelato la presenza di contaminanti indesiderati in tutti i campioni sottoposti ad analisi. Il laboratorio ha cercato residui di pesticidi e, soprattutto, le insidiose sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nei prodotti di 15 diversi marchi, rivelando un quadro di contaminazione diffusa, seppur entro i limiti di legge per i fitofarmaci. A destare maggiore preoccupazione è il ritrovamento, in ogni bottiglia, di acido trifluoroacetico (Tfa), un derivato dei Pfas, in quantità che superano abbondantemente l’obiettivo di qualità avanzato dall’Istituto superiore di sanità per l’acqua potabile e recepito con un decreto dal nostro Paese, che diventerà vincolante per l’acqua potabile dall’inizio del 2027.
L’indagine ha passato al setaccio 15 etichette tra le più comuni sugli scaffali: Mionetto, Bolla, Cinzano, Martini, Bortolomiol, Casa Sant’Orsola, Villa Sandi, Allini di Lidl, Maschio, Valdo, Bernabei, La Gioiosa, Meolo di Eurospin, Astoria e Carpenè Malvolti. Nessuna è risultata totalmente esente. Riguardo ai pesticidi, «tutti i residui riscontrati sono ampiamente al di sotto dei limiti di legge», ma è stata riscontrata la presenza fino a 10 principi attivi diversi in una singola bottiglia, quella del Prosecco Superiore Valdobbiadene Docg della Cantina Viticoltori Meolo per Eurospin. Tra le sostanze individuate, il metalaxyl (un fungicida sistemico) e il boscalid, i cui potenziali effetti sulla salute sono oggetto di studi.
La vera novità riguarda i Pfas. I valori riscontrati di acido trifluoroacetico – sottoprodotto di processi industriali e della degradazione di una serie di sostanze fluorurate usate nei gas refrigeranti, nei pesticidi e nei prodotti farmaceutici – vanno infatti da un minimo di 30mila ng/l nel Bortolomiol a un massimo di 59mila ng/l nel Bolla, etichetta molto popolare. Numeri che, se paragonati alle possibili future regole sull’acqua, appaiono assai elevati. L’inchiesta sottolinea come «più aumenta l’utilizzo dei pesticidi fluorurati, più aumenta la presenza di residui». Non a caso, dal 2010 la frequenza delle rilevazioni di questi metaboliti si è impennata, con i vini delle vendemmie dal 2021 al 2024 che presentano livelli medi di 122mila nanogrammi/litro, ma anche picchi di oltre 300mila. Rispetto a questi numeri, i valori nel prosecco sono inferiori, ma non trascurabili.
Le aziende coinvolte replicano puntando sul rispetto delle normative attuali. Alcune, come Carpenè Malvolti, mettono in discussione i dati analitici. Altre, come il Gruppo Italiano Vini (proprietario di Bolla) e Lidl, osservano che i livelli riscontrati nel Prosecco sono comunque «nella fascia bassa di contaminazione» se confrontati con picchi riscontrati in altri vini. Il nodo cruciale è l’assenza di una legge specifica che regolamenti i Pfas nel vino. Il test, infatti, prende come metro di paragone proprio i limiti futuri per l’acqua potabile Le Cantine Maschio fanno notare che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) stabilisce una dose giornaliera accettabile per il Tfa di gran lunga superiore rispetto ai numeri rilevati dall’inchiesta, affermando non sia corretto assumere come riferimento il limite previsto per l’acqua, dal momento che il vino viene normalmente consumato quantità differenti.
Carlo Foresta, tra i massimi esperti di Pfas, invita però alla cautela: «I livelli di Tfa riscontrati nei campioni di prosecco, compresi tra 38mila e 60mila nanogrammi per litro risultano elevati e superiori ai valori di riferimento indicativi. Si tratta di concentrazioni che eccedono l’obiettivo di qualità proposto dall’Istituto superiore di sanità nel 2024 (10mila ng/l) e recepito dal D.Lgs. 102/2025». Tale soglia diventerà vincolante per l’acqua potabile in Italia a partire dal 12 gennaio 2027. «I valori citati sono 3,8–6 volte (o più) sopra quel valore nazionale di riferimento – ha concluso –. Assunzioni occasionali di una bottiglia non costituiscono automaticamente una prova di danno acuto, ma l’esposizione ripetuta aumenta la preoccupazione per effetti cronici».
La nuova disuguaglianza italiana: gli anziani esclusi dal digitale
«Noi vecchietti siamo stanchi degli abusi e dei ricatti». Finisce così una mail che ci ha scritto una lettrice, lamentando i disagi che ha passato per poter tornare in Italia, via aereo, dalle Canarie. La signora, ignara delle nuove regole varate dalla compagnia low cost Ryanair, che dal 12 novembre obbliga gli utenti a viaggiare con biglietto digitale scaricabile dall’applicazione dedicata – pena una multa che arriva a 55 euro – ha dovuto farsi assistere dal figlio, al telefono, per riuscire nel completare tutta la procedura. Perché, se per i nativi digitali possono sembrare passaggi semplici, anche scaricare una applicazione dedicata e validare le proprie credenziali, prima di fare il check in online, può essere complicato. Figuriamoci quando il problema diventa quello di usare lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), ad esempio per accedere al proprio fascicolo sanitario elettronico, inserendo codici di verifica come gli OTP (One-Time Password) precedentemente impostati, o il riconoscimento facciale. Quelle che possono sembrare operazioni banali, per chi non ha le conoscenze digitali necessarie, possono diventare epopee senza fine, che, tra frustrazione e incomprensioni, spesso non portano al risultato desiderato.
Tornando ai biglietti d’aereo la signora scrive: «Considero questa “novità” un ricatto vergognoso: dover installare una app per fruire di un titolo di viaggio». E si domanda: «E gli altri vecchietti? E chi non ha nessuno che li assiste? E chi non ha un telefonino “moderno”? E se si scarica? Queste “novità” diventano sempre più escludenti nei confronti dei più deboli e discriminatorie. A mio parere anche illegali». Ed è proprio questo il punto: il rischio che, nella progressiva digitalizzazione di pratiche e servizi, i più anziani restino esclusi da un sistema che sembra essersi dimenticato della loro esistenza.
Anziani e digitale: i dati
Il problema viene evidenziato innanzitutto dai dati. Secondo l’Istat i problemi iniziano già dall’accesso a internet, visto che, tra le famiglie composte solo da anziani (65+), solo il 60% ha una connessione: in 4 su 10 nemmeno possono accedere al web. Nella fascia sopra i 75 anni solo il 31,4% usa internet. Secondo una ricerca portata avanti dall’Università Bocconi sul digital divide, riportata anche su EPALE (European Platform for Adult Learning), in Italia solo il 33% degli over 65 usa internet “regolarmente”, collocando il Paese tra quelli con maggiore esclusione digitale nella fascia anziana.
Ma il vero collo di bottiglia sono le competenze digitali. Sempre secondo i dati Istat, risalenti però al 2023, tra chi ha usato internet in un’indagine dai 16 ai 74 anni, solo il 45,7% ha competenze digitali almeno di base. Percentuale che crolla mano a mano che l’età si alza: tra i 20 e 24 anni le possiedono il 61,7%, ma tra i 65 e i 74 è appena il 19,3%. La ricerca spiega che in Italia il 68% delle persone con più di 65 anni dichiara di non avere le competenze digitali di base per usare smartphone, computer o tablet. E quindi, anche quando c’è accesso a Internet, 2 anziani su 3 si auto-percepiscono privi delle competenze minime necessarie.
Quali difficoltà emergono
Un articolo sul digital divide e l’alfabetizzazione digitale per la salute pubblicato sulla Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione sottolinea 3 punti principali. Il primo è che il divario digitale non è solo mancanza di dispositivi, ma un intreccio di fattori economici, culturali, relazionali (isolamento, mobilità ridotta, basso reddito); il secondo è che per gli anziani, l’uso di tecnologie sanitarie (telemedicina, fascicolo sanitario elettronico) richiede competenze cognitive e digitali complesse, spesso non supportate; e infine che servono strategie differenziate: formazione continua, supporto di reti associative, ma anche mantenimento di soluzioni non digitali per chi, anche dopo la formazione, resta in difficoltà. Lo stesso studio della Bocconi sui programmi di alfabetizzazione digitale per over 67 spiega che la partecipazione a corsi mirati aumenta non solo le abilità pratiche, ma anche la fiducia nell’uso di servizi comehome banking, telemedicina e PA online. Gli ostacoli principali sono scarsa consapevolezza dell’offerta formativa e bisogno di percorsi lenti, personalizzati, con formatori specializzati nella fascia anziana.
Analizzando insieme dati quantitativi e studi qualitativi, le difficoltà degli anziani nell’uso della tecnologia – e in particolare di SPID e dei servizi pubblici digitali – si possono sintetizzare così: accesso a internet, dove il problema non è solo la connessione, ma in molti casi riguarda la mancanza di smartphone o PC aggiornati, o connessi in modo stabile; le scarse competenze digitali; le procedure complesse per accedere a servizi come lo SPID (email, password complesse, OTP via SMS o app, riconoscimento facciale o video, che si trasforma in una barriera aggiuntiva; portali poco intuitivi, con interfacce affollate, linguaggio burocratico, passaggi ridondanti; e infine la dipendenza da familiari o amici con rischi per la privacy e l’impossibilità di agire da soli in caso di urgenza.
Come intervenire
Queste sono le principali raccomandazioni che emergono da rapporti ufficiali e studi:
- Centri di facilitazione digitale e sportelli di prossimità: luoghi fisici dove operatori aiutino gli anziani a usare SPID, CIE, fascicolo sanitario ecc., non solo una volta ma in modo continuativo.
- Corsi di alfabetizzazione digitale “su misura” per over 65/70 (ritmi lenti, piccoli gruppi, linguaggio semplice, ripetizioni frequenti), come nei programmi studiati dalla Bocconi.
- Semplificazione radicale di SPID e dei portali PA, con design universale, testato con utenti anziani e persone fragili, come suggerito sia dalla Commissione europea che da studi sociologici.
- Mantenere canali non digitali equivalenti, per evitare che la digitalizzazione diventi una nuova forma di discriminazione (telefono, sportello, possibilità di delega strutturata e tutelata).
E quindi implementare corsi ad hoc, per rendere gli anziani più indipendenti, e semplificare le interfacce dei portali, come confermato dall’indagine Doxa commissionata dal comune di Bologna nel 2021, dal quale risulta che il 38,3% degli anziani intervistati ritiene necessario disporre di strumenti più semplici, progettati specificamente per loro.
Uno studio pubblicato quest’anno su Science, si è occupato di analizzare come l’Unione Europea stia affrontando la duplice sfida dell’invecchiamento della popolazione e della rapida trasformazione digitale. I risultati principali indicano che «l’uso dei servizi di e-government in età avanzata è tutt’altro che universale: solo una minoranza degli anziani utilizza tali servizi. Il coinvolgimento è più frequente tra individui con specifiche risorse personali e posizionali – come un più alto livello di istruzione e una maggiore padronanza digitale – ed è fortemente influenzato dalla qualità dei servizi pubblici digitali, che varia considerevolmente da un Paese all’altro».
Non solo, perché i ricercatori mettono l’accento sul fatto che: «I risultati confermano che le competenze digitali comunicative costituiscono una risorsa chiave per gli adulti più anziani che accedono ai servizi di e-government […] sottolineando come le competenze rappresentino un prerequisito per un coinvolgimento digitale significativo». L’iniziativa deve essere lasciata ai singoli Stati, data la grande eterogeneità nelle infrastrutture e nelle competenze digitali tra le popolazioni anziane, mentre l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo strategico facilitando linee guida condivise, coordinando iniziative transnazionali e sostenendo la diffusione delle pratiche efficaci. Con una conclusione chiara: «Affrontare queste limitazioni in future ricerche è fondamentale per costruire un e-government realmente inclusivo e capace di ridurre – anziché aggravare – le disuguaglianze sociali e il rischio di esclusione nella terza età».











