204 anni fa, a Mosca, nasceva Fedor Dostoevskij, il più grande scrittore russo mai esistito. Per noi occidentali non è sempre facile comprendere il ruolo e il peso che ebbe Dostoevskij nella società russa e che ha tutt’ora. E non solo nel mondo russo. Dostoevskij, infatti, non fu soltanto uno dei più grandi scrittori mai esistiti. Le sue intuizioni sul funzionamento della psiche umana, l’inconscio, o come lo chiamava lui il sottosuolo, hanno ispirato Freud e Jung. Memorabili i suoi appelli accorati contro la pena di morte, che definisce la più barbara e crudele di tutte le pratiche; e la sua denuncia del sistema carcerario russo è disgraziatamente valida oggi come allora, e non riguarda soltanto il mondo russo.
La filosofia che permea i suoi romanzi, una critica feroce all’utilitarismo e al razionalismo di matrice settecentesca, ha influenzato Nietzsche, Sartre, Camus, e centinaia di filosofi dopo di lui. Per non parlare di ciò che emerge dalle pagine de I fratelli Karamazov, nel capitolo Il grande inquisitore, un ritratto fin troppo veritiero e profetico di come funziona il Potere e di quali meccanismi lo sorreggano.
Le sue opere continuano a essere lette, studiate e discusse non solo per la loro bellezza letteraria, ma perché ci spingono a riflettere su ciò che significa essere uomini. Come affrontiamo il male, dentro e fuori di noi? Quali sono i limiti della nostra libertà? Come possiamo comprendere quella cosa misteriosa che chiamiamo vita? «L’uomo è un mistero e noi dobbiamo svelarlo. Io mi occupo di questo mistero, perché voglio essere un uomo». Se la sua genialità, come filosofo, scrittore, come libero pensatore è fuor di dubbio, la sua vita continua a serbare qualche mistero.

Chiunque legga la biografia di Dostoevskij, infatti, non può fare a meno di pensare: quest’uomo ha vissuto una lunga, interminabile serie di disgrazie. La deportazione in Siberia, la morte della prima moglie e dell’adorata figlioletta e poi ancora l’epilessia, la minaccia di sequestro delle sue proprietà, i debiti di gioco: l’intera esistenza di Dostoevskij fu scandita, scavata dalla sofferenza. Christina Danilovna Alčevskaja lo descrisse così: «Guardando il suo volto sofferente, i suoi bassi, piccoli occhi infossati, le sue rughe profonde, ciascuna delle quali sembrava avesse una sua biografia, si poteva dire con sicurezza che era una persona che aveva molto pensato, molto sofferto, molto sopportato».
Ma facciamo un passo indietro. Quando aveva vent’anni, Dostoevskij fu condannato a morte per essersi ribellato allo zar. È il 22 dicembre del 1849 e in piazza Semënovskaja un gruppo di giovani, accusati di cospirazione e attività sovversive, vengono condotti al patibolo. Tra loro c’è anche Dostoevskij,
A un certo punto viene dato l’ordine di calare i cappucci sul capo dei prigionieri. «Ricordava tutto con insolita chiarezza e diceva che non avrebbe mai dimenticato nulla di quei minuti. […] Gli restavano in tutto cinque minuti di vita, non di più. […] ma in quel momento, diceva lui, niente era più opprimente di un pensiero incessante: E se potessi non morire? E se mi restituissero la vita? Sarebbe infinita! E sarebbe tutta mia! In tal caso, trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, calcolerei ogni minuto con precisione, non getterei più nulla invano!»
Questo è uno dei passi più belli de L’idiota: è il principe Mỳškin a parlare, ma in realtà è Dostoevskij che racconta e rivive quello che provò e sentì quella mattina di dicembre. Dostoevskij non morì sul patibolo: fu graziato per ordine dello zar Nicola, che aveva deciso di punire quel fastidioso gruppetto d’intellettuali e liberi pensatori, inscenando la loro esecuzione e graziandoli poco prima che venissero giustiziati. Soltanto per condannarli poi ai lavori forzati.
Così la mattina di Natale del 1849 ha inizio il viaggio di Dostoevskij per la fortezza di Omsk, nel cuore della Siberia. Quel viaggio sarebbe durato dodici giorni. L’ultima notte la trascorre nella prigione del castello di Toblosk. Il castello ancora oggi ha un fascino cupo; pare un’oscura sentinella che accoglie i visitatori che si spingono fino alla frontiera estrema dell’Europa. Da Toblosk giunge alla colonia penale Omsk, antesignana dei moderni gulag.
Al suo arrivo viene spogliato, privato di qualsiasi effetto personale, e condotto in una minuscola cella. Un tavolaccio è l’unico letto che gli viene concesso.
Di giorno ha il compito come gli altri detenuti di demolire vecchie navi in disuso; la sera viene nuovamente rinchiuso nella baracca. Durante la notte il caldo e l’afa sono insopportabili. La coesistenza forzata è anche peggiore. «Non si restava mai soli, neanche una volta, nemmeno un minuto: sempre sotto scorta; ma al tempo stesso si era sempre soli, senza amici, senza compagni, senza affetti. Non avevo, accanto a me, quasi un solo essere con cui scambiare una parola cordiale. Mi sentivo bandito, tagliato via dal mondo».
La vita non potrebbe essere più dolorosa: il cuore ha perso i suoi palpiti, il cibo non ha sapore, la vista, in quello spazio angusto e soffocante, non serve a nulla; ogni piacere intellettuale e poetico è perduto.
Fu da quell’esperienza che nacque Memoria da una casa di morti, un resoconto della sua prigionia e della crudeltà sadica che gli uomini infliggono ai loro simili e che non può non farci tornare alla mente i nomi di Guantanamo, Abu Ghraib e di Ofer, la prigione israeliana dove i detenuti palestinesi sono sottoposti a torture senza fine. «Nelle prigioni di Israele non sei più un essere umano, ti vogliono trasformare in un insetto», racconta Khatib, un resoconto che pare uscito direttamente dalle pagine di Dostoevskij.

«Adesso non capisco come abbia potuto viverci per dieci anni,» scrisse Dostoevskij al termine della sua condanna. «Fu una sofferenza indicibile, interminabile, perché ogni ora, ogni minuto pesava sulla mia anima come una pietra».
Qui però inizia a porsi le domande: perché l’uomo uccide un proprio simile? Che cosa sono il bene e il male? Da dove nasce e perché nasce il male? Come impedire cioè che i nostri peggiori istinti si trasformino in crudeltà, in sopraffazione e nella disumanizzazione di noi stessi e degli altri? Domande che non hanno soltanto una valenza filosofica ma che riguardano ogni aspetto della nostra vita, politica e sociale in primis.
«Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e non in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in che cosa consiste la vita».
Ma come restare umani? Come mantenere intatta la nostra umanità, quando la violenza e la crudeltà sono parte integrante del sistema-vita? Tra tutte le sue opere ce n’è una in particolare che risponde in modo esaustivo al problema più antico di tutti: come mettere un argine al male.
Sto parlando de I fratelli Karamazov, l’ultimo e mi azzardo a dire il suo più grande capolavoro, un romanzo che ruota attorno a un parricidio, ma che in realtà è un ritratto senza tempo dell’umanità in tutte le sue sfumature e dimensioni.
Nei Fratelli Karamazov c’è il padre che disprezza il figlio e il figlio che disprezza il padre, c’è la giustizia che s’inganna e commette errori, c’è la gelosia, la vendetta, il bene che lotta contra il male in quel campo di battaglia che si chiama il cuore dell’uomo. E poi ci sono momenti intensissimi di sofferenza e di riscatto, e soprattutto ci sono le idee, idee talmente forti e potenti che spingono alla salvezza o alla dannazione.
Dostoevskij, infatti, ci mostra quanto un sogno, un’idea, un amore possano accelerare il destino di un uomo e restituirlo a sé stesso. E infine c’è Dio, il problema Dio. Dio però non è qualcosa di astratto: è il senso e il significato della vita, i perché che la muovono. Tutti i personaggi di Dostoevskij si domandano: cos’è la vita? Per cosa vale la pena vivere? Per cosa voglio vivere?
Ivan Karamazov invece già a vent’anni medita di «mandare in pezzi la coppa della vita». Ivan è un giovane pieno di disperazione, di solitudine e di amarezza. Il dramma di Ivan è il dramma dell’uomo che non sente più nulla, è cinico, indifferente, imperturbabile, somiglia molto all’uomo contemporaneo che è capace di commettere o di assistere imperturbabile a ogni tipo di atrocità senza muovere un dito per fermarla.

Il vero male, sembra dirci Dostoevskij, non nasce tanto dalla crudeltà o dal sadismo ma dall’incapacità di riconoscerlo e condannarlo come tale. Ma a un certo punto, in un momento di agnizione, Ivan confessa al fratello Alesa: «Le foglioline viscose della primavera, il cielo azzurro, ecco quello che amo! Qui non c’è intelligenza, non c’è logica, qui si ama con le viscere, col ventre». Questa è una delle pochissime volte in cui Ivan usa la parola amare. Alesa completa la sua intuizione dicendo: «Penso che tutti debbano amare la vita prima di ogni altra cosa al mondo».
«Amare la vita più del suo significato?» gli domanda Ivan confuso, e nella sua domanda si avverte tutta la perplessità dell’uomo che fino ad allora si è affidato soltanto alla ragione.
«Certamente. Ama la vita più della sua logica solo allora ne capirai il senso».
Le foglioline viscose a primavera, il cielo azzurro sono l’immagine simbolica di una vita che non può essere né spiegata né compresa ma soltanto sentita e vissuta. Quest’affermazione racchiude in pieno l’essenza della poetica dostoevskana e la parabola esistenziale che ha vissuto.
Tutti i personaggi di Dostoevskij sentono con forza. C’è Raskolnikov che vuole a tutti i costi far trionfare la sua idea, anche a costo di sfidare Dio, il mondo e la morale; c’è Mitja Karamazov che insegue senza sé e senza ma l’amore, e non si vergogna dell’intensità del suo sentimento. Altri come Natas’ja Filippovna nell’Idiota o l’uomo del sottosuolo sono guidati da una fortissima voglia di riscatto, di rivalsa, di vendetta perfino. La forza di questi personaggi sta nell’intensità con cui provano l’amore, l’odio, la tristezza, la gioia, il dolore.
Ma è la capacità di sentire e d’immedesimarsi nel dolore altrui, senza il filtro della ragione o della morale, a riscattare questi personaggi, e a redimerli. Il bene non è altro che la capacità di sentire; la crudeltà e la violenza nascono non da idee fuorvianti, o meglio non solo, ma da sistemi di pensiero, ideologie e morali che sacrificano il sentire sull’altare del pensiero. Con Dostoevskij cioè assistiamo a un ribaltamento della morale cartesiana: non più «penso, dunque sono», ma «sento, dunque sono». E anche soltanto per questo meriterebbe di essere letto e riletto all’infinito.













