domenica 21 Dicembre 2025
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La Corte Penale Internazionale ha confermato il mandato di cattura contro Netanyahu

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La Corte penale internazionale ha respinto il ricorso di Israele e ha confermato i mandati di cattura nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, che sono stati emessi il 21 novembre 2024. La Camera d’Appello della CPI ha ritenuto infondate le richieste di Tel Aviv di sospendere l’inchiesta e di neutralizzare gli effetti giuridici delle accuse. Il procedimento riguarda crimini di guerra e crimini contro l’umanità legati all’offensiva israeliana contro Hamas dopo il 7 ottobre 2023. Le accuse della CPI comprendono anche l’uso della fame come strumento di guerra e attacchi deliberati contro la popolazione civile.

Inizialmente la CPI aveva emesso un mandato di arresto anche nei confronti del leader di Hamas Ibrahim al-Masri, ma lo ha successivamente ritirato in seguito a segnalazioni attendibili sulla sua morte. In risposta ai mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant, il presidente USA Donald Trump ha imposto sanzioni alla CPI, congelando beni e risorse di suoi funzionari e complicando l’operatività della Corte, con alcune aziende che hanno bloccato servizi essenziali alla stessa CPI. La pronuncia dell’Aia di lunedì rappresenta un passaggio rilevante sul piano giuridico e diplomatico, con possibili ripercussioni nei rapporti tra Israele, i Paesi firmatari dello Statuto di Roma e la comunità internazionale. Secondo la Corte, l’indagine resta valida anche per gli eventi successivi all’inizio del conflitto e non può essere interrotta sulla base delle argomentazioni presentate dallo Stato israeliano. I giudici hanno stabilito che la Procura è legittimata a proseguire il lavoro investigativo, nonostante Israele non riconosca la giurisdizione della CPI. I mandati di cattura si fondano sull’ipotesi che alcune scelte militari e politiche abbiano avuto un impatto diretto sulla popolazione civile di Gaza, in particolare per quanto riguarda l’accesso a beni essenziali e la gestione delle operazioni belliche. Secondo le autorità sanitarie locali, i morti palestinesi sarebbero almeno 67.000, ma uno studio del Max Planck Institute for Demographic Research stima un bilancio fino a 110.000 vittime. La Corte ha inoltre chiarito che il principio di complementarità, invocato da Israele, non è sufficiente a giustificare la sospensione automatica dell’inchiesta in assenza di procedimenti nazionali equivalenti e verificabili.

Le reazioni ufficiali di Israele non si sono fatte attendere. Con un post su X, il Ministero degli Esteri israeliano ha rigettato con forza il quadro giuridico stabilito dalla Corte: lo stato ebraico, leggiamo nel comunicato, «respinge la decisione della Camera d’Appello della CPI, adottata per stretta maggioranza, che nega a Israele il diritto di ricevere un preavviso, come richiesto dal principio di complementarità, in particolare per uno Stato democratico con un sistema giudiziario indipendente e solido». Il governo di Tel Aviv parla di «politicizzazione della Corte» e di un «mancato rispetto dei diritti sovrani degli Stati non membri», bollando la sentenza come espressione di un processo che, a suo avviso, traveste la politica da diritto internazionale. Secondo Israele, la decisione rifletterebbe un’evidente mancanza di equilibrio e una visione distorta della realtà del conflitto, respingendo le accuse di crimini di guerra e riaffermando la legittimità delle sue azioni militari contro Hamas.

Nel più ampio teatro delle relazioni internazionali, la conferma della CPI rappresenta un punto di svolta potenzialmente epocale. È una sfida aperta a un ordine internazionale che da decenni fatica a imporre responsabilità per le violazioni più gravi e che ora si trova al centro di un confronto tra giustizia internazionale e sovranità statale. Mentre il conflitto israelo-palestinese prosegue con cicatrici indelebili per la popolazione di Gaza, la conferma del mandato di cattura contro Netanyahu e Gallant segna l’inizio di una nuova fase di dibattito sul ruolo delle corti internazionali nel perseguire la responsabilità per crimini di guerra, anche quando coinvolgono leader potenti, Stati intoccabili e alleanze complesse.

USA colpiscono tre imbarcazioni nel Pacifico: almeno 8 morti

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Gli Stati Uniti hanno condotto nuovi attacchi nel Pacifico orientale contro tre imbarcazioni che, secondo l’intelligence militare, stavano transitando su rotte note del narcotraffico internazionale. Le operazioni, eseguite sotto il comando della Joint Task Force Southern Spear, hanno provocato la morte di almeno otto uomini. Le azioni rientrano in una più ampia campagna militare contro il traffico di droga via mare, che ha già visto decine di attacchi in acque internazionali su imbarcazioni sospettate di attività illecite.

La Finlandia riscalda le sue città con il calore generato dai data center

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riscaldamento domestico

I data center consumano enormi quantità di energia e generano calore in modo continuo, una conseguenza inevitabile del funzionamento dei server che è destinata ad aumentare con l’espansione del digitale e dell’intelligenza artificiale. Per limitarne l’impatto, in Finlandia una parte di questo calore viene recuperata e immessa nelle reti di teleriscaldamento urbano, e utilizzata per riscaldare abitazioni ed edifici pubblici. Non è una soluzione che cancella il peso energetico dei data center, ma un modo concreto per ridurre gli sprechi e diminuire l’uso di combustibili fossili nel riscaldamento...

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Liberato Mohamed Shahin: l’imam chiuso in un CPR per aver definito il 7 ottobre “resistenza”

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Mohamed Shahin, l’imam della moschea di via Saluzzo a Torino chiuso in un centro Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR) per aver affermato che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre furono un atto di resistenza dovuto ad anni di occupazione, è stato liberato. La sua scarcerazione è stata disposta dalla Corte d’Appello, che ha riconsiderato la legittimità del provvedimento con cui il suo trattenimento era stato convalidato, evidenziando come le frasi incriminate fossero state archiviate già prima del suo arresto, lo scorso 24 novembre; sul decreto di espulsione, invece, dovrà esprimersi il TAR del Lazio.

La decisione della Corte d’Appello è arrivata oggi, 15 dicembre. Essa accoglie uno dei ricorsi presentati contro il trattenimento di Shahin nel CPR di Caltanissetta. Sul decreto di espulsione, visionato da L’Indipendente, si legge che l’imam costituirebbe «una minaccia concreta, attuale e sufficientemente grave alla sicurezza dello Stato», tanto che potrebbe «agevolare, in vario modo, organizzazioni o attività terroristiche anche internazionali». Il decreto porta diversi argomenti per sostenere la propria tesi; tra i principali: le frasi pronunciate in occasione della manifestazione del 9 ottobre; il fatto che su di lui penda una accusa per blocco stradale, in riferimento a una manifestazione dello scorso maggio; presunti legami con due persone poi arruolatisi in gruppi terroristici. Il provvedimento cita anche il ruolo di rilevanza che egli ricopre all’interno della comunità islamica, le sue iniziative di promozione di manifestazioni per la Palestina, il fatto che nel 2023 gli sia stata negata la cittadinanza, e sostiene che Shahin sarebbe portatore di una «ideologia fondamentalista e di chiara matrice antisemita», senza tuttavia spiegare per quale motivo.

Secondo la Corte d’Appello nessuna delle motivazioni giustificherebbe l’identificazione di Shahin come soggetto pericoloso per la sicurezza dello Stato: le frasi incriminate sono infatti già state archiviate lo scorso 10 ottobre, e decontestualizzate dall’intero discorso dell’imam; l’accusa di blocco stradale non basta per affermare che Shahin costituisca un pericolo, visto anche che l’uomo vive in Italia da vent’anni ed è «completamente incensurato»; i presunti contatti con persone indagate per terrorismo, invece, sono stati spiegati da Shahin nel corso della reclusione. Fairus Jama, l’avvocata di Shahin, ha spiegato a L’Indipendente che i fatti riguardo alle persone indagate per terrorismo risalgono a diversi anni fa e che, tra l’altro, Shahin non è accusato di avere avuto veri e propri «contatti» con essi, ma di essere stato «avvicinato». In uno dei due casi, a fare suonare il campanello di allarme sarebbe stato il mero fatto che il nome di Shahin sia uscito in una conversazione telefonica tra terzi. Sulla negazione della cittadinanza, Jama ci ha spiegato che è stato presentato ricorso, ma che deve ancora iniziare l’udienza.

Mohamed Shahin è stato prelevato sotto casa la mattina del 24 novembre, quando si è visto revocare il permesso di soggiorno e recapitare un decreto di espulsione. Dopo essere stato detenuto in un primo momento nel CPR di Torino, Shahin è stato trasportato in quello di Caltanissetta, a 1.600 chilometri dalla Mole, lontano da famiglia e avvocata. Nel suo Paese d’origine, l’Egitto, è considerato un dissidente per la sua aperta opposizione al regime di Al Sisi. A sollecitarne l’espulsione, nel corso di un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Piantedosi, è stata la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che ha richiamato proprio quelle frasi su Hamas che erano già state archiviate un mese e mezzo prima. Il Viminale ne ha così ordinato l’espulsione e il trattenimento, e la Corte d’Appello ha in un primo momento convalidato quest’ultimo.

L’UE allarga le sanzioni alla Bielorussia

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L’UE ha ampliato le sanzioni contro la Bielorussa, inserendo nella lista delle realtà sanzionate individui, entità e organismi che «traggono vantaggio, sono coinvolti o facilitano azioni o politiche attribuibili alla Repubblica di Bielorussia, che compromettono o minacciano la democrazia, lo Stato di diritto, la stabilità o la sicurezza nell’UE e nei suoi Stati membri». Il riferimento è alle accuse che la Lituania ha spesso lanciato nei confronti della Bielorussia di favorire il transito di palloni aerostatici all’interno del proprio spazio aereo per alimentare il contrabbando. Minsk ha sempre rigettato le accuse. L’UE sostiene di avere introdotto un nuovo criterio a tutela dei territori e delle infrastrutture degli Stati membri.

Boicotta TEVA: in Italia un fine settimana contro l’azienda del farmaco israeliana

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Si è appena concluso il fine settimana di protesta indetto dalla rete BDS Italia (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), che ha visto tre giorni di mobilitazioni in diverse città italiane per protestare contro Teva, la multinazionale del farmaco israeliana che è complice dell’occupazione illegale della Palestina. Le manifestazioni si sono svolte a Modena, Bergamo, Milano, Bologna, Fano, Porto Recanati, Lanciano, Bra, Napoli e Roma con azioni di volantinaggio, azioni lampo e presidi permanenti davanti a ospedali, farmacie e università per informare i cittadini. Teva è una delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, con un fatturato di oltre 16 miliardi di dollari, ed è la più grande azienda commerciale (e industriale) del mercato israeliano per patrimonio netto, utile netto, reddito operativo e valore di mercato. BDS Italia e l’organizzazione “Sanitari per Gaza” avevano già lanciato la campagna “Teva? No grazie!” per promuovere il boicottaggio dell’azienda specializzata nella produzione di farmaci generici ampiamente presenti anche in Italia, attivando raccolte firme contro la vendita dei prodotti dell’azienda e le azioni di volantinaggio.

Uno dei primi risultati concreti è stata la sospensione, da parte di diversi comuni italiani, degli accordi commerciali con l’azienda. Il risultato è stato che in alcuni comuni i farmaci da banco di aziende israeliane non sono più oggetto di promozione, mentre in altri è stata disposta l’interruzione di acquisti di farmaci, parafarmaci e cosmetici israeliani, fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale.

Dalla rete italiana fanno notare che: «In tutti i casi esposti un ruolo centrale viene assunto dall’esigenza del rispetto del Diritto Internazionale, richiamato da diverse giunte comunali». Ecco, ad esempio, come una consigliera del Comune di Castelnuovo risponde ai vari commenti di critica: «La mozione segue il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024. Non è ideologia, ma una responsabilità legale. Non si tratta di un’opinione, ma di un dovere istituzionale: non finanziare ciò che il diritto internazionale condanna».

Prato: bottigliate in testa contro i lavoratori in sciopero

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Dopo gli episodi dello scorso settembre e novembre, continuano le aggressioni ai lavoratori di Prato e ai sindacalisti di Sudd Cobas. Questa volta, la protesta riguardava il settore della ristorazione, una novità per la lotta sindacale, rimarca lo stesso sindacato: i lavoratori erano in presidio davanti al ristorante cinese “Scintilla” di Via Galcianese per contestare i turni di lavoro massacranti, da 12 ore al giorno: «Il solito copione di diritti negati che dal distretto moda sconfina anche nelle cucine e nelle sale dei ristoranti», spiega un comunicato del gruppo. Lavoratori e sindacalisti sono stati presi a bottigliate di vetro in testa, riportando ferite che li hanno portati in ospedale: questa notte, sei delle persone colpite erano ancora in ospedale. Sudd Cobas porta avanti da tempo una lotta trasversale, che coinvolge diversi settori lavorativi di Prato; quella di ieri, è la quarta aggressione negli ultimi tre mesi, e la terza se si contano solo gli ultimi trenta giorni.

L’ennesima aggressione ai lavoratori di Prato sostenuti da Sudd Cobas è avvenuta ieri, 14 dicembre, nella sera. I lavoratori stavano tenendo un presidio davanti al ristorante, da dieci giorni al centro di una agitazione sindacale contro i turni di lavoro massacranti, i contratti a nero e le condizioni di lavoro precarie. Attorno alle 21:30, due uomini sono usciti dal ristorante e si sono diretti da un lavoratore, strattonandolo e cercando di portarlo di peso all’interno del locale; i manifestanti hanno cercato di fermarlo, ma i titolari del ristorante sono usciti dal locale armati di bottiglie, aggredendoli. Il comunicato del sindacato, rilasciato a notte tarda, riportava che sei dimostranti si trovavano ancora in ospedale, due dei quali – un lavoratore e un sindacalista – feriti dalla rottura delle bottiglie di vetro con le quali erano stati colpiti.

Sudd Cobas porta avanti da tempo una lotta nei diversi ambiti produttivi e lavorativi della città di Prato, ma solo recentemente ha lanciato l’istanza nel settore della ristorazione. La nuova campagna è stata avviata dopo che i dipendenti di un ristorante di Calenzano, comune fiorentino confinante con Prato, si sono rivolti al sindacato per denunciare le condizioni di lavoro degradanti; fino a ora, la campagna ha interessato quattro ristoranti, due dei quali hanno stabilizzato i lavoratori. Dopo l’aggressione, più di un centinaio di operai della zona hanno raggiunto il presidio, dando vita a una manifestazione spontanea di solidarietà; per la giornata di oggi è previsto un ulteriore presidio in Via Galcianese, che si terrà alle ore 18, con lo scopo di riaffermare il diritto di sciopero.

Non è la prima volta che i lavoratori di Prato rappresentati da Sudd Cobas vengono aggrediti dai propri datori di lavoro. Negli ultimi mesi era già successo tre volte. Un caso noto è quello di settembre, quando un gruppo di operai di una stireria industriale era stato raggiunto in presidio dalla proprietaria dello stabilimento, che ha distrutto i gazebi e preso a calci e pugni i lavoratori; un altro risale a metà novembre, quando il presidio dei lavoratori di un centro di distribuzione all’ingrosso dell’abbigliamento è stato aggredito da un folto gruppo di persone tra cui si trovavano anche i proprietari del centro; in quell’occasione, sono stati colpiti anche gli agenti di polizia che vigilavano sul presidio. Proprio quello del tessile risulta il settore in cui il sindacato è maggiormente attivo: i lavoratori denunciano turni di lavoro da 12 ore al giorno 7 giorni su 7, con contratti spesso a nero e stipendi da fame.

Repubblica Democratica del Congo: ribelli catturano soldati burundesi

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Il gruppo ribelle della Repubblica Democratica del Congo, M23 – secondo diversi rapporti sostenuto dal Ruanda – ha catturato centinaia di soldati burundesi. A dare la notizia è Patrick Busu Bwa Ngwi, governatore della provincia congolese del Sud Kivu nominato dall’M23 dopo averne strappato il controllo alle forze regolari. Il rapimento dei soldati del Burundi è avvenuto in occasione della cattura della città congolese di confine di Uvira, qualche giorno dopo la ratifica del cessate il fuoco tra RDC e Ruanda, avvenuta con la mediazione degli Stati Uniti. Gli USA hanno condannato le azioni dell’M23, sostenendo che costituiscano una violazione degli accordi, ma il Ruanda nega di fornire supporto al movimento ribelle.

Quando la fidanzatina IA si basa sui lavoratori kenioti sottopagati

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Per affinare gli “amici” e i “partner” chatbot a cui raccontate i vostri segreti, fragilità e perversioni sessuali, le aziende sembrano pronte a fare affidamento sul lavoro occulto dei più vulnerabili. Una nuova testimonianza rivela infatti che anche dietro questi strumenti si potrebbero celare gli sforzi di subappaltatori chiusi in uffici di Nairobi, pagati per mentire sulla propria identità e per intrattenere gli utenti di internet con seducenti menzogne.

A rivelare il fenomeno è The Emotional Labor Behind AI Intimacy, documento pubblicato da Data Workers’ Inquiry, un gruppo collegato all’istituto indipendente DAIR, fondato dalla ricercatrice Timnit Gebru. Ovvero colei che ha rotto con Google dopo che la Big Tech non ha apprezzato la sua decisione di pubblicare un report in cui evidenziava criticità e pericoli delle intelligenze artificiali. Il testo raccoglie il dettagliato resoconto di Michael Geoffrey Asia, moderatore di contenuti che ha sperimentato quasi ogni forma di lavoro invisibile legato alle tecnologie di Meta e che oggi ricopre il ruolo di Segretario Generale della Data Labelers Association (DLA), associazione che si propone di tutelare e garantire maggiori diritti agli operatori – spesso provenienti da Paesi a basso reddito – incaricati di catalogare e affinare i dati utilizzati per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale.

Asia racconta in particolare la sua più recente esperienza professionale presso l’azienda New Media Services. “Il ruolo impone di assumere molteplici identità costruite e di utilizzare pseudo-profili creati dall’azienda per partecipare a conversazioni intime ed esplicite con uomini e donne soli”, spiega. In pratica, agli operatori viene richiesto di praticare catfishing: fingere di essere qualcun altro per soddisfare i bisogni emotivi degli utenti, facendoli sentire amati e desiderati, con l’obiettivo di abbassarne le difese e ottenere così le loro informazioni più sensibili e personali. La retribuzione è di 0,05 dollari per messaggio inviato e ogni messaggio deve soddisfare una lunghezza minima per essere conteggiato.

La pratica del catfishing è spesso associata a truffe mirate a prosciugare economicamente le vittime. In questo caso, però, Asia ha riconosciuto uno schema già incontrato in passato: sfruttando un opaco sistema di subappalti e la segretezza imposta dai contratti di non divulgazione, le Big Tech ricorrono alla manodopera africana – ma non solo – per addestrare algoritmi che vengono presentati come prodotti neutri e “asettici”. In realtà, tali IA generative non poggiano su calcoli astratti e imparziali, bensì sullo sfruttamento di lavoratori costretti a condizioni professionali degradanti e prive di tutele.

Kenya e Ghana si sono mostrati terreno fertile per queste forme di imperialismo digitale di sorveglianza, così come India, Venezuela, Germania, Spagna, Bulgaria, Colombia. In un primo momento il lavoro consisteva nella moderazione dei contenuti social e nell’addestramento degli algoritmi destinati ad automatizzare i controlli sui post, quindi è arrivata la fase dell’etichettatura qualitativa dei risultati elaborati dalle GenAI. Non sorprende, dunque, che con la crescente diffusione dei chatbot relazionali le imprese si stiano organizzando per perfezionare questa tipologia di modelli, fondandoli sui dati generati da tali interazioni. Nel tentativo di legare il concetto di IA a una forma di pensiero magico, le Big Tech sono infatti quanto mai solite affidarsi a processi di AI washing, a presentare servizi automatizzati che, in verità, sono gestiti da teleoperatori.

L’analisi proposta da Asia non si concentra però sulle menzogne dei giganti del settore, bensì mette in luce lo spaccato umano che troppo spesso viene ignorato, se non deliberatamente nascosto. Le aziende subappaltatrici operano frequentemente in contesti segnati da mercati del lavoro stagnanti, offrendo possibilità apparentemente allettanti grazie a retribuzioni che sono perlomeno in grado di sopperire al pagamento di bollette e spese quotidiane. Tuttavia, la precarietà dei contratti fa sì che le condizioni peggiorino progressivamente e che la pressione sui lavoratori aumenti col tempo. Il burnout diventa una presenza inevitabile, aggravata dalla natura stessa delle mansioni, a prescindere che si tratti dell’analisi di messaggi violenti o dell’assunzione di identità fittizie di genere e preferenze sessuali diverse dalle proprie. Tutto ciò alimenta profonde sensazioni di alienazione e depressione, le quali non sono affatto mitigate da un adeguato supporto psicologico. Anche perché, vale la pena ricordarlo, i contratti firmati vietano esplicitamente ai lavoratori di discutere con i propri cari e con gli psicologi della reale natura del loro mestiere.

Multinazionali USA in Italia: 132,5 miliardi di ricavi, solo 2,16 miliardi di tasse

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Nel 2022 le multinazionali statunitensi hanno realizzato in Italia ricavi per 132,5 miliardi di dollari, versando allo Stato italiano imposte per 2,16 miliardi, con un rapporto tra fatturato e gettito fiscale pari a poco più dell’1,6%. Un dato che restituisce l’immagine di una presenza economica ampia e strutturata, ma anche di una marcata sproporzione tra valore prodotto sul territorio e contribuzione fiscale. In un Paese caratterizzato da un’elevata pressione tributaria su famiglie e imprese nazionali, questi numeri riaccendono il confronto sulla capacità del sistema fiscale internazionale di intercettare in modo efficace i profitti delle grandi multinazionali.

La presenza delle multinazionali statunitensi in Italia è ampia e consolidata. Secondo le elaborazioni basate sui dati dell’Internal Revenue Service (IRS), l’amministrazione fiscale degli Stati Uniti, 805 gruppi a controllo USA operano stabilmente nel nostro Paese, con attività che, rispetto al confronto europeo, vanno ben oltre i servizi digitali e finanziari. In Italia la presenza delle multinazionali USA è legata soprattutto ad attività produttive e industriali, configurandosi come una componente strutturale dell’economia nazionale. I settori maggiormente interessati di questo ecosistema sono, infatti, manifatturiero, farmaceutico, automotive, chimico, energetico e tecnologico, comparti ad alta intensità di capitale e valore aggiunto. Queste imprese impiegano circa 227mila lavoratori sul territorio nazionale, contribuendo in modo rilevante all’occupazione diretta e all’indotto. La loro presenza si traduce in stabilimenti produttivi, centri di ricerca, sedi operative e reti di fornitori locali. In molte aree del Paese, soprattutto nel Nord industriale, le controllate di gruppi statunitensi rappresentano un elemento strutturale del tessuto economico. Il dato sui ricavi riflette un’attività economica reale, radicata e continuativa. Tuttavia, l’ampiezza dell’attività produttiva non si riflette in modo proporzionale nel carico fiscale effettivamente sostenuto. Il divario tra fatturato, valore aggiunto e imposte versate evidenzia come la localizzazione delle attività economiche e quella della base imponibile non coincidano. È una dinamica tipica delle grandi multinazionali, che nel caso italiano assume una particolare rilevanza per dimensioni e impatto.

Le Big Tech statunitensi concentrano la maggiore distanza tra ricavi e imposte. Amazon guida la classifica per fatturato in Italia (oltre 3,2 miliardi di euro), ma versa al fisco poco più di 26 milioni, mentre IBM, con ricavi inferiori, risulta il primo contribuente. Microsoft e Alphabet mostrano a loro volta un divario significativo tra volume d’affari e tasse pagate, divario che si accentua ulteriormente scendendo nella graduatoria, fino ai casi di Meta che fattura 400,749 milioni e paga 3,408 milioni, Oracle 192,275 milioni con 2,152 milioni, ADP 77,519 milioni con 564 mila euro, Adobe 17,066 milioni con 753 mila euro, infine, Uber, con 5,212 milioni di fatturato, si ferma a 174 mila euro di tasse. Il quadro che emerge è quello di un carico fiscale non proporzionale ai ricavi, con contributi molto differenti a fronte di volumi economici comparabili, riflesso di modelli societari e assetti fiscali eterogenei.

La distanza tra i ricavi generati in Italia e le imposte versate non è riconducibile a singoli casi isolati, ma riflette meccanismi strutturali della fiscalità internazionale. Le multinazionali operano attraverso architetture societarie complesse che permettono di distribuire costi, ricavi e utili tra diverse giurisdizioni. In questo contesto, strumenti come i prezzi di trasferimento, la gestione centralizzata dei diritti di proprietà intellettuale e i finanziamenti infragruppo incidono in modo determinante sulla localizzazione degli utili imponibili. La concentrazione di brevetti e marchi in Paesi a fiscalità agevolata comporta che le controllate operative, come quelle presenti in Italia, versino royalties e canoni che riducono l’utile tassabile locale. Pratiche in larga parte legittime e regolate da accordi contro la doppia imposizione, ma che finiscono per erodere la base imponibile nei Paesi dove avviene la produzione. Secondo il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 del Tax Justice Network, questo sistema ha contribuito a una perdita di gettito stimata in circa 22 miliardi di euro in sei anni per l’Italia, a conferma di una criticità non episodica ma sistemica. Negli ultimi anni, OCSE e Unione europea hanno avviato riforme, tra cui il Pillar Two e la tassazione minima globale del 15%, per limitare tali distorsioni. Tuttavia, l’attuazione di queste misure è lenta e complessa e i risultati restano, al momento, limitati.