La Digos ha identificato 36 attivisti ritenuti coinvolti nell’irruzione di venerdì scorso alla sede torinese de La Stampa, dove un gruppo di manifestanti ha messo a soqquadro la redazione. Un’azione dimostrativa durata pochi minuti che ha però innescato immediatamente una reazione politica e mediatica compatta, con toni da emergenza democratica. I denunciati rischiano ora procedimenti penali con più capi d’accusa, mentre l’episodio viene narrato come un attacco alla libertà di stampa, alimentando una narrazione d’emergenza nonostante i danni siano stati limitati a letame lanciato ai cancelli, scritte sui muri e giornali rovesciati in una redazione vuota.
Era in corso lo sciopero generale quando, dal corteo che attraversava il centro di Torino, un blocco di un centinaio di persone si è staccato dirigendosi verso via Lugaro, sede storica de La Stampa. Una volta giunti davanti al complesso, alcuni hanno forzato un ingresso laterale, divelto una telecamera interna e aperto la strada al gruppo. Dentro, in pochi minuti, sono state rovesciate pile di giornali e libri, sparse per i corridoi come a simboleggiare un rifiuto della linea editoriale del quotidiano, accusato dai manifestanti di posizioni filogovernative e di disinformazione sul conflitto in Medio Oriente. Sui muri sono comparse scritte contro la testata e slogan a sostegno della Palestina. La protesta era legata anche all’arresto e all’espulsione dell’imam Mohamed Shahin, voce centrale delle mobilitazioni pro-Palestina, accusato per dichiarazioni politiche e ora a rischio persecuzione in Egitto. Secondo i manifestanti, quotidiani come La Stampa si sono resi complici nel costruire una narrazione mediatica che ha dipinto Shahin come un terrorista, favorendone l’arresto. All’esterno, un piccolo gruppo ha lanciato letame sulla cancellata, gesto plateale e simbolico subito amplificato sui social.
La Digos ha lavorato per tutto il fine settimana incrociando registrazioni interne, materiale di videosorveglianza urbano e filmati circolati online. Da queste fonti sono stati riconosciuti 36 presunti partecipanti, per la maggior parte giovani legati al centro sociale Askatasuna e ai collettivi studenteschi Collettivo universitario autonomo e Kollettivo studentesco autorganizzato. Tra le persone identificate, c’è anche il sedicenne che era stato fermato e ammanettato davanti al liceo Einstein durante gli scontri tra studenti di sinistra e di destra. Le accuse ricostruite finora comprendono danneggiamento aggravato, invasione di edifici e, per alcuni, minacce. La Procura valuta, inoltre, la possibile contestazione dell’associazione per delinquere, ipotesi che segnerebbe un salto di scala giudiziaria. È proprio questa sproporzione fra gesti dimostrativi e ipotetica cornice penalmente pesantissima a far discutere: dalle dichiarazioni del governo alle prese di posizione bipartisan del Parlamento, passando per la stampa mainstream, l’irruzione è stata descritta come un “assalto organizzato” contro un presidio democratico, accostamento che evoca stagioni storiche ben più tragiche del passato, come se ci si trovasse di fronte a una azione paramilitare e al ritorno alle attività eversive.
Nel giro di poche ore, la vicenda è diventata simbolo di un presunto clima di violenza politica crescente, sebbene il bilancio materiale dell’episodio parli di danni limitati, nessun ferito, nessuna arma, nessun tentativo di devastazione sistematica degli uffici. L’amplificazione e l’isteria mediatica sull’irruzione alla redazione del quotidiano torinese rischiano che il dissenso radicale venga equiparato automaticamente alla minaccia terroristica, in un’epoca in cui il confine tra ordine pubblico e gestione del conflitto sociale si assottiglia. È inevitabile chiedersi se la reazione non stia strumentalizzando l’episodio, come già avvenuto per le recenti proteste pro-Palestina, per stringere le maglie del controllo e limitare le manifestazioni. Alla luce del disegno di legge avanzato dalla Lega “Disposizioni per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo, che, adottando la definizione dell’IHRA, mira a vietare manifestazioni in favore della Palestina e a criminalizzare ogni critica al governo di Benjamin Netanyahu, la risposta politica sembra voler chiudere la partita prima ancora che un giudice valuti i fatti, costruendo un precedente che potrebbe pesare sul futuro delle mobilitazioni.








