mercoledì 17 Settembre 2025
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Francia, scontri con la polizia e centinaia di arresti durante le mobilitazioni antigovernative

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Dopo mesi dal lancio della mobilitazione, oggi, mercoledì 10 settembre, in Francia, è iniziata la giornata di blocco totale del Paese. I cittadini sono scesi in piazza all’insegna del motto “Boicottaggio, Disobbedienza, Solidarietà” (in quello che sembrerebbe un richiamo alla campagna BDS contro lo Stato di Israele), per contestare le politiche di austerità e la manovra finanziaria proposta dal dimissionario premier Bayrou. La parola d’ordine era una sola, “indigniamoci”, e i cittadini l’hanno presa alla lettera: i manifestanti hanno interrotto le autostrade, bruciato copertoni, divelto pali e cartelli, travolgendo le regioni di tutta la Nazione, mentre a Parigi il nuovo premier Sébastien Lecornu inaugurava il proprio primo giorno da presidente del Consiglio. Per l’occasione, le autorità hanno schierato 80mila agenti in tutto il Paese; nell’arco di una manciata di ore sono state arrestate centinaia di persone e sono scoppiati violenti scontri tra polizia e manifestanti.

Le manifestazioni in Francia hanno interessato tutto il Paese e sono iniziate sin dalla mattina. A Rennes a partire dalle 9, è stata completamente bloccata la tangenziale. Un video che circola online mostra lunghe code sulla strada e un gruppo di manifestanti con in mano cartelli stradali, situato dietro a delle recinzioni da cantiere in metallo; pare inoltre che sia stato dato fuoco a un autobus. La strada è stata bloccata anche a Quimper, dove tuttavia le forze dell’ordine sono intervenute per allontanare i manifestanti; analoga situazione ad Arles. Ad Aubagne è stato bloccato un tratto stradale della A50 (in direzione Marsiglia), nel dipartimento di Charente è stata bloccata la Statale 10, a Frontignan, a Sète, a Pontivy, e a Saint Brieuc sono state invase le strade cittadine, e a Clermont Ferrand ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia; strade bloccate anche a Lione, sulla Statale 7, e a Marsiglia, dove i manifestanti hanno gettato a terra cassonetti della spazzatura e invaso una sede della catena di supermercati Carrefour; è stato interrotto anche il traffico della autostrada A1. A Tolosa sono stati schierati agenti in tenuta antisommossa: qui, le manifestazioni per strada hanno causato incendi e blocchi del traffico, e i dimostranti hanno divelto pali e cartelli stradali.

Gli episodi di maggior violenza sembrano essersi verificati a Parigi. Nella capitale, in zona Port de Vincennes i manifestanti hanno appiccato il fuoco in strada, e migliaia di persone hanno invaso i viali, impedendo alle auto di circolare. Una analoga situazione si è registrata a Port de Montreuil, a Boulevard Magenta, sulla tangenziale cittadina, e davanti alla stazione di Parigi Nord. In diverse aree della capitale, ci sono stati scontri con la polizia: nel secondo arrondissement, le forze dell’ordine hanno lanciato lacrimogeni verso i manifestanti mentre si trovavano nei pressi di una scuola materna; in centro, decine di poliziotti in tenuta antisommossa hanno caricato un gruppo di manifestanti provando a farli indietreggiare; scontri anche a Place de la Nation, alla stazione Parigi Nord e a quella di Parigi Est.

Per prepararsi alle manifestazioni, le autorità hanno dispiegato un totale di 80mila membri delle forze dell’ordine, che hanno effettuato cariche e arresti in tutto il Paese. Nell’arco delle prime due ore di manifestazione, sono state arrestate oltre 200 persone, di cui almeno 130 nella sola città di Parigi; a ora il bilancio degli arrestati è di 327 persone. Proprio nella capitale, la giornata di mobilitazione è coincisa con la cerimonia di insediamento del premier Lecornu, alimentando ancora di più le proteste parigine. Il movimento del 10 settembre era effettivamente nato per contestare le politiche del Paese, giudicate sempre più lontane dalle esigenze dei cittadini. Con i mesi, esso è finito per muoversi contro la proposta di bilancio avanzata dall’appena dimessosi premier Bayrou, con la quale il primo ministro proponeva un «anno bianco» per le spese sociali, tagliando giorni di ferie dal calendario, congelando i finanziamenti e le spese previdenziali, e un aumento delle franchigie mediche. Contro di essa si è mossa l’intera opposizione, e Bayrou ha chiesto un voto di fiducia, che lunedì 8 settembre è finito per fare crollare il governo.

Israele ha bombardato la capitale dello Yemen

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L’aviazione israeliana ha lanciato un attacco aereo contro il gruppo yemenita Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi. Secondo i media ufficiali del gruppo, le bombe israeliane avrebbero preso di mira una struttura medica, un ufficio ministeriale, e gli uffici di un quotidiano nazionale, tutti situati nella capitale Sana’a. Colpito anche il complesso governativo ad Al Hazm, principale città del Governatorato di Al Jawf. Secondo le autorità di Ansar Allah diversi missili sarebbero stati intercettati, ma l’attacco avrebbe ucciso 9 persone, ferendone altre 118. Dopo il bombardamento, Il gruppo ha rilanciato la propria campagna di sostegno al popolo palestinese e ha affermato che l’aggressione di oggi non sarebbe rimasta impunita.

Indonesia, inondazioni a Bali: almeno 12 morti

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L’isola indonesiana di Bali, una delle maggiori mete turistiche del Paese, è stata colpita da una forte ondata di piogge, che ha causato diverse inondazioni. Le piogge sono iniziate nella sera di ieri, martedì 9 settembre, e hanno causato il crollo di due edifici nella capitale dell’isola, Denpasar, uccidendo almeno quattro persone. I soccorritori sono a lavoro per cercare eventuali superstiti sotto le macerie. In totale, l’inondazione ha causato la morte di 12 persone.

Soldati israeliani in vacanza in Italia: il governo chiamato a rispondere in Parlamento

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L’Italia continua a essere meta dei soldati israeliani, che sin dal 2024 giungono nella Penisola per “decomprimere” dopo lo stress derivato dal genocidio palestinese. Stando a quanto si apprende da fonti di stampa e dai gruppi parlamentari di opposizione, i militari avrebbero scelto come mete la Sardegna e le Marche, dove sarebbero presenti in mera veste di turisti. Eppure, i membri dell’IDF giunti nel nostro Paese sarebbero “monitorati” da agenti della DIGOS, che ne registrerebbero gli spostamenti per evitare eventuali attacchi alla loro persona, fungendo di fatto come loro scorta. Di fronte alle proteste della società civile, il Movimento 5 Stelle – seguito a ruota da AVS e dal PD – ha annunciato la presentazione di interrogazioni parlamentari: il governo è chiamato a spiegare se e in quale misura abbia avuto ruolo nell’organizzazione, nell’accoglienza o nella tutela di queste trasferte.

Secondo le ricostruzioni, non si tratterebbe di episodi isolati, ma di una pratica consolidata almeno dal 2024, proseguita anche nell’anno corrente. I militari, in gruppi di decine di persone, vengono ospitati in resort di lusso, come il Mangia’s resort a Baia Santa Reparata in Sardegna, o in case private nelle Marche, tra località come Sirolo, le Grotte di Frasassi e Porto San Giorgio. Fonti informate, citate dall’agenzia ANSA, hanno precisato che non esiste una «tutela di gruppi o delegazioni di militari israeliani in quanto tali», ma un monitoraggio di «turisti che potrebbero essere soggetti a minacce» perché considerati sensibili nel contesto del conflitto e delle mobilitazioni pro-Palestina. L’Italia sarebbe stata scelta come meta perché considerata «Paese amico e sicuro». La scoperta dei soldati israeliani in vacanza in Italia ha scatenato immediate proteste da parte di attivisti locali, come il gruppo Lungoni per la Palestina, che hanno organizzato sit-in davanti ai resort. Consiglieri regionali sardi hanno inviato una lettera alla Geasar, gestrice dell’aeroporto di Olbia, chiedendo la sospensione del volo per Tel Aviv, spiegando che non si possono concedere attività turistiche a un governo «che deve rispondere di crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale».

Il primo gruppo politico a sollevare la questione in entrambi i rami del Parlamento è stato il M5S. «Ho depositato un’interrogazione parlamentare urgente per chiedere al governo come sia possibile la presenza regolare di tali militari in vacanza sul nostro territorio – ha scritto sui propri canali social la deputata pentastellata Stefania Ascari – Esistono degli accordi tra il Governo italiano e lo Stato terrorista Israele? C’è qualcuno che li protegge? Ospitare questi soldati colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità, per cui la Corte Penale internazionale ha emesso mandati di arresto verso chi li ordina, è di una gravità inaudita». Le ha fatto eco la senatrice M5S al Senato Alessandra Maiorino, che ha annunciato il deposito di una interrogazione parlamentare a Palazzo Madama «per fare chiarezza su quanto riportato dalla stampa e capire chi ha spalancato le porte a questa oscena operazione, mentre a Gaza continua il genocidio e si continua a morire di fame e di sete». Anche PD e AVS si sono uniti al coro, chiedendo conto dell’ennesimo presunto tassello della «complicità politica e morale» tra Roma e Tel Aviv e censurando i «tentennamenti» di Palazzo Chigi sulla questione.

A Berlino il sabotaggio del complesso militare ha causato un grande blackout

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Ieri un blackout ha paralizzato per diverse ore la zona meridionale di Berlino. L’incendio — doloso secondo le prime ricostruzioni della polizia — di due tralicci dell’alta tensione ha lasciato case e negozi senza corrente, per un totale di 40mila utenze. È stato costretto a fermarsi anche il complesso militare-industriale situato nel quartiere Adlershof, tra i più grandi parchi tecnologici d’Europa. Il sabotaggio è stato presto rivendicato da «alcuni anarchici» che hanno firmato una lettera-comunicato pubblicata su Indymedia, dove si legge: «Chiediamo ai residenti che ne sono stati colpiti di essere indulgenti, non era affatto nostra intenzione. Tuttavia, consideriamo questo danno collaterale giustificabile, in contrasto con la distruzione della natura e la sottomissione spesso mortale delle persone, di cui molte delle aziende con sede qui sono responsabili giorno dopo giorno».

Dalle tre del mattino di martedì migliaia di case e negozi berlinesi sono rimasti senza corrente, con disservizi segnalati per buona parte della giornata. Con semafori e tram fuori uso il traffico è andato presto in tilt, rendendo difficile la circolazione. Per diverse ore ha smesso di funzionare il parco tecnologico di Adlershof, nella zona meridionale della capitale tedesca. Il complesso militare-industriale si estende su un’area di 4,6 chilometri quadrati, contando al suo interno più di 1300 aziende e istituti di ricerca impegnati in diversi settori, tra cui IT, robotica, biotecnologia, aerospaziale, IA e armi. A quanto pare, il parco tecnologico di Adlershof sarebbe finito al centro di un sabotaggio compiuto da anarchici, i quali hanno rivendicato l’incendio dei due tralicci che ha causato il blackout a Berlino. «I loro slogan pubblicitari di innovazione, sostenibilità e progresso — si legge nella lettera firmata da «alcuni anarchici» e pubblicata su Indymedia — non sono altro che una manovra fuorviante per distrarre dal fatto che in realtà costruiscono strumenti di morte e distruzione. Ogni modello di business presente nel parco tecnologico di Adlershof funziona come stabilizzante del sistema ed è, tra l’altro, un prodotto di interessi militari. Le loro tecnologie sono la garanzia della sopravvivenza della macchina capitalista della morte. Pertanto, sono tutti l’obiettivo della nostra azione». La polizia tedesca ha confermato la natura dolosa dell’incendio e indaga su quanto dichiarato dagli anarchici.

Il sabotaggio del complesso militare-industriale berlinese non è un caso isolato. In Europa aumentano i casi simili, soprattutto a sostegno del popolo palestinese e contro Israele, che continua a ricevere armi dai partner europei, tra cui la Germania, capofila nel continente e seconda soltanto agli Stati Uniti per carichi militari venduti allo Stato ebraico.

Per la prima volta è stata fotografata la nascita di un pianeta

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Ha preso forma a 56 volte la distanza tra la Terra e il Sole, scavando un varco all’interno di un disco di polvere e gas attorno ad una giovane stella: è WISPIT 2b, ritenuto il primo pianeta in formazione mai fotografato all’interno di una lacuna di un disco protoplanetario multi-anelli. A rivelarlo, un nuovo studio guidato dall’astronomo Laird Close dell’Università dell’Arizona e da Richelle van Capelleveen dell’Osservatorio di Leida, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters. Di fondamentale importanza la combinazione di telescopi e tecnologie d’avanguardia tra cui il sistema di ottica adattiva estrema MagAO-X installato al Telescopio Magellano in Cile, senza la quale gli autori difficilmente sarebbero riusciti nella scoperta. «Molti hanno dubitato che i protopianeti possano creare queste lacune, ma ora sappiamo che in realtà è possibile», ha commentato Close, aggiungendo che fino ad oggi, infatti, i pochi protopianeti osservati si trovavano nelle cavità interne dei dischi, mentre nessuno era mai stato visto nelle lacune tra gli anelli, dove solo le teorie prevedevano la loro presenza.

I dischi protoplanetari sono enormi strutture di gas e polveri che circondano le stelle appena nate e che rappresentano il materiale da cui si formano i pianeti. Osservati grazie a telescopi come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) o il Very Large Telescope (VLT), si tratta di dischi che mostrano spesso un aspetto a più anelli, separati da lacune scure. Per decenni, spiegano gli autori, gli scienziati hanno ipotizzato che proprio quelle zone “vuote” fossero il segno della nascita di pianeti, che agiscono come veri e propri spazzaneve cosmici, ripulendo la loro orbita. Tuttavia, mancavano prove dirette: solo tre pianeti in accrescimento erano stati fotografati in precedenza e tutti si trovavano in cavità più interne, non nei varchi tra gli anelli. La chiave della scoperta, spiegano gli autori, risiede nei metodi utilizzati: grazie all’uso dell’idrogeno alfa – o H-alfa, una particolare radiazione luminosa prodotta dal gas quando cade su un pianeta in formazione e viene riscaldato fino a diventare plasma e con MagAO-X – un sistema capace di compensare le distorsioni atmosferiche e restituire immagini nitidissime – il team ha cercato proprio questa firma luminosa, riuscendo a distinguere il debole segnale del pianeta dalla luce accecante della stella madre.

Il sistema WISPIT 2 visto dal Telescopio Magellano in Cile e dal Large Binocular Telescope in Arizona. Il protopianeta WISPIT 2b appare come un puntino viola in una cavità priva di polvere tra un anello di polvere bianca e brillante attorno alla stella e un anello esterno più debole, in orbita a circa 56 volte la distanza media tra la Terra e il Sole. L’altro potenziale pianeta, CC1, appare come l’oggetto rosso all’interno della cavità priva di polvere e si stima che si trovi a circa 15 distanze Terra-Sole dalla sua stella madre. Credit: Laird Close, Università dell’Arizona

Le osservazioni hanno rivelato non solo WISPIT 2b, ma anche un secondo candidato pianeta, denominato CC1, situato più vicino alla stella ospite WISPIT 2, simile al nostro Sole. Secondo le stime, CC1 avrebbe circa nove volte la massa di Giove e orbiterebbe a 14-15 unità astronomiche – la distanza media Terra-Sole, usata come riferimento – quindi una posizione paragonabile a quella tra Saturno e Urano se fosse nel nostro sistema solare. WISPIT 2b, invece, con circa cinque masse gioviane, si troverebbe molto più lontano, a 56 unità astronomiche, oltre l’orbita di Nettuno. «È un po’ come apparivano i nostri Giove e Saturno quando erano 5.000 volte più giovani di adesso», ha osservato Gabriel Weible, studente dell’Università dell’Arizona e coautore della ricerca, aggiungendo che le immagini mostrano un sistema straordinario, con due pianeti, quattro anelli e altrettante lacune, un laboratorio naturale per osservare la formazione planetaria. «Una volta attivato il sistema di ottica adattiva, il pianeta ci è saltato addosso», ha raccontato Close, ricordando l’emozione del momento. «Per osservare i pianeti nel breve periodo della loro giovinezza, gli astronomi devono trovare sistemi a disco giovani, cosa rara, perché è l’unico momento in cui sono davvero più luminosi e quindi rilevabili», aggiunge van Capelleveen, concludendo che la scoperta di WISPIT 2b conferma dunque che le lacune dei dischi non sono solo strutture enigmatiche, ma autentiche culle planetarie e apre una finestra unica sul processo che 4,5 miliardi di anni fa diede origine anche al nostro sistema solare.

“L’Europa deve combattere”: il discorso di von der Leyen, dal sostegno all’Ucraina a Gaza

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Il discorso di Usrula von der Leyen sullo stato dell’Unione, il quinto della sua carriera, si è aperto come un proclama: «L’Europa deve combattere». «Non si può più vivere di nostalgia», continua, perché «si profila uno scontro per il nuovo ordine mondiale basato sul potere». Ormai, per la presidente della Commissione, «L’Europa è in lotta», per l’unità, la pace, l’indipendenza e l’autodeterminazione: in poche parole, «per il nostro futuro». L’immagine che von der Leyen delinea è quella di un continente che deve diventare soggetto attivo in un contesto dominato da «ambizioni imperiali e guerre imperiali», in cui «le dipendenze vengono spietatamente trasformate in armi». Da questa diagnosi si ricava un imperativo: deve emergere una nuova Europa, non c’è spazio per la nostalgia dell’Unione com’era. Nel suo discorso, oltre a ribadire l’appoggio all’Ucraina, von der Leyen ha poi proposto sanzioni verso Israele e i coloni violenti alla luce della situazione «insostenibile» a Gaza e in Palestina.

Il linguaggio della presidente rimanda esplicitamente a un’economia di guerra: risorse da mobilitare, disciplina collettiva, sforzo permanente. È un discorso che trasforma la retorica della crisi in un atto fondativo, chiamando gli europei a un conflitto che è insieme politico, economico e culturale. Dietro la retorica della lotta si intravede un’agenda precisa. Il sostegno all’Ucraina, ad esempio, viene inquadrato non solo con un’alleanza sui droni, ma anche in termini finanziari con la proposta di un prestito di 6 miliardi di euro basato sui profitti degli asset russi congelati in Europa. Il capitale rimarrebbe intatto e l’Ucraina restituirebbe solo una volta che la Russia avrà pagato le riparazioni. È il tentativo di tradurre la guerra in uno strumento economico, di trasformare l’atto bellico in una forma di ingegneria finanziaria. Parallelamente, la Commissione annuncia l’introduzione di nuove misure commerciali per proteggere i settori strategici. In particolare, l’acciaio, che verrà tutelato attraverso un nuovo sistema di limitazioni alle importazioni, sostenuto da investimenti per la decarbonizzazione. La concorrenza globale, in questo quadro, non è più una dinamica di mercato, ma un campo di battaglia che richiede difese interne e strumenti protettivi. Al centro, resta il progetto di rafforzamento della difesa comune. Von der Leyen rilancia l’iniziativa di riarmo che potrebbe mobilitare fino a 800 miliardi di euro entro il 2030 per potenziare le capacità militari e costruire un’industria della difesa europea. L’obiettivo è un continente in grado di sostenersi senza dipendere da alleanze esterne, capace di definire la propria autonomia strategica. Sul fronte transatlantico, la presidente difende l’accordo commerciale con gli Stati Uniti, bollato da molti come una resa. Lo presenta come il miglior compromesso possibile, ma resta evidente che la percezione pubblica rimane divisa e che la fragilità della coesione interna minaccia di depotenziare l’intero impianto. Contestata dalla destra, la presidente della Commissione precisa che «Abbiamo urgente bisogno dello Scudo europeo per la democrazia, e intendiamo istituire un nuovo Centro europeo per la resilienza democratica, che unisca le capacità degli Stati membri per combattere la disinformazione e la manipolazione delle informazioni».

Non meno rilevante è il passaggio dedicato alla guerra in Medio Oriente, dove von der Leyen riconosce che «ciò che sta accadendo a Gaza è inaccettabile» e che l’Unione non può più permettersi la paralisi decisionale. Annuncia la proposta di sospendere il sostegno bilaterale a Israele, di interrompere i pagamenti nei settori governativi e di introdurre sanzioni mirate contro ministri estremisti e coloni violenti, insieme a una sospensione parziale dell’Accordo di Associazione sulle questioni commerciali. «L’UE per Gaza deve fare di più», insiste, denunciando la carestia come «arma di guerra» e descrivendo scene devastanti di madri che stringono figli senza vita e persone uccise mentre cercavano cibo. Parla di un soffocamento finanziario dell’Autorità Nazionale Palestinese, di progetti di insediamento che spezzerebbero la Cisgiordania, di dichiarazioni incendiarie dei ministri più estremisti. Tutto questo, secondo la presidente, mina in modo deliberato la prospettiva dei due Stati e la possibilità di uno stato palestinese sostenibile. In questo quadro, la sua voce assume toni di condanna etica oltre che politica, pur lasciando intendere quanto sarà difficile costruire una vera maggioranza all’interno dell’Unione.

Il centro del discorso resta, però, che «L’Europa deve combattere». È il passaggio in cui la retorica si fa più scoperta: non si tratta più solo di sostenere l’Ucraina o di difendere i «valori europei», ma di spingere l’intero continente verso una logica di mobilitazione permanente che prepara il terreno a un confronto diretto con la Russia. La retorica della lotta, l’invocazione all’economia di guerra e al nuovo ordine mondiale diventano strumenti per giustificare sanzioni, spese militari senza precedenti e misure straordinarie che rischiano di trascinare i popoli europei in un conflitto globale. Il discorso si chiude sul paradosso di un’Europa che dice di lottare per la pace brandendo lo slogan della guerra. Von der Leyen parla di libertà, valori e futuro, ma lo fa con un linguaggio che riecheggia il vecchio motto «Si vis pacem, para bellum». È un lessico orwelliano: proclamare la pace mentre si invoca la mobilitazione, difendere la democrazia con gli strumenti della guerra, giustificare sacrifici in nome della libertà. Così il rischio è che l’Unione non solo si prepari a uno scontro frontale con la Russia, ma si avviti in una spirale retorica che normalizza l’eccezione bellica come condizione permanente. Se il progetto europeo si riduce a questo, allora la promessa di un continente unito e libero rischia di dissolversi dietro il velo di una propaganda che chiama guerra ciò che dice di voler evitare.

Venezia, assessore Boraso patteggia 3 anni e 10 mesi per corruzione

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Renato Boraso, assessore alla Mobilità del Comune di Venezia, ha patteggiato una condanna a 3 anni e 10 mesi di reclusione e la confisca di 308mila euro per corruzione e turbativa d’asta. Già ai domiciliari, è accusato di aver favorito alcuni imprenditori nell’assegnazione di appalti in cambio di denaro, con l’aiuto di altre due persone (anch’esse condannate con patteggiamento). Boraso risulta inoltre coinvolto in un’altra inchiesta concernente la vendita di un palazzo di proprietà del comune di Venezia e di un terreno di proprietà del sindaco Luigi Brugnaro: avrebbe incassato una tangente da 73mila euro per abbassare il valore stimato del palazzo.

Truffa allo Stato e 183 milioni evasi: Elkann se la cava con qualche giorno di volontariato

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La Procura di Torino ha accolto la richiesta di “messa alla prova” presentata da John Elkann, presidente di Stellantis e amministratore delegato della holding Exor N.V., imputato per truffa aggravata ai danni dello Stato ed evasione fiscale. L’accordo, che dovrà ora essere ratificato dal giudice per l’udienza preliminare, prevede la partecipazione di Elkann a iniziative educative e formative di volontariato per una durata da 10 mesi a un anno. L’ipotesi circolata sui media in queste ore è che Elkann potrebbe presto varcare le porte di un’istituzione salesiana per svolgere lavori di pubblica utilità sulla base del programma concordato con i pm. La decisione finale spetterà al giudice, che dovrà approvare la proposta. La misura della probation, introdotta dalla legge 67/2014, sospende il processo per alcuni reati ritenuti di minore allarme sociale e sostituisce la pena con lavori di pubblica utilità sotto la supervisione dei servizi sociali. È stata applicata di rado in casi di reati economici di rilievo: il precedente più noto resta quello di Silvio Berlusconi per il processo Mediaset. Se completato senza violazioni, il percorso comporterà l’estinzione dei reati contestati: la fedina penale di Elkann resterà integra e non risulterà neppure l’imputazione, a differenza di quanto accaduto all’ex premier. Secondo la Procura, la richiesta è stata resa possibile dal versamento delle somme dovute al fisco, che ha sanato la parte tributaria della vicenda. Il procuratore aggiunto Enrica Gabetta e il pm Giancarlo Avenati Bassi hanno precisato che l’attività sociale dovrà essere concreta e verificata.

Le indagini della Guardia di Finanza hanno preso avvio nel 2022, a seguito di segnalazioni legate alla successione di Marella Caracciolo di Castagneto, vedova di Gianni Agnelli, deceduta nel 2019. Al centro, la dichiarazione di residenza in Svizzera della donna, ritenuta dagli inquirenti fittizia. Secondo la Procura, quella residenza avrebbe consentito agli eredi di sottrarre al fisco italiano circa un miliardo di euro di patrimonio e 248,5 milioni di redditi non dichiarati. Per ricostruire i flussi, i finanzieri hanno svolto perquisizioni, acquisito documenti da studi legali e fiduciari, e ottenuto informazioni tramite rogatorie internazionali in Svizzera e in Lussemburgo. L’analisi ha permesso di mappare una rete di trust e società estere che gestivano capitali e beni della famiglia. Le contestazioni fiscali hanno portato a un confronto serrato con l’Agenzia delle Entrate. Nel 2024, gli Elkann hanno versato 183 milioni di euro, somma comprensiva di imposte evase, interessi e sanzioni. Il pagamento ha estinto la posizione tributaria, ma ha lasciato aperto il fascicolo penale, oggi avviato verso la definizione con la messa alla prova. I pm hanno qualificato la condotta come “truffa aggravata ai danni dello Stato”, sottolineando come la residenza svizzera di Marella fosse priva di effettivi legami di vita. Le prove raccolte – contratti, utenze, presenze effettive – indicherebbero che la vedova Agnelli trascorreva la maggior parte del tempo in Italia. Oltre a John Elkann, erano indagati anche i fratelli Lapo e Ginevra, nonché il notaio svizzero Henry Peter von Grünigen, che aveva curato parte delle pratiche ereditarie. Per tutti la Procura ha chiesto l’archiviazione, ritenendo che le condotte non integrassero responsabilità penale diretta. Diverso l’esito per Gianluca Ferrero, commercialista torinese e attuale presidente della Juventus, che ha concordato un patteggiamento.

Il procedimento penale si intreccia con il lungo contenzioso civile avviato da Margherita Agnelli, madre di John, Lapo e Ginevra. Margherita contesta il patto successorio del 2004, stipulato in Svizzera, che l’ha esclusa da asset fondamentali della famiglia, tra cui quote di Exor e beni patrimoniali di grande valore. Le sue azioni legali mirano a ottenere la nullità di quegli accordi, sostenendo che fossero lesivi dei suoi diritti ereditari. Le cause sono tuttora pendenti sia in Italia sia in Svizzera. In questo contesto, la decisione della Procura di concedere la messa alla prova a John Elkann definisce il fronte penale, ma lascia aperto quello civile, destinato a proseguire per anni nei tribunali. Per i legali di Margherita Agnelli aver chiesto la messa alla prova è una conferma della condotta illecita di John Elkann, mentre per l’avvocato del presidente di Stellantis, Paolo Siniscalchi, «non comporta alcuna ammissione di responsabilità». Per John Elkann, la prospettiva è chiara: dieci mesi di attività sociali a Torino, controllate dai servizi sociali e certificate dai responsabili della struttura su cui ricadrà la scelta. Va rilevato che, qualora la messa alla prova si svolgesse presso una struttura salesiana, come suggerito in queste ore dai media, esistono rapporti consolidati e un vero e proprio legame storico e collaborativo tra i Salesiani e la famiglia Agnelli: l’Istituto Edoardo Agnelli di Torino, in particolare, ha beneficiato nel tempo di contributi e finanziamenti riconducibili alla Fondazione Agnelli. Nel caso, invece, della Scuola Media Salesiana “Don Bosco” di Valdocco, situata proprio accanto al Santuario di Maria Ausiliatrice, di cui è stato fatto il nome, non risultano evidenze di finanziamenti diretti, pur essendo documentate collaborazioni e iniziative condivise. L’eventuale svolgimento della messa alla prova proprio in una struttura sostenuta economicamente dalla famiglia Agnelli solleverebbe evidenti profili di conflitto di interessi, sebbene al momento si tratti solo di speculazioni dei media: manca ancora il piano preciso e nessuna istituzione salesiana ha confermato di aver preso accordi. Parallelamente, la battaglia civile con la madre continuerà a svilupparsi su un terreno distinto, ma inevitabilmente collegato a una vicenda che ha già segnato la storia giudiziaria ed economica della più nota dinastia industriale italiana.

Attacco in Qatar, Hamas: uccisi 5 funzionari, squadra negoziale illesa

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I media ufficiali di Hamas hanno rilasciato il bilancio degli attacchi israeliani condotti ieri in Qatar contro la propria delegazione diplomatica: Israele avrebbe ucciso cinque funzionari, tra cui il capo ufficio e il figlio di Khalil Al-Hayya e tre funzionari minori. Khalil Al-Hayya è un membro della squadra negoziale ed era uno dei principali obiettivi dell’attacco; sia lui che il resto dei membri della squadra sono sopravvissuti all’aggressione. Ucciso anche un membro delle Forze di sicurezza interna del Qatar. Nel frattempo il presidente degli USA Trump ha affermato che era a conoscenza dell’attacco, che tuttavia sarebbe stato organizzato e condotto solo da Israele; Trump aveva avvisato anche il Qatar dell’operazione.