martedì 9 Dicembre 2025
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Francia: i sindacati denunciano Israele per i crimini di guerra contro i giornalisti di Gaza

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I sindacati francesi Syndicat national des journalistes (SNJ) e International Federation of Journalists (IFJ) hanno depositato una denuncia presso la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi (PNAT), accusando le autorità israeliane di aver imposto un vero e proprio “silenzio mediatico” nella Striscia di Gaza. La denuncia, contro ignoti, descrive come sistematico e prolungato il divieto di accesso a Gaza per giornalisti stranieri a partire dal 7 ottobre 2023, combinato con molestie, intimidazioni, perquisizioni, arresti arbitrari e violenze dirette nei confronti di reporter palestinesi e operatori stranieri. Secondo i sindacati, queste condotte configurano possibili crimini di guerra.

Il segretario generale dell’IFJ, Anthony Bellanger, ha spiegato che la denuncia rappresenta l’ultimo tentativo di fare pressione su Israele affinché apra Gaza alla stampa internazionale. Già a luglio, l’Agence France-Presse (AFP) aveva sollecitato Israele a consentire ai giornalisti di entrare e uscire dal territorio devastato dalla guerra. Secondo le organizzazioni sindacali, l’iniziativa rappresenta «un passo necessario per difendere il diritto all’informazione, la libertà di stampa e il rispetto del diritto internazionale». In una dichiarazione congiunta, si parla espressamente di un «blackout mediatico senza precedenti», unito alla «spietata repressione di giornalisti e professionisti dei media palestinesi». Nel testo depositato davanti alla giustizia francese, SNJ e IFJ documentano una molteplicità di casi concreti e di situazioni drammatiche: giornalisti che non possono entrare in certe aree, attrezzature sequestrate, minacce e aggressioni fisiche, ma anche vere e proprie cacce all’uomo. In un caso, un cronista ha raccontato di essere stato inseguito per tutta la notte da un gruppo armato di «pistole, taniche di benzina e bastoni», mentre stava svolgendo un servizio in Cisgiordania alla presenza dell’esercito israeliano. Le limitazioni, secondo la denuncia, non sarebbero incidenti isolati, ma farebbero parte di una strategia sistematica dallo scopo evidente: imporre una narrazione unica, impedire una copertura mediatica libera e “cancellare” ogni voce indipendente. La capacità dei giornalisti di operare, secondo i sindacati francesi, si sta riducendo anche in Israele e in Cisgiordania. «È un blocco organizzato, sistematico e prolungato», ha dichiarato uno degli avvocati della denuncia, aggiungendo che impedire lo svolgimento del lavoro giornalistico in un contesto di guerra significa negare alla società il diritto fondamentale di conoscere la verità, sancito da trattati internazionali e dal diritto penale francese.

Per la prima volta in Europa, si tenta di portare davanti a un tribunale nazionale il caso di restrizioni sistematiche della libertà di stampa in tempo di guerra. L’obiettivo della denuncia è che la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi eserciti la propria giurisdizione, poiché molti dei giornalisti coinvolti sono cittadini francesi. L’iniziativa rientra in un contesto in cui la libertà di informazione è sempre più sotto attacco. Secondo Reporters Senza Frontiere, organismo di controllo della stampa, dall’ottobre 2023 sono stati uccisi a Gaza più di 220 giornalisti, di cui almeno 62 a causa del loro lavoro (22 di questi giornalisti uccisi nel 2025). In una recente mozione del Congresso EFJ di Budapest del 2 e 3 giugno 2025, la European Federation of Journalists (EFJ) aveva deplorato l’uccisione dei giornalisti e operatori media nelle operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. In passato, la morte di reporter a Gaza e nelle aree in guerra era stata denunciata da sindacati e associazioni internazionali come un massacro di giornalisti, ma ora i sindacati puntano a inquadrare le violazioni come crimini di guerra, ossia reati perseguibili secondo il diritto internazionale. Per SNJ e IFJ l’attuale denuncia rappresenta una tappa obbligata per difendere il diritto a documentare i conflitti e tutelare chi, ogni giorno, rischia la vita per raccontare ciò che accade lontano dallo sguardo dell’opinione pubblica. Significa chiedere che le responsabilità vengano chiarite e che il giornalismo torni a essere un presidio, non un bersaglio. In un momento in cui le violenze contro i media, soprattutto nelle zone di guerra, continuano a intensificarsi, l’iniziativa assume anche il valore di un avvertimento: il rispetto del diritto internazionale non può essere aggirato e nessuna arma o restrizione può giustificare il tentativo di soffocare la libertà di stampa.

Cuba, crollo della rete elettrica: L’Avana al buio

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La rete elettrica cubana ha avuto un guasto, lasciando la capitale L’Avana al buio. Il guasto ha interessato gran parte dell’area occidentale dell’isola; secondo i media locali, quattro delle province più occidentali del Paese sarebbero rimaste senza corrente. Ancora ignote le cause del cortocircuito. Non è la prima volta che Cuba registra guasti nella rete elettrica. Quest’anno, le importazioni di greggio dai Paesi alleati sono diminuite di oltre un terzo rispetto al 2024, e le sanzioni degli USA, riattivate da Trump, hanno reso difficile al Paese importare carburante per alimentare la propria rete. L’arrivo dell’uragano Melissa dello scorso ottobre ha alimentato il problema, causando danni alle infrastrutture elettriche.

Il Piano sulle IA dell’Australia mette al centro il lavoro e i cittadini

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Come molte altre nazioni, anche l’Australia ha presentato il proprio piano politico sull’intelligenza artificiale. A differenza della direzione intrapresa dai poteri omologhi, però, Canberra non sembra intenzionata a partecipare alla corsa allo sviluppo tecnologico a ogni costo, preferendo piuttosto puntare su di un impiego sicuro degli strumenti digitali e sulla distribuzione equa dei benefici che questi promettono. Una prospettiva tutt’altro che radicale, ma che contrasta con le direzioni statunitensi ed europee, le quali coincidono sempre più con gli interessi delle grandi imprese.

Il progetto, pubblicato martedì 2 dicembre, mira a colmare i vuoti normativi australiani puntando su tre direttrici principali: attrarre investimenti per data center avanzati, promuovere e sviluppare le competenze necessarie a tutelare i posti di lavoro e garantire la sicurezza di una cittadinanza che, volente o nolente, sarà sempre più esposta ai sistemi di intelligenza artificiale. Non si tratta dunque di un piano ideologico incentrato sulle relazioni umane, bensì di una strategia che privilegia la dimensione economica. Tuttavia, questa impostazione viene esplicitamente presentata come un percorso volto a ridistribuire i benefici dell’innovazione, ridurre il divario digitale e migliorare l’efficienza dei servizi pubblici.

La retorica secondo cui l’adozione dell’IA genererebbe automaticamente nuovi posti di lavoro è un mantra ripetuto sia dai tecnoentusiasti che dalla classe politica. Nella pratica, però, la necessità di formare una nuova forza lavoro viene spesso considerata una conseguenza naturale dell’evoluzione del Mercato – al massimo sostenuta da qualche modesto incentivo – e non come il risultato di un piano politico strutturato. L’Australia, invece, promette interventi di upskilling sostanziali e un impiego della GenAI mirato ai servizi al pubblico e alla riduzione del carico di lavoro degli insegnanti. Parallelamente, algoritmi avanzati, integrati con dati satellitari del programma di Osservazione Terrestre, saranno utilizzati per progettare interventi nei settori agricolo e minerario.

Sul piano normativo, Canberra non intende varare nuove leggi, ma estendere quelle già in vigore affinché includano le casistiche legate all’intelligenza artificiale. La responsabilità di valutare i rischi delle tecnologie emergenti e di definire le policy più adeguate sarà delegata alle singole agenzie e ai rispettivi regolatori. Un compito complesso, che potrà tuttavia avvalersi della consulenza dell’AI Safety Institute (AISI), istituto in fase di costituzione annunciato lo scorso 25 novembre. L’AI Plan prevede inoltre una revisione approfondita delle normative sul diritto d’autore, software medici, ricerca scientifica e tutela dei consumatori: ambiti cruciali su cui il governo australiano è già al lavoro.

Ovviamente, la validità delle leggi potrà essere valutata solo nella loro fase applicativa. Anche i propositi migliori rischiano di indebolirsi sotto il peso di interpretazioni flessibili che finiscono per privilegiare gli interessi dei distributori e dei partner commerciali rispetto a quelli del mondo accademico e delle associazioni civili. L’Australia, tuttavia, ha già dimostrato in passato di saper fronteggiare le Big Tech per difendere le proprie linee politiche. Nonostante ciò, permane il dubbio che l’adozione di principi responsabili sull’intelligenza artificiale non basti a colmare una criticità più profonda, radicata a monte della dimensione applicativa: il controllo delle infrastrutture di IA da parte delle grandi aziende statunitensi.

Il fatto che la sicurezza, il lavoro e il benessere sociale non siano stati citati come sottoprodotti, ma come valori essenziali allo sviluppo tecnologico nazionale rende sicuramente onore ai politici australiani, ma resta da capire se il Governo avrà poi la forza di applicare concretamente le sue idee. Come spesso capita nella sfera del digitale, l’Australia finirà con il diventare un caso studio guardato con attenzione da tutti gli esperti del settore.

Cannabis light: sul divieto del decreto Sicurezza deciderà la Corte Costituzionale

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Sarà la Corte Costituzionale a decidere se il divieto del fiore di canapa industriale, previsto dal decreto Sicurezza, sia conforme alla Costituzione oppure no. Il giudice per le indagini preliminari i Brindisi, in un processo iniziato lo scorso giugno, ha infatti deciso di sollevare la questione della legittimità costituzionale nei confronti dell’articolo 18 del testo di legge, e in particolare dell’emendamento sulla canapa, che prevede il divieto di «importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione, consegna vendita al pubblico e consumo» delle infiorescenze di canapa industriale.

Nell’ultimo periodo la repressione del governo nei confronti delle infiorescenze di canapa industriale ha fatto un salto di qualità: dopo mesi e mesi di sequestri e processi, che nella stragrande maggioranza dei casi si risolvono in favore di agricoltori e commercianti di settore, negli ultimi mesi abbiamo visto diversi coltivatori che sono stati addirittura arrestati, per poi essere prontamente scarcerati. L’ultimo caso ha riguardato un imprenditore di Imperia, arrestato a inizio novembre con l’accusa di detenzione si fini di spaccio per 350 kg di canapa sequestrata, che poi si è rivelata legale e con THC sotto i limiti di legge, ed è stato rimesso in libertà. Nelle motivazioni delle scarcerazioni diversi giudici hanno messo nero su bianco che, senza le analisi scientifiche che attestino un reato, non è possibile procedere.

Il processo celebrato a Brindisi riguardava invece l’importazione, da parte di un’azienda italiana, di piante di canapa provenienti dalla Bulgaria, bloccate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. «Grazie a questo procedimento», sottolinea l’avvocato Lorenzo Simonetti, che con la sua memoria ha convinto il gip a sollevare la questione di legittimità, «potremo essere in grado di bloccare le iniziative arbitrarie riguardo alla canapa industriale, perché, finché la Consulta non si esprimerà, c’è il dubbio di costituzionalità». Può essere una questione dirimente per molti motivi, anche perché il provvedimento è direttamente collegato al nuovo Codice della strada, in questi giorni al vaglio proprio della Corte costituzionale, che prevede che basti la positività agli stupefacenti per vedersi sospesa la patente. Nel preambolo dell’emendamento canapa al decreto Sicurezza si legge infatti che il consumo delle infiorescenze di canapa industriale, determina la guida sotto effetto di stupefacenti.

Insomma, per la canapa italiana sta per arrivare il momento della verità. Il Parlamento europeo ha approvato il nuovo regolamento che riconosce la pianta di canapa come legale in ogni sua parte – fiori compresi – con THC fino allo 0,5%: ora si apre la fase della negoziazione con la Commissione europea e gli Stati membri e, se tutto andasse liscio, potrebbe essere approvato già nel 2026, facendo decadere la repressione italiana. L’altro fronte aperto è quello derivato dalla volontà del governo di inserire la canapa tra le piante officinali, limitando però l’uso a fibra e semi, con un decreto nel 2022. Dopo il ricorso delle associazioni di settore il decreto viene annullato, ma il governo Meloni ha impugnato la sentenza, e si è arrivati alla decisione del massimo organo amministrativo italiano, che ha demandato la decisione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Mentre i divieti governativi cominciano a scricchiolare, il governo però è già corso ai ripari. È infatti spuntato un emendamento alla legge di Bilancio, che va approvata entro la fine dell’anno, firmato da un senatore di Fratelli d’Italia, che introduce il monopolio di Stato per le infiorescenze di canapa, con un’accisa al 40% e il divieto di vendita online. Si tratta di una legge simile a un’altra proposta dalla maggioranza nel 2023, mai discussa, che – nel caso in cui i divieti del governo cadessero – sarebbe già pronta a iper-tassare lo stesso mercato che fino a ieri l’esecutivo voleva vietare a ogni costo

Germania: gli studenti lanciano lo sciopero contro il ritorno del servizio militare

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«Non vogliamo diventare carne da cannone»: è lo slogan dei manifestanti pronti per lo Schulstreik, lo sciopero scolastico che raggiungerà il suo apice il 5 dicembre in Germania, dove è iniziata la mobilitazione giovanile contro la leva militare. Venerdì, gli studenti tedeschi boicotteranno la scuola per manifestare contro la legge sulla coscrizione. L’iniziativa coinvolgerà oltre 60 città in tutto il Paese, da Berlino ad Amburgo, da Lipsia a Monaco, nell’esatta coincidenza con la discussione parlamentare al Bundestag. La legge, annunciata qualche settimana fa, punta a ricostruire un sistema di leva che la Germania aveva archiviato nel 2011 e gode del sostegno delle principali forze del governo del compromesso tra SPD e CDU.

Il nuovo impianto prevede che ogni diciottenne maschio riceva un questionario di valutazione a partire dal 2026, seguito da una visita di idoneità dal 2027. Per le donne questo processo sarà volontario. Una volta finalizzata la registrazione, chi vorrà potrà arruolarsi per un servizio militare volontario della durata minima di sei mesi, rinnovabili fino a 23. Durante il periodo di servizio sarà prevista una retribuzione di 2.600 euro lordi e sussidi per la patente di guida per chi si impegna per più di un anno. Se il numero di volontari non sarà sufficiente, scatterà un meccanismo di selezione coatta attraverso un sorteggio. Una soluzione ibrida che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe rafforzare la Bundeswehr, alle prese con carenze strutturali di personale.

Per i giovani la “lotteria della leva” rappresenta un ritorno al passato che credevano superato. In molti parlano di pressione psicologica e di violazione della libertà di scelta. «Nessuno considera giusto un sistema basato sul sorteggio», afferma Laurenz Spies, rappresentante degli studenti in Assia. Nel sito web Schulstreik gegen Wehrpflicht i ragazzi si appellano al diritto di vivere in pace e citano l’articolo 4, comma 3 della Legge fondamentale che sancisce la libertà di coscienza e nega la costrizione contro volontà al servizio militare. La distanza tra istituzioni e piazze si è così ampliata, alimentando un malcontento che ha trovato nelle scuole il suo epicentro. Dalle aule di Berlino a quelle di Amburgo, dalle università di Monaco ai licei di Lipsia, gli studenti hanno deciso di organizzare un boicottaggio nazionale, uno sciopero coordinato e pianificato da settimane. I promotori denunciano un clima politico che tende alla militarizzazione dell’Europa, in cui i giovani rischiano di essere i primi a pagare con la loro stessa vita.

Negli ultimi mesi, in tutta Europa, sono tornate di attualità leggi che prevedono l’arruolamento dei diciottenni. Le ambizioni di riarmo di Berlino puntano a trasformare la Bundeswehr nella forza armata più numerosa dell’Unione Europea, con l’obiettivo di raddoppiare il personale, passando dagli attuali 250.000 effettivi e riservisti a 460.000 unità entro il 2029, con 80.000 soldati attivi e circa 120.000 riservisti, proiettando la Germania al vertice della capacità militare continentale. Diverso l’approccio di Francia e Italia, entrambe impegnate in programmi più graduali. Parigi prevede di arruolare circa 3.000 nuove unità nel prossimo anno, con un incremento che dovrebbe raggiungere le 50.000 entro il 2035. Un percorso più lento, basato sul volontariato e diluito in un arco temporale lungo, che riflette la volontà francese di evitare scossoni interni e di non riaprire il dibattito sulla coscrizione obbligatoria. In Italia, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato dopo l’incontro con la collega francese Catherine Vautrin un progetto che segna un ritorno soft alla logica della mobilitazione territoriale. L’ipotesi è la creazione di una riserva ausiliaria di 10.000 unità, chiamata a intervenire per ora solo in compiti di supporto: attività logistica, gestione delle emergenze, cyber-sicurezza e funzioni non operative all’estero. Sulla stessa linea si muovono Belgio e Paesi Bassi, intenzionati a reclutare volontari al compimento dei 18 anni, mentre nell’Europa orientale Lituania, Lettonia, Svezia e Finlandia hanno già reintrodotto programmi obbligatori. A non mostrare interesse per un ampliamento dell’organico restano invece Spagna e, fuori dall’UE, il Regno Unito. In un’Europa che sembra scivolare verso una nuova stagione di militarizzazione, la mobilitazione giovanile potrebbe segnare l’inizio di una lunga onda d’urto destinata a travolgere confini e governi, trascinando con sé un’intera generazione decisa a non farsi arruolare in silenzio.

Inchiesta appalti Sicilia: Cuffaro ai domiciliari

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Salvatore Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, è stato posto agli arresti domiciliari dal gip di Palermo nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge altre 17 persone, per associazione a delinquere, turbativa d’asta e corruzione nell’inchiesta sugli appalti e concorsi nel settore sanitario siciliano. La richiesta di misure cautelari, avanzata dalla Procura all’inizio di novembre, è stata accolta al termine dell’interrogatorio preventivo, con la contestazione aggiornata di “traffico di influenze”. Il gip ha invece respinto la richiesta di arresto nei confronti di Saverio Romano, deputato e coordinatore di Noi Moderati, anche lui indagato nella stessa vicenda.

Procura Ue: rilasciati Mogherini, Sannino e Zegretti

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Dopo gli interrogatori della polizia federale delle Fiandre occidentali, sono stati rilasciati nella notte Federica Mogherini, Stefano Sannino e Cesare Zegretti, coinvolti nel presunto scandalo sui fondi per giovani diplomatici Ue. Le accuse, che riguardano frode negli appalti, corruzione, conflitto di interessi e violazione del segreto professionale, restano in piedi. La Procura europea ha spiegato che la scarcerazione è avvenuta perché i tre “non sono ritenuti a rischio di fuga” e che “sono stati formalmente informati delle accuse a loro carico”. 

Russia-USA, 5 ore di colloqui: “d’accordo solo in parte” ma si continua a trattare

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È durato cinque ore l’incontro che ha visto sedere allo stesso tavolo l’inviato speciale degli Stati Uniti Steve Witkoff, insieme all’uomo d’affari e genero di Trump Jared Kushner, e il presidente russo Vladimir Putin, per discutere di una soluzione pacifica al conflitto russo-ucraino. Secondo quanto emerso a incontro concluso, non sono stati raggiunti nuovi accordi e non è stato messo in programma un futuro incontro tra Putin e il suo omologo statunitense Donald Trump. Non sarebbe stato discusso in dettaglio nemmeno il contenuto dei piani di pace elaborati dagli Stati Uniti e consegnati a Mosca nelle scorse settimane. Tuttavia, le parti hanno definito lo scambio «costruttivo» e si sono impegnate per condurre nuovi colloqui.

Secondo quanto riferito dal funzionario russo Yuri Ushakov, citato dalla Tass, l’incontro tra Witkoff e Putin è stato «costruttivo» e «significativo» e sono state discusse «approfonditamente le prospettive di un ulteriore lavoro congiunto per raggiungere una soluzione pacifica a lungo termine». Sul tavolo vi erano le proposte consegnate dagli Stati Uniti a Mosca (quattro documenti, riferisce Ushakov, consegnati dopo la proposta di pace in 28 punti), ma nessun punto è stato discusso nelle sue «formulazioni specifiche», quanto piuttosto nella sua «essenza stessa». Ushakov non ha rivelato il contenuto di tali documenti, ma ha detto che riguardano tutti possibili soluzioni di pace. Per la Russia, alcune idee americane sono accettabili, altre non sono adeguate. Ad essere discusse in modo specifico, invece, sarebbero state le questioni territoriali, ma anche su queste non sono emersi ulteriori dettagli. Le parti avrebbero poi commentato le «azioni distruttive» messe in campo da parte europea. Insieme a Jared Kushner, poi, si sarebbero discusse le «enormi prospettive di futura collaborazione economica» tra i due Paesi. Secondo quanto riferito dalla TASS, Witkoff e Kushner non hanno in programma di passare dall’Ucraina, ma rientreranno direttamente negli USA.

Il piano di pace in 28 punti (ancora «in evoluzione», secondo quanto riferito dalla Casa Bianca) è stato presentato dagli Stati Uniti nelle scorse settimane e ha fatto storcere il naso tanto a Zelensky quanto all’UE – tagliata fuori dalle trattative. Al suo interno vi sarebbero infatti alcune clausole che Kiev e gli alleati giudicano assurde e inaccettabili, come la cessione del Donbass. Tra i punti, vi sarebbero anche la non integrazione futura dell’Ucraina nella NATO e l’impegno, da parte di quest’ultima, a non schierare truppe nel Paese, il riconoscimento di Crimea, Lugansk e Donetsk come regioni russe, anche da parte degli USA, e una parziale smilitarizzazione dell’Ucraina. Il NYT riferisce che, proprio a causa delle critiche da parte di Kiev e UE, il contenuto del piano è stato leggermente rivisto.

Poche ore prima dei colloqui, Putin aveva incontrato i giornalisti e aveva sottolineato che Mosca non intende entrare in guerra con l’Europa, «come già detto centinaia di volte». Tuttavia, se l’Europa dovesse dichiarare guerra, la Russia risponderebbe subito. Giusto poche ore prima, il presidente del comitato militare NATO Giuseppe Cavo Dragone, la più alta carica prevista dal Patto Atlantico, aveva dichiarato alla stampa che l’Alleanza sta valutando «attacchi preventivi» contro la Russia, spiegando che potrebbero essere considerati una «azione difensiva» a fronte della cosiddetta «minaccia ibrida» proveniente dalla Russia. Secondo Dragone, la NATO sarebbe troppo passiva nella presunta ricezione di attacchi informatici e di sabotaggio, e per tale motivo dovrebbe assumere un atteggiamento «proattivo» e «aggressivo».

Secondo Putin, dunque, l’Europa, non ha un programma di pace, ma è «dalla parte della guerra» e si è per questo «esclusa da sola» dai colloqui di pace. «Sono stati loro stessi a ostacolare i colloqui di pace e stanno ostacolando il presidente Trump», cercando di «imporre all’Ucraina richieste assolutamente inaccettabili per la Russia, e ne sono consapevoli». Il presidente ha poi commentato che le autorità di Kiev si comportano «come se vivessero su un altro pianeta», senza consapevolezza della situazione attuale, economica e sul campo.

La Gran Bretagna vieterà nuove esplorazioni di petrolio e gas

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Con la pubblicazione del North Sea Future Plan, il governo britannico ha annunciato che non verranno più rilasciate licenze per avviare nuove attività di ricerca ed estrazione di combustibili fossili. Una scelta che lo rende il primo grande produttore mondiale, e il primo Paese del G7, a chiudere definitivamente la porta a nuove concessioni per petrolio e gas.
La decisione non cancella l’esistenza dell’industria fossile britannica, ma ne limita l’espansione. I progetti già in corso o collegati a giacimenti esistenti (i cosiddetti “tie-back”) potranno proseguire, a condizione che non comportino...

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Tunisia, arrestato leader dell’opposizione

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La polizia tunisina ha arrestato Ayachi Hammami, noto esponente dell’opposizione. Hammami è stato arrestato nella sua abitazione ed è accusato di cospirazione contro la sicurezza dello Stato; dovrà scontare una pena detentiva di cinque anni. La sua condanna è arrivata la scorsa settimana, quando una corte d’appello si è espressa su diversi casi riguardanti vertici dell’opposizione al presidente Saied, accusati di avere tentato di rovesciarlo. L’opposizione ha sempre rigettato le accuse, sostenuta da gruppi di diritti umani che accusano Saied di portare avanti politiche di repressione del dissenso.