sabato 22 Novembre 2025
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Hebron: dentro la festa dei coloni che mostra l’apartheid costruita da Israele

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AL-KHALIL, CISGIORDANIA OCCUPATA – Sono migliaia i coloni israeliani e i sionisti da tutto il mondo che si sono radunati per lo Shabbat Chayei Sarah, nel cuore della città di Hebron (Al-Khalil per i palestinesi), per un weekend di festeggiamenti in onore di Sara, la moglie di Abramo, sepolta nella famosa tomba dei patriarchi. Hebron è infatti uno dei cuori pulsanti del nazionalismo religioso di estrema destra israeliano. Nella città sacra ad ebrei, cristiani e musulmani, i palestinesi non possono muoversi liberamente e durante lo Shabbat Chayei Sarah l’apartheid si mostra in tutta la sua violenza. L’esercito ha imposto il coprifuoco da venerdì mattina in diversi quartieri della città vecchia, chiudendo numerosi check-points e impedendo ogni ingresso e uscita. Molti residenti palestinesi non hanno potuto tornare alle loro case e sono stati costretti a pernottare presso parenti in altri quartieri. Venerdì e sabato, migliaia di coloni hanno sfilato per Al-Shuhada street, la strada dei martiri, preclusa ai palestinesi ormai da 25 anni, molti intonando cori e slogan anti-arabi. Giovani sionisti hanno attaccato alcune case palestinesi con pietre, gettando oggetti e liquidi dalle colonie della città vecchia. Ma le forti piogge hanno forse impedito un aggravarsi delle violenze che in molti temevano.

Hebron, la città divisa

«La situazione qui è sempre più difficile», mi dice Qusay, un uomo sulla quarantina, pochi secondi dopo che sei soldati dell’IDF, fucili in braccio, ci passano davanti in uno dei loro quasi quotidiani raid. Siamo nel cuore della città vecchia di Hebron. La “città divisa”, la Palestina in miniatura. Spaccata a metà da muri, check-points, telecamere con armi semi-automatiche, militari. «Ho paura per mia figlia. [I militari] vengono quasi tutti i giorni. Non è più sicuro qui». È il giorno prima del Shabbat Chayei Sarah, la ricorrenza religiosa ebraica che si tiene ogni anno a Hebron per promuovere la narrazione della presenza storica ebraica nella città. Una ronda di soldati israeliani sorprende la mia colazione mattutina, ma nessun altro per strada è stupito: ormai le divise e le armi israeliane fanno parte del panorama della città vecchia.

«Vogliono mandarci via» continua un uomo, mentre chiude il suo negozio a poche decine di metri da uno dei cancelli che divide Al-Khalil e che blocca l’accesso ad Al-Shuhada, la strada che una volta era il cuore pulsante del mercato cittadino. E che dalla Seconda Intifada è preclusa ai palestinesi. «L’economia è sempre più difficile, molti negozi hanno chiuso. Vogliono prendersi tutto. Ma questa è la nostra terra. Non la lasceremo mai».
Al-Khalil è la città-apartheid: tornelli, filo spinato, muri e grate controllano e limitano gli spostamenti dei circa 35 mila palestinesi che abitano la cosiddetta zona H2, costretti a continui controlli di identità, violenze e abusi da parte dei militari israeliani e dei numerosi coloni che si sono installati nell’area. Hebron/Al-Khalil è l’unica città oltre a Gerusalemme ad avere colonie al suo interno; vere e proprie enclavi circondate da torrette di avvistamento, mura e soldati, che come nel resto della Cisgiordania occupata, stanno cercando di espandersi. Le strade palestinesi – così come molte finestre e porte – che confinano con gli insediamenti israeliani sono protette da grate, per proteggere i passanti dal lancio di immondizia e oggetti da parte dei coloni.

Più difficile è proteggersi dagli ormai famosi “tour” provocatori che i settlers organizzano sempre più spesso nella città vecchia, quando quasi settimanalmente decine di sionisti invadono la parte palestinese della città accompagnati e protetti dai soldati delle IDF.

Hebron è il simbolo delle troppe ingiustizie subite. I palestinesi si sono visti sottrarre il 20% della città dopo aver subito un massacro. Era il 25 febbraio 1994 quando Baruch Goldstein, un israeliano-statunitense residente nella colonia illegale di Kiryat Arba, entrò nella moschea di Ibrahim e aprì il fuoco sui fedeli mussulmani in preghiera. Circa 29 persone furono uccise, 129 i feriti. Altri 26 palestinesi morirono per mano dell’esercito israeliano durante le proteste scoppiate in giornata. Il massacro subito dai palestinesi fu il pretesto per dividere la città in due settori, come sancì il Protocollo di Hebron firmato (ma mai ratificato) nel 1997: Hebron 2 (quell’H2 che rappresenta circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’Autorità palestinese.
H2 è una grande prigione a cielo aperto per i circa 35 mila residenti palestinesi, costretti ad obbedire – dietro la minaccia delle armi o della prigione – alle regole dei circa 800 coloni israeliani occupanti e degli almeno mille soldati che vi risiedono. Check-point, cancelli, tornelli, ma anche telecamere a riconoscimento facciale impediscono il libero movimento e costringono la popolazione palestinese a continui abusi e violenze.

Il Chayei Sarah dietro le grate delle case palestinesi

La casa di Mohammad è ormai un pezzo della frontiera cittadina. «Anni fa il mio ingresso era di là» ci dice, indicando una porta sprangata con sbarre di metallo. Dietro, le voci di centinaia di persone che parlano e gridano in inglese, francese, ebraico. “Di là” è Al-Shuhada street, invasa negli ultimi due giorni da migliaia di coloni e sionisti da tutto il mondo. «Tre mesi fa una dozzina di militari e coloni hanno sfondato la porta e sono entrati in casa. Ero con mio figlio; ci hanno malmenato e minacciato. Hanno anche spaccato il televisore e altri oggetti. Mio figlio è finito in ospedale». È tranquillo Mohammad, mentre osserviamo gruppi di persone armate, mezzi corazzati della polizia e dei militari passare oltre le grate del balcone. Le finestre e le porte sono chiuse da una fitta rete metallica, peggio di una prigione. «Ho dovuto metterle perché mi lanciavano sassi e bottiglie. Tutti qua ormai viviamo così».

Nella via principale della città vecchia, la rete metallica fa da tetto alla strada. I coloni infatti hanno occupato alcune case nei piani alti delle strutture, e si divertono a lanciare oggetti e immondizia ai palestinesi mentre passano. «Le cose sono peggiorate dal 7 di ottobre. Ma ogni anno è peggio di quello prima», dice. «Molte persone se ne sono andate. Non c’è più economia. Non ci sono turisti, e i palestinesi di Al-Khalil hanno paura a venire nella città vecchia a causa dei militari e dei coloni». Dal 1994 Israele si è infatti prodigato nel soffocare le attività commerciali palestinesi nella zona, emanando ordini militari per obbligare alla chiusura circa 1500 negozi.

Mohammad non ha intenzione di andarsene. In questa casa ci è cresciuto. Ricorda molto bene quando, nonostante l’occupazione israeliana fosse presente, Al-Khalil era una città dove ci si poteva muovere liberamente. E sogna che possa tornare a esserlo. Ci offre un caffè, poi un altro. «Benvenuti. Benvenuti ad Al-Khalil».

[Nota dell’autrice: i nomi all’interno dell’articolo sono stati modificati per tutelare la sicurezza dei soggetti]

 

Bimbi “perfetti” in laboratorio: il progetto segreto dei magnati della Silicon Valley

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Da mesi, dietro le vetrate di un laboratorio di San Francisco, un gruppo di miliardari della Silicon Valley sta tentando di riscrivere il codice della vita. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, la startup Preventive, sostenuta da due nomi simbolo della rivoluzione digitale – Sam Altman, CEO di OpenAI, e Brian Armstrong, fondatore di Coinbase – lavora alla creazione di embrioni geneticamente modificati per prevenire malattie e migliorare la specie. L’obiettivo dichiarato è “eliminare la sofferenza”, ma la promessa di un’umanità senza difetti cela un progetto ben più ambizioso: fabbricare bambini “perfetti”. E così, evocando scenari fantascientifici in stile Gattaca, si riapre la porta all’eugenetica, che torna mascherata da progresso: il confine tra cura e controllo si assottiglia, mentre il sogno di prevenire le malattie cede il passo alla selezione degli embrioni e all’editing genetico.

Fondata nel maggio 2025 e nascosta dagli occhi indiscreti in un coworking di San Francisco, Preventive ha raccolto oltre 30 milioni di dollari con l’intento di creare embrioni sani e ottimizzati, sfruttando la tecnologia di editing genetico CRISPR-Cas9 e lo screening poligenico, un test genetico sugli embrioni che analizza centinaia di varianti del DNA per stimare la probabilità di sviluppare malattie o tratti complessi, come altezza o intelligenza. Il progetto prevede la selezione di gameti sintetici e la mappatura del DNA per “correggere” le mutazioni indesiderate. Fonti interne citate dal WSJ parlano di una coppia che sarebbe già stata contattata per ottenere il primo bambino “perfezionato”, ma il CEO di Preventive, Lucas Harrington, nega qualsiasi sperimentazione in corso e promette «massima trasparenza». Intorno a Preventive si sta formando un ecosistema di startup che usano algoritmi per analizzare il DNA embrionale e prevedere tratti genetici e patologie. Tra gli investitori figurano ancora Armstrong, Peter Thiel – già ossessionato come Altman dalla ricerca nel campo della longevità – e Alexis Ohanian. Siamo alle soglie di una nuova frontiera della biologia predittiva, dove la vita inizia già sotto il segno della selezione. Non si tratta più di curare patologie, ma di programmare la vita. È il sogno di una nuova élite biotecnologica che, dopo aver digitalizzato l’intelligenza, vuole ora perfezionare il codice genetico e creare esseri omologati e perfetti. La comunità scientifica, però, resta scettica: l’American College of Medical Genetics definisce lo screening poligenico privo di valore clinico.

Gli scenari che sembrano futuristici altrove sono già realtà nella Silicon Valley. Diversi esponenti delle Big Tech, tra cui lo stesso Sam Altman ed Elon Musk, avrebbero utilizzato lo screening poligenico per selezionare gli embrioni dei propri figli. Ma è Brian Armstrong a spingersi oltre: punta a usare l’editing genetico per “migliorare” la prole e ottenere meno rischi cardiaci, ossa più forti, prestazioni ottimali. Il fondatore di Coinbase avrebbe persino valutato di lanciare il progetto in segreto per forzare la normativa americana e l’accettazione pubblica, ipotesi che la sua portavoce ha, però, negato. L’editing genetico resta, infatti, vietato in gran parte del mondo per i rischi ereditari e le implicazioni etiche. L’unico precedente noto è quello del genetista cinese He Jiankui, condannato nel 2018 dopo aver creato due gemelle resistenti all’HIV.

Jacques Testart, pioniere della fecondazione assistita, aveva previsto il ritorno dell’eugenetica legittimata dal mercato e mascherata da libertà di scelta: la scienza senza limiti avrebbe generato un «eugenismo dolce, invisibile e democratico». È la selezione dei nascituri in nome dell’amore, del benessere e della perfezione, auspicata dallo scienziato che si fa demiurgo e spezza gli equilibri naturali, che sfida e altera le leggi biologiche, giocando a fare dio. Oggi, genitori e investitori chiedono figli ottimizzati come prodotti di alta gamma. L’embrione diventa un codice da riscrivere, la nascita un atto tecnico, la vita una merce su misura. Non è più la natura a selezionare, ma l’algoritmo. La promessa di libertà si rovescia in uniformità: bambini più sani, più belli, più conformi. Ma anche più fragili, perché privati dell’imperfezione che li rende umani. La corsa alla perfezione genetica s’inserisce nella visione transumanista che sogna di abolire malattia, vecchiaia e morte. È la stessa fede tecnologica che permea la Silicon Valley, dove il progresso è diventato religione e la manipolazione del DNA un nuovo culto prometeico. Questa eugenetica di ritorno rischia di trascinarci in una distopia lucida e disumanizzante, dove la tecnica prende il posto dell’etica e la fragilità viene cancellata in nome di una perfezione solo apparente.

Sono morte le gemelle Kessler

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Alice ed Ellen Kessler, conosciute in Italia come le Gemelle Kessler, sono morte insieme all’età di 89 anni. I quotidiani tedeschi riportano che sono morte a Grünwald, città a sud di Monaco di Baviera, in circostanze ignote; i media riportano che sarebbe in corso una indagine. Le Gemelle Kessler erano note cantanti, attrici e personaggi della televisione, e in Italia hanno avuto un grande successo a partire dagli anni ’60. Hanno espresso il desiderio di essere sepolte insieme in un’unica urna accanto alle ceneri della madre.

UE-Mercosur, 145 eurodeputati sfidano von der Leyen: mozione per fermare l’accordo

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145 eurodeputati di diversi gruppi (PPE, S&D, RE e sostenitori di Verdi/Sinistra) hanno presentato una mozione che chiede di rinviare alla Corte di giustizia dell’UE il via libera all’accordo UE-Mercosur – trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e quattro Paesi dell’America del Sud (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) – per verifiche di compatibilità con i trattati. I firmatari temono che la scissione in un partenariato (EMPA) e un accordo interinale (ITA) violi l’articolo 218 e altri articoli del TFUE, e contestano il meccanismo di riequilibrio. La mozione potrebbe essere votata in plenaria a fine novembre: se approvata, bloccherebbe temporaneamente l’intesa e rappresenta un nuovo duro fronte politico per la presidente von der Leyen.

La mozione contesta aspetti fondamentali dell’accordo negoziato dalla Commissione. Il primo punto di frizione riguarda la decisione di scindere l’intesa originaria in due strumenti giuridici distinti: l’EU-Mercosur Partnership Agreement (EMPA), un accordo misto che richiede la ratifica unanime del Consiglio, il consenso del Parlamento Europeo e l’approvazione di tutti i 27 parlamenti nazionali, e l’Interim Trade Agreement (ITA), che ricade invece nella competenza esclusiva dell’UE e necessita solo della maggioranza qualificata in Consiglio e del voto favorevole dell’Europarlamento. I deputati sostengono che questa separazione possa essere incompatibile con l’articolo 218 del TFUE, violando il principio di attribuzione delle competenze, l’equilibrio istituzionale e la leale cooperazione sanciti dai Trattati. In particolare, si contesterebbero le direttive di negoziato del 1999 e le conclusioni del Consiglio del 2018, che prevedevano esplicitamente un Accordo di Associazione di natura mista. Questa manovra, secondo i firmatari, escluderebbe di fatto i parlamenti nazionali dal poter esprimere il loro legittimo voto sull’ITA, privandoli di un potere di veto che avrebbero invece esercitato sull’accordo unico.

Un altro nodo cruciale sollevato dalla mozione è il cosiddetto “meccanismo di riequilibrio” (rebalancing mechanism), previsto dal Capitolo 21 dell’ITA. Questa clausola consentirebbe a una parte di richiedere compensazioni se una misura dell’altra parte – anche se perfettamente legale e non in violazione dell’accordo – annullasse o compromettesse sostanzialmente i benefici attesi dall’intesa, con un impatto negativo sul commercio. Il timore è che i paesi Mercosur possano utilizzare questo strumento per fare pressioni contro future normative UE in materia di clima, ambiente, sicurezza alimentare o divieti di pesticidi, minacciando costose richieste di risarcimento. Il meccanismo è ritenuto più ampio e potenzialmente più invasivo di clausole simili presenti in altri accordi commerciali o nell’OMC. Infine, i deputati esprimono forti preoccupazioni riguardo all’indebolimento del principio di precauzione, pilastro della legislazione europea in materia di salute pubblica, protezione dei consumatori e ambiente. Sia il capitolo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS) che quello sul Commercio e Sviluppo Sostenibile (TSD) contengono, a loro avviso, clausole che limitano l’applicazione di questo principio.

Il via libera all’accordo con il Mercosur era stato dato dalla Commissione lo scorso settembre. Siglato nel dicembre 2024 dopo 25 anni di negoziati, costituisce il più ampio trattato commerciale mai stretto dall’Unione. Esso prevede di eliminare i dazi sulla quasi totalità delle merci, interessando 700 milioni di consumatori, ed è stato sin da subito contestato per i possibili danni sul settore agricolo. Secondo l’UE, le esportazioni comunitarie verso i Paesi sudamericani aumenterebbero del 39%, con un incremento di 49 miliardi di euro, e nascerebbero 440mila nuovi posti di lavoro. L’accordo intende facilitare la partecipazione delle aziende europee negli appalti dei Paesi sudamericani, rendere più solide le catene di approvvigionamento per le materie prime critiche, ed eliminare i dazi sulla maggior parte dei beni industriali e su quelli agricoli.

Dopo il caso Pfizergate, a fine settembre Ursula von der Leyen è stata nuovamente coinvolta in una vicenda che solleva dubbi sulla trasparenza dell’UE proprio in relazione al Mercosur. L’Ombudsman europeo ha infatti aperto un’analisi sulla sparizione di un messaggio inviato da Emmanuel Macron nel gennaio 2024, relativo all’accordo commerciale. Il testo, intercettato da Politico, conteneva le preoccupazioni francesi sull’impatto dell’intesa per gli agricoltori, ma è stato cancellato dai dispositivi della presidente della Commissione. Bruxelles ha affermato che sui telefoni di von der Leyen era attiva la funzione di autodistruzione dei messaggi tramite Signal e che il contenuto non presentava rilevanza amministrativa o legale tale da richiederne l’archiviazione.

Apple si prepara a dire addio al CEO Tim Cook

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apple hong kong

Apple potrebbe trovarsi alle soglie di una rivoluzione copernicana: secondo indiscrezioni, l’azienda starebbe intensificando i preparativi per la successione al vertice, ipotizzando l’uscita di scena del CEO Tim Cook già entro il prossimo anno. Essendo da oltre 14 anni alla guida della Big Tech, Cook ha trasformato l’impresa, allontanandosi dalla visione product-driven di Steve Jobs per portarla verso un modello di business fortemente diversificato e orientato ai servizi, consolidando ricavi e margini, ma anche ridefinendo l’identità strategica dell’azienda. 

A rilanciare l’indiscrezione è stato il Financial Times, secondo cui il consiglio di amministrazione starebbe valutando un ritiro del dirigente “il prima possibile”. Un’accelerazione che non sembrerebbe però legata a problemi di performance – il lancio dell’iPhone 17 fa presagire un Natale più che positivo per casa Cupertino –, bensì a una necessità strategica: dotarsi di una leadership capace di affrontare le nuove sfide globali, dall’intensificarsi della concorrenza alle tensioni nella catena del valore, passando ovviamente dall’ascesa dell’intelligenza artificiale.

Volendo essere maliziosi, è proprio l’IA a sembrare l’elemento che ha spinto il CdA a stringere i tempi su di un passaggio di testimone che, con ogni probabilità, era già discusso da tempo. Apple è arrivata in ritardo nella corsa commerciale alla nuova generazione di intelligenze artificiali, una carenza che Cook ha cercato di contestualizzare sostenendo che l’azienda stesse seguendo percorsi di ricerca e sviluppo più ponderati, perseguendo un’ipotetica “Apple Intelligence”. Presentata il 10 giugno al Worldwide Developers Conference 2024, la Apple Intelligence avrebbe dovuto accompagnare il lancio dei nuovi prodotti del brand, tuttavia la sua reale implementazione si è rivelata graduale, parziale e, per molti, deludente.

Non solo l’arrivo dell’IA sui dispositivi Apple non ha generato quel genere di rivoluzione che il pubblico si aspetta ormai dal marchio, ma l’azienda è finita anzi con l’essere messa sotto accusa in tribunale per presunte pratiche pubblicitarie ingannevoli, venendo additata per aver promesso servizi non ancora maturi, né disponibili nei tempi comunicati. A complicare il quadro c’è il fatto che la Big Tech si sta preparando a lanciare una nuova versione della sua assistente vocale, Siri, tuttavia, secondo indiscrezioni raccolte da Bloomberg, questa non verrà alimentata dai sistemi di intelligenza artificiale autonomi, ma da Gemini, servizio prodotto e gestito da Google, storico rivale di Apple.

Il nome più accreditato per la successione di Cook è quello di John Ternus, vicepresidente anziano e responsabile dell’ingegneria hardware, in Apple sin dal lontano 2001. Non esattamente una ventata d’aria fresca, dunque, ma comunque un cambio significativo, denota un possibile passaggio da un CEO fortemente orientato ai risultati finanziari a una figura con un profilo più tecnico e ingegneristico, suggerendo il desiderio di voler far tornare il prodotto al centro delle prospettive manageriali. 

Il Bangladesh condanna a morte l’ex premier

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L’ex prima ministra del Bangladesh Sheikh Hasina è stata condannata a morte. La sentenza è arrivata oggi e segue un processo durato mesi, che l’ha giudicata colpevole di crimini contro l’umanità. Hasina è stata condannata per avere represso violentemente le proteste degli studenti dell’anno scorso, nelle quali sono morte circa 1.400 persone. In questo momento, Hasina si trova in esilio in India, dove si è rifugiata dopo le proteste dell’anno scorso; la sentenza del Tribunale potrà essere impugnata presso la corte suprema.

La fuga di studenti e laureati costa al Sud Italia oltre 4 miliardi di euro l’anno

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Ogni anno 134mila studenti e 36mila laureati abbandonano il Sud Italia per emigrare altrove: una fuga dai risvolti sociali ed economici, che si traduce in perdite superiori ai 4 miliardi di euro per la macroregione. A definire i contorni dell’emorragia silenziosa — uno dei tanti aspetti della mai sopita questione meridionale — è il rapporto elaborato da Censis e Confcooperative, dal titolo: Sud, la grande fuga. Il fenomeno comporta nell’immediato una perdita di finanziamenti per gli atenei meridionali, a favore delle università del Centro-Nord, dove rette più salate pesano sulle famiglie degli studenti. A ciò si aggiunge la scelta dell’approdo lavorativo, che porta giovani ad alta qualificazione, formati con risorse meridionali, a restituire altrove quanto appreso.

«C’è un treno che parte dal Mezzogiorno ogni giorno. È carico di sogni, talenti, futuro, ma non torna mai indietro. Un trasferimento di ricchezza che risale dal Sud prendendo la strada del Nord», dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, definendo la fuga di studenti come «una perdita sociale, economica, demografica, culturale. Un depauperamento silenzioso di risorse che svuota interi territori. Un pezzo della futura classe dirigente che se ne va, lasciando dietro di sé interrogativi sul destino del Mezzogiorno. Una fuga che al Sud costa oltre 4 miliardi». Censis e Confcooperative sviscerano il calcolo all’interno dell’ultimo rapporto, partendo dalla fuga degli studenti universitari: nel 2022, più di 134mila ragazzi si sono spostati dal Mezzogiorno verso gli atenei del Centro-Nord. Appena 10mila studenti hanno intrapreso il percorso inverno, per un saldo negativo di 124mila unità. Così, in un solo anno, le università meridionali hanno perso 145,4 milioni di euro di tasse, a vantaggio di quelle centro-settentrionali che, a causa di rette mediamente superiori, hanno visto entrare nelle proprie casse 256,1 milioni.

Sempre nel 2022, si legge nel rapporto Censis-Confcooperative, «23mila laureati al Sud hanno scelto le regioni centro-settentrionali come approdo lavorativo. Nel 2024, altri 13mila hanno varcato i confini nazionali. In totale, 36mila giovani ad alta qualificazione, con risorse meridionali, valorizzano le proprie competenze lontano dai luoghi che hanno investito nel loro futuro». Elaborando dati Istat, Ocse e Svimez, Censis ha stimato che la spesa sostenuta dallo Stato per l’intero ciclo di istruzione di una persona ammonti a 112mila euro. La cifra, moltiplicata per i 36mila laureati emigrati, restituisce una perdita di valore pari a 4,1 miliardi di euro: «soldi investiti dal Sud per formare una classe dirigente che poi sceglie di restituire altrove il proprio know how».

Quello economico non è l’unico risvolto della fuga di cervelli, che costa anche in termini sociali, tra mancato ricambio generazionale della popolazione, perdita di potenzialità ed energie, spopolamento delle aree interne. La fuga, che da un punto di vista etimologico veicola un’azione legata all’evitare un danno o un pericolo, è spesso un’azione sofferta per gli stessi studenti e laureati, che per avere qualche chance lavorativa in più abbandonano i propri affetti in misura estremamente maggiore rispetto ai propri coetanei del Centro e Nord Italia. Si trovano a pagare il prezzo di scelte politiche (ultima l’autonomia differenziata) che al posto di risolvere la questione meridionale e costruire un Paese a un’unica velocità, con uno sviluppo diffuso, hanno restituito due o tre tronconi separati tra loro: da un lato i servizi per i cittadini e le industrie, dall’altro deprivazione sociale, ultimamente scimmiottata e messa in scena come experience dagli speculatori della turistificazione.

Affari e politica, la Cassazione conferma l’egemonia della ‘Ndrangheta in Emilia

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La Corte di Cassazione ha ufficialmente chiuso l’importante processo “Grimilde”, confermando l’egemonia della cosca ‘ndranghetista Grande Aracri a Brescello, in Emilia-Romagna. Dichiarato inammissibile il ricorso di Francesco Grande Aracri, condannato a 19 anni e 6 mesi e inasprito a 24 anni in appello nel 2024, riconosciuto come vertice del sodalizio. La Corte ha ritenuto provato, con un «imponente quadro probatorio», il radicamento della famiglia nel tessuto socio-politico ed economico emiliano: appalti affidati a società di comodo, frodi fiscali, riciclaggio e relazioni con amministratori locali che portarono allo scioglimento del consiglio comunale nel 2015.

Nel respingere i motivi di appello della difesa, gli ermellini hanno ribadito la differenza chiave tra una comune associazione a delinquere – motivata dal profitto – e un’organizzazione mafiosa, che usa il reato come mezzo per imporre controllo sociale, consolidare potere e trarre vantaggi economici parassitari. È proprio la forza intimidatoria, evidenzia la pronuncia della Suprema Corte, che permette l’assoggettamento del territorio. Questo modello operativo, già emerso in altri processi come Edilpiovra e Aemilia, si ritrova pienamente anche nel contesto emiliano: la Cassazione parla di un corpus probatorio «imponente» che individua l’attività del gruppo fin dai primi anni Duemila, con Francesco Grande Aracri a rappresentare il fulcro di una rete di imprese, prestanome e influenze politico-amministrative capaci di profonde infiltrazioni nel tessuto locale. A lui vengono ricondotte iniziative economiche e immobiliari nel Reggiano, appalti ottenuti tramite canali privilegiati, la realizzazione del quartiere “Cutrello” e l’ingresso in locali simbolici come la discoteca Italghisa, ritenuta luogo di incontri e affari. Il quadro, arricchito da false fatturazioni, società cartiere e meccanismi di riciclaggio, ha dipinto una criminalità moderna e insidiosa, meno appariscente ma molto penetrante.

L’infiltrazione era tale da aver provocato lo scioglimento del Comune di Brescello nel 2015. Coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, “Grimilde” era nata da un’operazione effettuata il 25 giugno 2019, con 16 arresti eseguiti dalla Polizia ai danni degli uomini della cellula dei Grande Aracri, attiva nei territori di Brescello, Parma e Piacenza. Da lì si era dipanata una lunga vicenda giudiziaria che aveva portato la stessa Cassazione ad attestare, nel 2023, l’egida della famiglia Grande Aracri in Emilia come struttura autonoma dalla Calabria, potendo contare su importanti radicamenti in tutta la provincia reggiana. La Suprema Corte aveva pronunciato diciotto condanne divenute definitive, mandando sei imputati ad affrontare un nuovo processo d’Appello.

Un capitolo rilevante del processo ha riguardato l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza ed ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane, Giuseppe Caruso, per il quale era stata confermata una pena a 12 anni e 2 mesi di carcere: 8 anni e 2 mesi per mafia – era stata ufficialmente attestata la sua appartenenza alla cosca dei Grande Aracri –, più 4 anni per un’ulteriore truffa all’Agea. L’uomo era stato inoltre condannato a risarcire il comune di Piacenza con un milione di euro. Ai tempi, Caruso era membro di Fratelli D’Italia, ma il partito provvide subito ad espellerlo. Insieme a lui era alla sbarra anche il fratello Albino Caruso, condannato a sei anni e dieci mesi di carcere per associazione mafiosa.

Con “Grimilde” si è dunque pervenuti alla piena conferma della pervasività con cui la ‘ndrangheta si è insediata nel contesto politico, economico e sociale dell’Emilia-Romagna, già descritta in maniera perentoria negli anni precedenti dalle risultanze giudiziarie del Maxiprocesso Aemilia, in cui piovvero ingenti condanne e si comprovò l’«articolato e differenziato programma associativo» di un’organizzazione dotata di propri uomini e mezzi, autonoma rispetto alla “cosca madre” calabrese.

Maltempo al centro-Nord: due dispersi in Friuli, esonda il Torre

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La settimana si apre con nuove allerte gialle per maltempo in sei regioni del Centro-Nord: Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Toscana e Umbria. Nel Goriziano una frana ha investito un’abitazione a Brazzano di Cormons: salvata una persona, si cercano due dispersi. I vigili del fuoco stanno intervenendo con natanti leggeri e l’elicottero del reparto volo di Venezia a Versa, nel Goriziano: a seguito dell’esondazione del fiume Torre, alcune persone si sono rifugiate sui tetti delle abitazioni. Sono in corso le operazioni di soccorso. In Toscana è attiva una linea temporalesca in varie province. In Liguria migliora la situazione, ma Genova resta vulnerabile.

L’intervista completa a Sergej Lavrov che il Corriere ha censurato: ecco il testo

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Nei giorni scorsi, il ministero degli Esteri russo ha accusato il Corriere della Sera di aver rifiutato di pubblicare un’intervista scritta, concessa al quotidiano da Sergej Lavrov. Le risposte erano già state inviate, ma la redazione ha bloccato la pubblicazione. Mosca definisce il fatto «una palese censura», mentre il Corriere sostiene che le risposte contenevano affermazioni discutibili e propagandistiche e che l’assenza di contraddittorio non corrisponde ai criteri dell’intervista giornalistica. Il punto critico riguarda, però, la coerenza del metodo. La stessa modalità, con domande concordate e nessun confronto diretto, è utilizzata di frequente quando a parlare sono leader occidentali. Negli ultimi anni, si è diffuso un formato ibrido in cui più testate raccolgono risposte comuni da un politico e le pubblicano come “intervista”, senza che la procedura venga considerata un ostacolo. Nel caso più recente, Ursula von der Leyen ha imposto un modello ancora più rigido, con domande anticipate e risposte solo scritte, senza interazione con i giornalisti, spingendo alcune testate a pubblicarle come intervista e altre, come El País, a rinunciare. Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’intervista al ministro Sergej Lavrov.

Si dice che il nuovo incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump a Budapest non abbia avuto luogo perché persino l’amministrazione americana si è resa conto della vostra mancanza di disponibilità a negoziare sulla questione ucraina. Cosa è andato storto dopo il vertice di Anchorage che aveva fatto sperare nell’avvio di un vero processo di pace? Perché la Russia rimane fedele alle richieste formulate da Vladimir Putin nel giugno 2024 e su quali temi potreste essere disposti a un compromesso?

Gli accordi di Anchorage rappresentano una tappa importante nel percorso verso una pace duratura in Ucraina, attraverso il superamento delle conseguenze del cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama. Essi si basano sulla situazione creatasi e sono strettamente in linea con le condizioni per una risoluzione equa e sostenibile della crisi ucraina, enunciate dal Presidente Vladimir Putin nel giugno 2024. Abbiamo ritenuto che tali condizioni siano state ascoltate e comprese, anche pubblicamente, dall’amministrazione di Donald Trump, soprattutto per quanto riguarda l’inammissibilità dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO che creerebbe minacce militari strategiche alla Russia, proprio ai suoi confini. Washington ha inoltre riconosciuto apertamente che non sarà possibile ignorare la questione territoriale alla luce dei referendum svoltisi in cinque regioni storiche del nostro Paese, i cui abitanti si sono espressi in maniera inequivocabile a favore dell’autodeterminazione rispetto al regime di Kiev che li aveva definiti “subumani”, “esseri” e “terroristi” e della riunificazione con la Russia. Proprio intorno al tema della sicurezza e delle realtà territoriali è stata costruita la concezione americana, che una settimana prima del vertice in Alaska è stata portata a Mosca, su incarico del Presidente degli Stati Uniti, dal suo rappresentante speciale Steve Whitcoff e che, come ha comunicato il Presidente Vladimir Putin al Presidente Trump ad Anchorage, abbiamo accettato di assumere come base, proponendo al contempo un passo concreto che aprisse la strada alla sua realizzazione pratica. Il leader americano ha risposto che avrebbe dovuto consultarsi, ma neanche dopo il suo incontro con gli alleati il giorno successivo a Washington, abbiamo ricevuto alcuna reazione alla nostra risposta positiva alle proposte menzionate, presentate a Mosca da Steve Whitcoff prima del vertice in Alaska. Nemmeno durante il mio incontro con il Segretario di Stato Marco Rubio a settembre a New York ho avuto alcuna reazione, quando ricordai che eravamo ancora in attesa di un riscontro. Per aiutare i colleghi americani a decidere in merito alla loro stessa idea, abbiamo messo per iscritto in via non ufficiale gli accordi di Anchorage e li abbiamo trasmessi a Washington. Pochi giorni dopo, su richiesta di Donald Trump, ha avuto luogo una sua conversazione telefonica con Vladimir Putin, durante la quale si è convenuto di organizzare un nuovo incontro a Budapest, da preparare accuratamente in anticipo. Non c’era dubbio che si sarebbe parlato degli accordi di Anchorage. Dopo un paio di giorni ho avuto una conversazione telefonica con Marco Rubio, dopo di che Washington, definendo la conversazione costruttiva (era stata davvero seria e utile), ha comunicato che a seguito di tale colloquio, non era necessario un incontro personale tra il Segretario di Stato e il Ministro della Federazione Russa in preparazione del contatto al vertice. Da dove e da chi siano giunti i rapporti riservati che hanno spinto il leader americano a rinviare o forse cancellare il vertice di Budapest, non mi è dato saperlo. Ma vi ho esposto la sequenza dei fatti in modo preciso, assumendomene la totale responsabilità. Non intendo invece rispondere alle evidenti falsità sulla “mancata disponibilità della Russia a negoziare” e sul “fallimento” dei risultati di Anchorage. Rivolgetevi al Financial Times che, a quanto mi risulta, ha diffuso questa versione mendace, distorcendo la sostanza e la sequenza degli eventi per attribuire tutta la responsabilità a Mosca e allontanare Donald Trump dalla strada da lui stesso proposta, ovvero quella di una pace stabile e duratura, anziché quella di un cessate il fuoco immediato, come invece lo spingono a fare i padroni europei di Zelensky, ossessionati dal desiderio di ottenere una tregua e di rifornire il regime nazista di armi per continuare la guerra contro la Russia. Se la BBC è arrivata a falsificare un video del discorso di Trump, mettendogli in bocca l’appello ad assaltare il Campidoglio, a maggior ragione al Financial Times costerà poco mentire, come si dice da noi. Siamo ancora pronti a tenere a Budapest il secondo vertice russo-americano, purché si basi realmente sui risultati accuratamente elaborati dell’Alaska. La data, tuttavia, non è stata ancora fissata. I contatti russo-americani continuano.

Le forze armate della Federazione Russa controllano attualmente un territorio inferiore rispetto a quello del 2022, dopo le prime settimane della cosiddetta operazione militare speciale. Se state davvero vincendo, perché non riuscite a sferrare il colpo decisivo? Potete anche spiegare il motivo per cui non fornite informazioni ufficiali sulle vostre perdite?

L’operazione militare speciale (OMS) non è una guerra per il territorio, ma un’operazione per salvare la vita di milioni di persone che vivono da secoli su queste terre e che la giunta di Kiev vuole sterminare – giuridicamente, vietandone la storia, la lingua, la cultura, e fisicamente, con l’aiuto delle armi occidentali. Un altro obiettivo fondamentale dell’Operazione militare speciale è quello di garantire in modo affidabile la sicurezza della Russia, sventando i piani della NATO e della UE volti a creare ai nostri confini occidentali uno Stato fantoccio ostile, strutturato nella legislazione e nella pratica sull’ideologia nazista. Non è la prima volta che fermiamo gli aggressori fascisti e nazisti: è stato così durante la Seconda guerra mondiale e così sarà anche questa volta A differenza degli occidentali, che hanno raso al suolo interi quartieri cittadini, noi proteggiamo le persone, sia civili che militari. Le nostre forze armate agiscono con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche. Di norma, non si parla pubblicamente delle perdite sul campo di battaglia. Dirò solo che quest’anno, nell’ambito del rimpatrio dei militari caduti, la parte russa ha consegnato oltre novemila salme di soldati delle Forze armate ucraine. Dall’Ucraina abbiamo ricevuto 143 corpi dei nostri combattenti. Traete voi stessi le conclusioni. 

La Sua apparizione al vertice di Anchorage con una felpa con la scritta “URSS” ha sollevato molte domande. Alcuni vi hanno visto la conferma del Suo desiderio di ricreare, se non addirittura ripristinare, l’ex spazio sovietico (Ucraina, Moldavia, Georgia, Paesi baltici). Si trattava di un messaggio in codice o semplicemente di uno scherzo?

Sono orgoglioso del mio Paese, in cui sono nato e cresciuto, ho ricevuto un’istruzione di livello, ho iniziato e continuo la mia carriera diplomatica. La Russia, come è noto, è l’erede dell’URSS, e nel complesso il nostro Paese vanta una civiltà millenaria. Il governo popolare della veče di Novgorod risale a molto prima che in Occidente si iniziasse a giocare alla democrazia. A proposito, ho anche una maglietta con lo stemma dell’Impero russo, ma questo non significa che vogliamo riportarlo in vita. Uno dei nostri più grandi patrimoni, di cui andiamo giustamente fieri, è la continuità dello sviluppo e del rafforzamento dello Stato nel corso della sua grande storia di unificazione e coesione del popolo russo e di tutti gli altri popoli del Paese. Su questo tema si è soffermato di recente il Presidente Vladimir Putin durante le celebrazioni della Giornata dell’Unità Nazionale. Quindi non cercate segnali politici dove non ci sono. Forse in Occidente il sentimento patriottico e la lealtà verso la patria stanno scomparendo, ma per noi sono parte del nostro codice genetico.

Se uno degli obiettivi dell’operazione militare speciale era riportare l’Ucraina nella sfera d’influenza della Russia, come potrebbe sembrare, ad esempio, dalle richieste di determinare la quantità dei suoi armamenti, non ritiene che l’attuale conflitto armato, qualunque sia il suo esito, conferisca a Kiev un ruolo e un’identità internazionali ben definiti e sempre più distanti da Mosca?

Gli obiettivi dell’Operazione Militare Speciale sono stati definiti dal presidente Putin nel 2022 e sono ancora attuali. Non si tratta di sfere di influenza, ma del ritorno dell’Ucraina a uno status neutrale, non allineato e non nucleare, del rigoroso rispetto dei diritti umani e di tutti i diritti delle minoranze russe e di altre minoranze nazionali: è proprio così che questi impegni sono stati sanciti nella Dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina del 1990 e nella sua Costituzione, ed è proprio tenendo conto di questi impegni dichiarati che la Russia ha riconosciuto l’indipendenza dello Stato ucraino. Stiamo ottenendo e otterremo il ritorno dell’Ucraina alle sane e stabili origini della sua statualità, il che presuppone il rifiuto di concedere servilmente il suo territorio allo sfruttamento militare da parte della NATO (e dell’Unione Europea, che si sta rapidamente trasformando in un blocco militare non meno aggressivo), la purificazione dall’ideologia nazista, messa fuori legge a Norimberga, il ripristino dei pieni diritti dei russi, degli ungheresi e di tutte le altre minoranze nazionali. È significativo che le élite di Bruxelles, trascinando il regime di Kiev nella UE, tacciano sulla palese discriminazione dei “popoli non autoctoni” (così Kiev definisce con disprezzo i russi che vivono da secoli in Ucraina) e allo stesso tempo esaltino la giunta di Zelensky come difensore dei “valori europei”. È un’ulteriore conferma del fatto che il nazismo sta rialzando la testa in Europa. C’è su cosa riflettere, soprattutto alla luce del fatto che all’ONU, Germania e Italia, insieme al Giappone, hanno recentemente iniziato a votare contro la risoluzione annuale dell’Assemblea Generale sull’inammissibilità della glorificazione del nazismo. Gli occidentali non nascondono che di fatto stanno conducendo per procura, tramite gli ucraini, una guerra contro la Russia, guerra che non finirà nemmeno “dopo l’attuale crisi”. Ne hanno parlato più volte il segretario generale della NATO Mark Rutte, il primo ministro britannico Keir Starmer, i burocrati di Bruxelles Ursula von der Leyen e Kaya Callas, l’inviato speciale del presidente degli Stati Uniti per l’Ucraina Keith Kellogg. È evidente che la determinazione della Russia a garantire la propria sicurezza di fronte alle minacce create dall’Occidente con l’aiuto del regime da esso controllato, è legittima e giustificata.

Anche gli Stati Uniti inviano armi all’Ucraina e recentemente hanno persino discusso della possibilità di fornire a Kiev missili da crociera “Tomahawk”. Perché la vostra posizione e la vostra valutazione della politica degli Stati Uniti e dell’Europa sono diverse?

La maggior parte delle capitali europee costituisce attualmente il nucleo della cosiddetta “Coalizione dei volenterosi” che desidera solo una cosa: che le ostilità in Ucraina durino il più a lungo possibile, “fino all’ultimo ucraino”. A quanto pare, non hanno altro modo per distogliere l’attenzione del loro elettorato dai problemi socioeconomici interni che si sono drasticamente aggravati. Con i soldi dei contribuenti europei finanziano il regime terroristico di Kiev, fornendo armi con cui vengono uccisi sistematicamente civili delle regioni russe e ucraini che vogliono fuggire dalla guerra e dai carnefici nazisti. Sabotano qualsiasi tentativo di pacificazione e rifiutano i contatti diretti con Mosca. Introducono sempre nuove “sanzioni” che, come un boomerang, colpiscono ancora più duramente le loro economie. Preparano apertamente una nuova grande guerra europea contro la Russia. Inducono Washington a non accettare una soluzione diplomatica onesta e giusta. Il loro obiettivo principale è quello di minare la posizione dell’attuale amministrazione del Presidente degli Stati Uniti, che inizialmente era favorevole al dialogo, comprendeva la posizione della parte russa e mostrava la volontà di cercare una soluzione pacifica e duratura. Donald Trump ha più volte riconosciuto pubblicamente che una delle cause delle iniziative della Russia è stata l’espansione della NATO, l’avvicinamento delle infrastrutture dell’alleanza ai confini del nostro Paese, vale a dire esattamente ciò da cui il Presidente Putin e la Russia hanno messo in guardia negli ultimi vent’anni. Confidiamo che a Washington prevalgano il buon senso e l’adesione a questa posizione di principio e che si astengano da atti che potrebbero portare il conflitto a un nuovo livello di escalation. Detto ciò, le nostre forze armate non fanno distinzioni sulla provenienza delle armi fornite alle forze armate ucraine, che siano europee o statunitensi. Qualsiasi obiettivo militare viene immediatamente distrutto.

Lei è stato colui che ha premuto il “pulsante di reset” con Hillary Clinton, anche se poi le cose sono andate diversamente. È possibile un riavvio delle relazioni con l’Europa? Potrebbe la sicurezza comune costituire un terreno fertile per migliorare le relazioni attuali?

La conflittualità a cui ha portato la politica sconsiderata e senza prospettive delle élite europee non è stata una scelta della Russia. L’attuale situazione non risponde agli interessi dei nostri popoli. Sarebbe auspicabile che i governi europei, la maggior parte dei quali attua una politica ferocemente antirussa, prendessero coscienza della pericolosità di questa rotta distruttiva. L’Europa ha già combattuto sotto le bandiere di Napoleone e, nel secolo scorso, sotto gli stendardi e i vessilli nazisti di Hitler. Alcuni leader europei sembrano avere la memoria corta. Quando questo furore russofobo – non si può chiamarlo altrimenti– sarà passato, saremo aperti ai contatti, ad ascoltare come i nostri ex partner intendano comportarsi nei nostri confronti in futuro. Solo allora decideremo se ci saranno ancora prospettive per una collaborazione onesta. Il sistema di sicurezza euro-atlantico esistente fino al 2022 è stato completamente screditato e smantellato dagli sforzi degli stessi occidentali. A questo proposito, il presidente Vladimir Putin ha avanzato l’iniziativa di creare una nuova architettura di sicurezza equa e indivisibile in Eurasia. Essa è aperta a tutti gli Stati del continente, compresa la sua parte europea, ma occorrerà comportarsi in modo rispettoso, senza arroganza neocoloniale, sulla base dei principi di uguaglianza, considerazione reciproca ed equilibrio degli interessi. 

Il conflitto armato in Ucraina e il conseguente isolamento internazionale della Russia vi hanno probabilmente impedito di agire in modo più efficace in altre aree di crisi, come ad esempio in Medio Oriente?

Se l’Occidente storico ha deciso di isolarsi da qualcuno, allora si tratta di autoisolamento. E anche in questo caso le fila non sono così compatte: quest’anno Vladimir Putin ha incontrato i leader di Stati Uniti, Ungheria, Slovacchia e Serbia. È anche chiaro che il mondo moderno non si riduce alla minoranza occidentale. Quei tempi sono finiti con l’avvento della multipolarità. Le nostre relazioni con i paesi del Sud e dell’Est del mondo, che rappresentano oltre l’85% della popolazione mondiale, continuano ad ampliarsi. A settembre si è svolta la visita di Stato del Presidente russo in Cina, solo negli ultimi mesi Vladimir Putin ha partecipato ai vertici di SCO, BRICS, CSI, Russia-Asia centrale, nostre delegazioni governative ad alto livello hanno partecipato ai vertici di APEC, ASEAN e ora si stanno preparando per il vertice del G20. Si tengono regolarmente vertici e incontri ministeriali Russia-Africa, Russia-Consiglio di cooperazione degli Stati arabi del Golfo Persico. I paesi della maggioranza mondiale si fanno guidare dai propri interessi nazionali fondamentali e non dalle indicazioni delle ex metropoli coloniali. I nostri amici arabi apprezzano il contributo costruttivo della Russia agli sforzi volti a risolvere i conflitti regionali in Medio Oriente. Le attuali discussioni sulla questione palestinese alle Nazioni Unite confermano la necessità di coinvolgere tutti gli autorevoli attori esterni, altrimenti non si otterrà nulla di duraturo, ma solo cerimonie di facciata. Su molte altre questioni internazionali, le nostre posizioni coincidono o sono molto vicine a quelle dei nostri amici mediorientali, il che favorisce la cooperazione nell’ambito dell’ONU e in altre piattaforme multilaterali.

Non ritiene che nel nuovo ordine mondiale multipolare che Lei promuove e sostiene, la dipendenza economica e militare della Russia dalla Cina sia cresciuta, creando così uno squilibrio nella vostra storica alleanza con Pechino?

Non stiamo “promuovendo” un ordine mondiale multipolare, esso si sta oggettivamente formando, non attraverso la conquista, la schiavitù, l’oppressione e lo sfruttamento, come facevano i colonizzatori costruendo il loro “ordine” (e in seguito il capitalismo), ma attraverso la cooperazione, la considerazione degli interessi reciproci, la distribuzione razionale del lavoro basata sulla combinazione dei vantaggi competitivi comparativi dei paesi partecipanti e delle strutture di integrazione. Per quanto riguarda le relazioni tra Russia e Cina, non si tratta di un’alleanza nel senso tradizionale del termine, ma di una forma di interazione più efficace e avanzata. La nostra cooperazione non ha carattere di blocco e non è diretta contro paesi terzi. Le categorie di “leader” e “subordinato”, tipiche delle alleanze formatesi durante la guerra fredda, qui non sono applicabili. Pertanto, parlare di un qualsiasi “disequilibrio” è inappropriato. I rapporti paritari e autosufficienti tra Mosca e Pechino si basano sulla fiducia e sul sostegno reciproci, nonché su secolari tradizioni di buon vicinato. Siamo fermamente impegnati a rispettare il principio di non ingerenza negli affari interni. La cooperazione commerciale, tecnologica e in materia di investimenti tra Russia e Cina porta benefici pratici concreti a entrambi i Paesi, contribuisce alla crescita stabile e sostenibile delle nostre economie e al miglioramento del benessere dei cittadini. La stretta collaborazione tra le forze armate garantisce un’importante complementarità, aiuta i nostri paesi a difendere i propri interessi nazionali nel campo della sicurezza globale e della stabilità strategica e a contrastare efficacemente le sfide e le minacce nuove e tradizionali.

L’Italia è un Paese “ostile”. Lei stesso lo ha ripetuto più volte, nel novembre 2024, e lo ha persino sottolineato in modo particolare. Tuttavia, negli ultimi mesi, anche sulla questione ucraina, il nostro governo ha dimostrato solidarietà all’amministrazione statunitense, che Vladimir Putin ha definito non un alleato, ma senza dubbio un “partner”. E il recente cambio dell’ambasciatore italiano a Mosca fa supporre che a Roma si desideri un certo avvicinamento. A che punto sono le nostre relazioni bilaterali?

Per la Russia non esistono paesi e popoli ostili, esistono Paesi con governi ostili. In presenza di un tale governo a Roma, le relazioni russo-italiane stanno attraversando la crisi più grave della loro storia postbellica. Ciò non è avvenuto per nostra iniziativa. Ci ha sorpreso la facilità con cui l’Italia, a discapito dei propri interessi nazionali, si è schierata con coloro che hanno scommesso sulla “sconfitta strategica” della Russia. Finora non vediamo alcun cambiamento significativo in questo atteggiamento aggressivo. Roma continua a fornire assistenza a tutto campo ai neonazisti di Kiev. Colpisce anche la volontà di interrompere i legami culturali e i contatti tra le società civili. Le autorità italiane cancellano le esibizioni di eminenti direttori d’orchestra e cantanti lirici russi e da diversi anni non autorizzano lo svolgimento del “Dialogo di Verona”, nato proprio in Italia, dedicato alle questioni della cooperazione eurasiatica. Non sembra affatto un atteggiamento tipico degli italiani, che sono solitamente aperti all’arte e al dialogo tra le persone. Allo stesso tempo, molti dei vostri cittadini cercano di capire le ragioni della tragedia ucraina. Ad esempio, nel libro Il conflitto ucraino visto da un giornalista italiano, del noto pubblicista italiano Eliseo Bertolasi, sono raccolte prove documentarie delle violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità di Kiev. Vi consiglierei di leggere questa pubblicazione. Oggi in Europa non è facile trovare la verità sull’Ucraina. Una cooperazione paritaria e reciprocamente vantaggiosa tra Russia e Italia è nell’interesse dei nostri popoli. Se a Roma saranno disposti a muoversi verso il ripristino del dialogo sulla base del rispetto reciproco e della considerazione degli interessi di entrambe le parti, ce lo facciano sapere, siamo sempre pronti ad ascoltare, ivi compreso il vostro ambasciatore.