lunedì 15 Dicembre 2025
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Miami, eletta sindaca Eileen Higgins: è la prima dem in 30 anni

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Eileen Higgins è stata eletta sindaca di Miami con il 59% dei voti, diventando la prima democratica a ottenere l’incarico in quasi trent’anni, oltre che la prima donna e la prima non ispanica dagli anni ’90. Ha sconfitto il repubblicano Emilio Gonzalez, sostenuto da Donald Trump, fermo al 41%, offrendo slancio ai democratici in vista delle midterm 2026. La campagna, pur in un contesto formalmente apartitico, ha toccato temi nazionali come accessibilità economica, immigrazione ed economia. Ex commissaria di Miami-Dade, Higgins, 61 anni, ha centrato il programma su alloggi accessibili, trasporti e fiducia nelle istituzioni.

Perché Luigi Pirandello è stato un gigante della letteratura italiana

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89 anni fa ci lasciava Luigi Pirandello, una delle voci più originali, appassionate e inquietanti del Novecento italiano. Fin da ragazza m’innamorai delle sue novelle, del suo umorismo e della sua capacità di capire, e di mettere nero su bianco, le infinite contraddizioni dell’animo umano. Quante volte ci sentiamo spaesati, confusi, e non riusciamo a trovare un punto d’incontro tra ciò che siamo e ciò che sembriamo? Tra ciò crediamo di essere e come ci vedono gli altri, come capita ad Angelo Moscarda, il protagonista di quel geniale racconto che si chiama Uno, nessuno e centomila? «Gliel’insegno io come si fa», dice Ciampa alla signora Beatrice ne Il berretto a Sonagli, «Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Geniale, no?

Quanta verità è contenuta in queste parole! Le persone sincere e autentiche, in un mondo che ha fatto dell’ipocrisia un vanto e delle formalità un’abitudine, passano spesso per pazze. E chi non ha mai desiderato di prendere un treno e sparire, ricominciare daccapo, reinventarsi da zero per iniziare una nuova vita? Questo è quello che fa Mattia Pascal, che arriva a fingere la propria morte pur di scappare da una vita che lo stava soffocando. Insomma la genialità di Pirandello non si discute. 

Se oggi lo ricordiamo, è perché seppe smantellare le maschere che l’uomo indossa e mostrarci la spaventosa leggerezza con cui un’intera identità può sgretolarsi in un attimo.  Una moglie capisce che il marito che conosceva non è mai esistito. Un gruppo di personaggi irrompe su un palcoscenico senza sapere più dove finisca la finzione e inizi la vita. Un marito geloso finge di avere un amante per salvare la dignità; un uomo decide di morire per scherzo e finisce per perdere se stesso: questi sono le trame dei suoi racconti più famosi, storie che ci mostrano cosa accade quando la forma smette di reggere l’urto della realtà. 

Luigi Pirandello nel 1932

Ma per capire l’opera di Pirandello occorre fare un passo indietro. Le tragedie familiari e personali e la sua terra d’origine, la Sicilia, formarono quella sua sensibilità così attenta a cogliere le contraddizioni dell’uomo e della vita e così insofferente nei confronti di tutto ciò che è menzogna. 

Pirandello proveniva da una famiglia che faceva fortuna nelle zolfare: il suo era un destino già scritto di lavoro e buonsenso borghese. Ma lui rifiutò presto quella via, attratto invece dalle lettere e dagli studi umanistici. Era nato ad Agrigento, in quella che era in tutto e per tutto la periferia culturale e geografica del Regno, una terra che sapeva di vento, sole e zolfo, che era una miscela esplosiva di fatalismo e teatralità e dove il sole, l’autentico sovrano della Sicilia, dominava incontrastato.

Ed è proprio lì, in quel mondo in cui l’apparenza contava più dei desideri e la reputazione valeva più della felicità, che si formò lo sguardo di Pirandello: uno sguardo capace di cogliere la crepa dietro ogni gesto, il non detto dietro ogni parola. Se l’Ottocento aveva raccontato l’uomo come soggetto dotato di volontà, il Novecento pirandelliano apre una stagione diversa: quella in cui l’io si frammenta e si moltiplica. La borghesia italiana, con le sue formalità rigide e i suoi salotti pieni di convenzioni, gli offriva un catalogo inesauribile di ruoli: il marito rispettabile, la moglie devota, la figlia perbene. Ma bastava grattare appena quella superficie per far emergere gelosie feroci, frustrazioni, desideri indicibili. Ed è quello che sperimentò in prima persona, sulla sua stessa pelle per così dire.

Nel 1894 un giovane Luigi Pirandello sposa la bella Antonietta Portulano, una siciliana dai focosi occhi scuri e lo sguardo malinconico. Si tratta, come si usava all’epoca, di un matrimonio combinato, voluto dal padre di Pirandello, Don Stefano e il padre di Antonietta. I due sposi novelli hanno avuto poco tempo per conoscersi, non sanno quasi nulla l’uno dell’altra, ma a dispetto di un inizio poco promettente, la loro unione nei primi anni di matrimonio sembra felice

Nel giro di poco tempo hanno due figli, Lietta e Fausto; si trasferiscono a Roma e nella capitale vivono sereni. Nel 1903 però accade il disastro: un tracollo economico si abbatte su Pirandello e la sua famiglia, quando a causa di un allagamento perdono una miniera di zolfo su cui avevano investito tutto ciò che possedevano. Quella disgrazia minò la salute psichica di Antonietta. Quando Pirandello tornò a casa, trovò la moglie, che aveva letto della disgrazia in una lettera del suocero, in uno stato quasi catatonico. Da quel momento la vita di Pirandello si tramutò in un inferno.

Antonietta divenne gelosa, in modo parossistico, del marito. È convinta che il marito la tradisca, ed è gelosa di qualsiasi donna si avvicini a Pirandello: conoscenti, allieve, semplici estranee che incrociano il suo sguardo in strada. Basta anche soltanto un saluto per innescare una violentissima ira. Più passano gli anni, più la paranoia di Antonietta peggiora: non appena Pirandello rientra a casa, lo assale con le sue grida; lo spia, fruga tra le sue carte, di notte resta sveglia a fissarlo nel buio. 

«Ho la moglie, caro Ugo,» confessa al suo amico Ugo Ojetti, «da molti anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io». Pirandello limita al minimo le uscite nel mondo esterno, si getta a capofitto nel suo lavoro, pur di non dare alla moglie il minimo pretesto per ingelosirsi. 

Ma non serve a nulla. Alla fine Antonietta, smarritasi sempre più nella follia, diventa gelosa anche della figlia. La accusa di volerla avvelenare e di aver avuto rapporti incestuosi con suo padre. Distrutta da queste accuse e dall’odio della madre, Lietta prova a togliersi la vita. Si salva per miracolo, ma ormai il clima familiare è distrutto. Antonietta è divenuta ormai completamente ingestibile, e sono costretti a farla internare in una casa di cura sulla Nomentana. Una storia tristissima che in parte affonda le sue radici in quella cultura della gelosia che aveva spinto la madre di Antonietta a morire di parto pur di non farsi toccare da un uomo, anche se medico, e non scatenare così la gelosia del marito. Questa era la mentalità di molti italiani e di molte italiane agli inizi del Novecento. 

Quando Antonietta viene internata, Pirandello non si libera; il suo ricordo lo tormenta e lui trasforma la sua tragedia personale in arte. Il suo teatro diventa laboratorio di esperimenti psicologici, di identità scomposte e ricomposte, di uomini che non sanno più chi sono. Ecco come e perché nacquero personaggi come Mattia Pascal, Angelo Moscarda, Enrico IV: figure che inciampano nella propria vita come chi, camminando distratto, sbatte contro uno specchio e non riconosce più il proprio riflesso.

C’è un elemento che attraversa tutta la sua opera: la follia. Ma non solo la follia spettacolarizzata, quella che irrompe nell’Enrico IV che finge di essere pazzo, ma la follia quotidiana, sotterranea, quella che ci accompagna tutti i giorni senza che nessuno se ne accorga. L’interesse di Pirandello per la follia era un modo per denunciare ciò che nella società dell’epoca non funzionava: l’ipocrisia dei ruoli, la rigidità delle convenzioni sociali, la pretesa che gli esseri umani siano monoliti coerenti.

Pirandello in tourné (1925)

L’eredità più scomoda di Pirandello è un’idea, l’idea che ognuno di noi è almeno tre persone: quella che crede di essere, quella che vede negli specchi e quella che gli altri si inventano guardandoci. Convivono tutte, si disturbano, si sovrappongono, si sabotano tra loro. E i suoi personaggi non fanno a meno di domandarsi: «Chi sono, quando nessuno mi guarda?»

Gli anni Dieci e Venti sono per Pirandello anche anni di crescente notorietà. È in questa fase che l’Italia cambia pelle, scossa dalla guerra e delusa dai governi liberali. Molti intellettuali, Pirandello incluso, guardano al fascismo come a una forza ordinatrice in un paese in cui tutto sembra franare. 

La contraddizione è evidente: un uomo che ha passato la vita a smascherare i meccanismi del potere si innamora proprio della maschera più rigida. Ma anche qui emerge la verità più pirandelliana di tutte: nessuno è immune dalle seduzioni del proprio tempo. Nel 1921 va in scena Sei personaggi in cerca d’autore, accolto prima con scandalo e poi con ammirazione in tutta Europa. Seguono anni di tournée e di trionfi. È l’epoca in cui Pirandello diventa Pirandello: e poi ancora il Nobel, la fama, il riconoscimento internazionale. Eppure nel 1929 confessa Marta Abba: «Mi guardano come un uomo che ha un ruolo. Io voglio essere guardato come sono quando ti scrivo: uno che non sa chi è fino in fondo». 

Ed è per questo che ancora oggi disturberebbe chiunque abbia costruito la propria esistenza su un ruolo ben stirato: l’uomo di successo, la donna realizzata, il professionista in ordine. Pirandello non avrebbe creduto a nessuno di loro. Avrebbe osservato e sarebbe andato alla ricerca del tremito sotto la superficie. Avrebbe insistito per mostrarci la precarietà delle maschere che ci affanniamo a indossare, e che possono sì darci un ruolo, ma non bastano a definirci e a dare senso, significato e valore a chi siamo e cosa vogliamo.

Pirandello si spegne a Roma, il 10 dicembre del 1936. Nelle sue disposizioni testamentarie chiese di essere sepolto senza cerimonie solenni o cortei pubblici. Il regime avrebbe voluto celebrare la sua morte con un addio grandioso, ma Pirandello si oppose e la sua volontà prevalse. Ebbe un commiato sobrio, semplice, quasi dimesso rispetto alla sua fama, ma che rispecchiò in pieno la sua idea di esistenza: nuda, essenziale, priva di maschere.

La metà dei giornalisti uccisi nel 2025 sono stati assassinati da Israele

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Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i report di due importanti organizzazioni di giornalisti, la IFJ (International Federation of Journalists) e RSF (Reporter Sans Frontières) riguardanti il numero di giornalisti uccisi nel 2025. I numeri sono molto differenti: secondo RSF, il numero ammonta a 67, mentre per la IFJ arriva a 111. Ciò che non cambia, tuttavia, è che in entrambe i conteggi circa la metà dei giornalisti uccisi nel mondo sono stati assassinati da Israele a Gaza. «I giornalisti palestinesi hanno pagato il prezzo più alto come risultato della guerra a Gaza», riporta l’IFJ.

«Il più emblematico», scrive l’IFJ, «è stato l’attacco mirato del 10 agosto contro Anas Al-Sharif, reporter di Al Jazeera: è stato ucciso con altri cinque giornalisti e lavoratori dei media in una tenda che ospitava giornalisti nei dintorni dell’ospedale di Al Shifa, a Gaza City». In totale, prosegue, sono 69 i giornalisti uccisi nel solo Medio Oriente, 51 dei quali nella sola Striscia di Gaza (il 46%). In aggiunta a ciò, dei 74 giornalisti detenuti in tutta l’area, ben 41 si trovano nelle carceri israeliane – 15 in quelle egiziane e 11 in quelle yemenite. Dal canto suo, RSF riporta che sono una trentina i giornalisti uccisi a Gaza (il 43% del totale): «sotto il governo di Benjamin Netanyahu, l’esercito israeliano ha compiuto un massacro – senza precedenti nella storia recente – tra i giornalisti palestinesi. Per giustificare i propri crimini, i militari israeliani hanno messo in piedi una propaganda globale per diffondere accuse senza fondamento che ritraggono i giornalisti palestinesi come terroristi», riporta l’organizzazione, che sottolinea come dall’ottobre 2023 siano stati uccisi circa 220 giornalisti a Gaza. «Nel 2025, dopo oltre due anni di blocco della Striscia di Gaza, questa repressione della stampa continua impunemente».

In generale, secondo RSF, nel mondo le uccisioni sono una conseguenza «delle pratiche criminali delle forze armate regolari e non e della criminalità organizzata». Il 79% (53) dei giornalisti uccisi nel 2025, infatti, è morto durante una guerra o a causa di organizzazioni criminali. Secondo l’IFJ, sono una decina quelli uccisi in Europa, 8 dei quali in Ucraina, uno in Turchia e uno in Russia. «È la terza volta in dieci anni in cui l’Europa registra un numero tanto alto di giornalisti uccisi» scrive l’IFJ, ricordando il massacro di Charlie Hebdo del 2015 e l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022. Il trend preoccupante, riporta l’organizzazione, vede l’utilizzo sempre più frequente di droni per uccidere giornalisti all’interno dei propri veicoli. Il numero di giornalisti imprigionati nel continente (149) è invece il più alto dal 2018 ed è dovuto soprattutto all’intensificarsi della repressione in Azerbaigian e in Russia. In generale, i giornalisti detenuti nel mondo sono 503, secondo RSF (533 per IFJ), la maggior parte dei quali sono rinchiusi nelle carceri cinesi (121) e russe (48, 26 dei quali sono stranieri).

Il Messico rimane, per RSF, il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti (dopo la Palestina): qui sono stati uccisi nove reporter nel solo 2025, per aver riportato crimini e averli collegati con i politici locali. Uno di questi, Calletano de Jesus Guerrero, è stato ucciso mentre si trovava sotto protezione governativa. IFJ sottolinea anche l’aggravarsi della situazione in Perù, dove quest’anno è stato registrato il primo omicidio di un giornalista in 10 anni. Dei 135 giornalisti ancora scomparsi nel mondo (alcuni da più di 30 anni), invece, è per RSF la Siria a detenere il primato, con 37 professionisti dei quali non si hanno notizie, seguita dal Messico (28).

«Nel 2025 si registra un aumento del numero degli omicidi e delle incarcerazioni dei giornalisti ed è profondamente vergognoso vedere quanto poco stiano facendo i governi di tutto il mondo per proteggerli o difendere i principi della libertà di stampa» dichiara Dominique Pradalié, presidente dell’IFJ. «Al contrario, assistiamo ad attacchi diretti, a tentativi palesti di mettere a tacere le voci critiche e a sforzi per controllare la narrazione su questioni di interesse pubblico».

Blitz contro clan mafiosi a Palermo, 50 arresti

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Maxi-operazione antimafia a Palermo. Nella notte la polizia di Stato ha eseguito 50 arresti nei confronti di presunti affiliati a clan mafiosi. Le accuse vanno da associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni, fino al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Per 19 indagati è stata disposta la custodia in carcere, per 6 gli arresti domiciliari e per 25 il fermo. L’indagine – coordinata dalla DDA di Palermo – ha smantellato un vasto giro di droga e ricostruito i nuovi organigrammi di uno dei principali mandamenti siciliani.

Il Bangladesh ha fatto grandi passi avanti nella lotta alla povertà

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bangladesh agricoltura

Tra il 2010 e il 2022, il Bangladesh si è distinto per i progressi registrati nella lotta alla povertà. Lo conferma l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, che documenta una riduzione netta sia della povertà estrema - passata dal 12,2% al 5,6% - sia di quella moderata, scesa dal 37,1% al 18,7%. Per un totale di 34 milioni di persone tirate fuori dalla condizione di ristrettezza. In parallelo, sono migliorati l’accesso all’elettricità, ai servizi igienico-sanitari e all’istruzione di base in gran parte del Paese. Un cambiamento profondo per uno Stato dell’Asia meridionale che, fino a pochi dece...

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In Yemen è riesplosa la guerra civile

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Nel silenzio generale, la guerra civile yemenita ha preso un nuovo slancio. Da giorni, infatti, le forze del Consiglio di Transizione Meridionale (STC), gruppo separatista sostenuto dagli Emirati Arabi, hanno lanciato un’offensiva senza precedenti ai danni del Consiglio Direttivo Presidenziale (PLC), quello che viene generalmente indicato come il governo centrale – sostenuto dall’Arabia Saudita. A rompere i fragili equilibri sembra essere stato un contenzioso riguardo a un’area petrolifera; l’operazione dell’STC, denominata “Promising Future”, ha interessato le aree dei governatorati di Hadhramaut e di Al-Mahrah, che secondo alcune fonti sarebbero stati interamente conquistati. L’STC avrebbe anche costretto le forze del PLC ad abbandonare la loro attuale capitale provvisoria, Aden. Per ora, l’avanzata dell’STC non ha interessato i territori controllati da Ansar Allah, il gruppo considerato vicino all’Iran meglio noto con il nome di Houthi; la cartina del Paese, tuttavia, è – almeno momentaneamente – mutata drasticamente.

Non è chiaro cosa esattamente abbia spinto l’STC ad attaccare i territori del PLC. Secondo la versione più ripresa da analisti e media internazionali a fare scattare la miccia sarebbe stato il dispiegamento di soldati da parte dell’Alleanza Tribale di Hadhramaut – milizia vicina al PLC – attorno ai pozzi petroliferi di PetroMasila (la maggiore compagnia petrolifera del Paese) situati nella valle dell’Hadramaut; le aree interessate dagli attacchi sono infatti ricche di petrolio e idrocarburi. Lo scopo ufficiale del dispiegamento di soldati da parte delle forze tribali era quello di «difendere le risorse nazionali da potenziali aggressioni o interferenze esterne» nella valle, ma l’STC ha accusato l’Alleanza di essere vicina a «gruppi terroristici» e di collaborare con Ansar Allah, favorendo il contrabbando. Altri analisti hanno osservato che l’attacco da parte dell’STC non arriva casualmente, bensì in un periodo di apertura diplomatica tra gli stessi Ansar Allah e Arabia Saudita; in tale ottica, l’avanzata dell’STC servirebbe a capitalizzare sulle aree a controllo saudita prima del raggiungimento di eventuali accordi. In ogni caso, martedì 2 dicembre l’STC ha iniziato a mobilitare le proprie forze verso l’area settentrionale del Governatorato di Hadramaut, e il giorno dopo ha inaugurato la vera e propria offensiva.

Per attaccare i territori del PLC, le STC hanno mobilitato le Forze d’élite Hadrami e le Brigate di Supporto alla Sicurezza. L’avanzata ha proceduto a passi spediti: durante la prima mattina di combattimenti, le Forze di élite Hadrami sono entrate nella città di Seiyun, conquistandone anche la periferia e l’aeroporto; nella medesima giornata, si sono spinte fino alla periferia di Al-Hawi, e nella notte sono entrate ad Al-Mukalla, città portuale nel medesimo Governatorato; è questo il momento in cui hanno annunciato il nome della propria operazione, Futuro Promettente. Giovedì 4 dicembre le forze affiliate alle STC hanno continuato l’avanzata nel Governatorato di Hadramaut, arrivando nei pressi di Al-Abr, una delle più importanti roccaforti militari dei filo-sauditi; hanno poi spinto le proprie milizie verso est, entrando nel Governatorato di Al-Mahrah; qui hanno conquistato la città costiera di Sayhut, quella di Nishtun, e quella di al-Ghaydah, arrivando temporaneamente fino al confine con l’Oman; intanto, hanno iniziato l’avanzata verso il Governatorato di Marib.

Venerdì, le forze saudite sono riuscite a riprendere il controllo del confine con l’Oman e hanno respinto l’avanzata ad Al-Mahrah; hanno poi rafforzato la roccaforte di Al-Abr, ma, finora, con scarso successo. Alla fine della scorsa settimana, l’STC era riuscito ad avanzare anche nelle regioni di Shabwa e di Marib e si era assicurato l’isola di Perim, situata presso il Golfo di Aden; nel frattempo, avrebbe anche cacciato i funzionari e i militari affiliati al PLC dalla stessa Aden e si sarebbe spinta fino a toccare Taizz, una delle maggiori città del Paese. L’STC controlla inoltre almeno la metà del Governatorato di Hadramaut e della quasi totalità della costa di Al-Mahrah; Al Jazeera e il Guardian (citando un centro di analisi) riportano invece che tali province sarebbero state conquistate interamente, e che il PLC ora manterrebbe solo parte del Governatorato di Marib e di quello di Taizz. Tra ieri e oggi, l’Arabia Saudita avrebbe bloccato i voli verso Aden e l’STC avrebbe consolidato le posizioni conquistate.

La guerra civile in Yemen va avanti ormai da oltre dieci anni. All’inizio degli anni ’10 del Ventunesimo secolo, il Paese fu uno dei tanti teatri delle cosiddette “Primavere Arabe”. Le rivolte portarono alla rimozione del presidente Saleh e alla scalata al potere del suo vice, Hadi. Nel 2014, Ansar Allah lanciò una vasta offensiva, conquistando la capitale e costringendo Hadi alle dimissioni; nel 2015, il Paese era diviso in due: Ansar Allah aveva il controllo del nord, Hadi del sud. Fu qui che l’Arabia Saudita entrò in scena: Riyad creò quella che prese il nome di “coalizione anti-Houthi” a sostegno del presidente Hadi, a cui aderirono diversi Paesi del Golfo e del Mar Rosso, tra cui proprio gli Emirati Arabi Uniti. Nonostante i tentativi di rovesciamento, Ansar Allah tenne; nel malcontento generale, i Movimenti del Sud, che miravano alla creazione di uno Stato indipendente nello Yemen meridionale, si unirono, e nel 2017 nacque il Consiglio di Transizione del Sud, sostenuto dagli Emirati. L’STC riconobbe il PLC ed entrò a farvi parte, ma con il sostegno di un potentato regionale avanzò in diverse delle aree meridionali del Paese, finendo per esercitare un controllo di fatto su di esse. A oggi, dopo l’avanzata dell’ultima settimana, controllerebbe il 60% del Paese.

Incendio in Indonesia, 22 morti

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In Indonesia è esploso un incendio in un palazzo di sette piani, uccidendo 22 persone. L’incendio è scoppiato al primo piano di un edificio di Giacarta, per poi propagarsi ai piani superiori. Il palazzo ospita gli uffici di Terra Drone Indonesia, una divisione dell’azienda giapponese Terra Drone Corporation che fornisce droni per il rilevamento aereo nei settori agricolo e minerario; secondo le ricostruzioni, a causare lo scoppio delle fiamme sarebbe stata proprio la batteria di un drone, che avrebbe preso fuoco in circostanze ancora ignote.

Israele stanzia 720 milioni di euro per espandere le colonie illegali in Cisgiordania

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Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha annunciato un piano governativo che prevede lo stanziamento di 2,7 miliardi di shekel – circa 720 milioni di euro – per la creazione di 17 nuove colonie in Cisgiordania nei prossimi cinque anni e lo sviluppo di infrastrutture coloniali in diverse aree dei territori occupati, continuando a violare il diritto internazionale. Pochi giorni fa, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato (l’ennesima) risoluzione in cui chiede a Israele di smantellare le proprie colonie in Cisgiordania e di ritirarsi da tutti i territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est. Ieri, l’annuncio del nuovo piano economico che mira a espandere e solidificare le colonie illegali israeliane, rafforzare il controllo di Tel Aviv oltre i confini del 1948 e proseguire nell’annessione de facto della Cisgiordania.

Secondo il piano di Smotrich, 1,1 miliardi di shekel saranno destinati al rafforzamento delle colonie esistenti e alla creazione di nuove colonie. Di questi, 660 milioni di shekel andranno alle 17 colonie recentemente approvate dal governo e 338 milioni di shekel saranno utilizzati per sviluppare 36 colonie e avamposti attualmente in fase di progettazione. Questi lavori comprendono la costruzione di reti idriche, fognarie ed elettriche, oltre a edifici pubblici quali centri religiosi, scuole e strutture comunitarie.
Il governo stanzierà inoltre 300 milioni di shekel per le nuove colonie, di cui 160 milioni come sovvenzione per la creazione e 140 milioni per la pianificazione. Il piano prevede inoltre la costruzione di “magazzini di assorbimento” contenenti circa 20 roulotte per le famiglie, una misura intesa ad accelerare il radicamento demografico dei coloni e ad aprire la strada a future espansioni.

Oltre alle nuove costruzioni, il governo intende stanziare 434 milioni di shekel per il ripristino delle infrastrutture nelle colonie esistenti, 300 milioni di shekel per sostenere i consigli coloniali in Cisgiordania, 140 milioni di shekel per l’installazione di posti di blocco e 150 milioni di shekel per finanziare misure di protezione degli autobus nei prossimi tre anni. Il ministro della Difesa israeliano Yisrael Katz dovrebbe stanziare ulteriori fondi per rafforzare la sicurezza nelle nuove colonie, tra cui recinzioni intelligenti, telecamere di sorveglianza e depositi di attrezzature militari.

Il piano delinea una strategia volte a rafforzare il controllo israeliano oltre i confini del 1948 attraverso lo sviluppo di colonie, la costruzione di strade, il trasferimento di basi militari e l’istituzione di un controllo amministrativo e militare sulle aree interessate, il che equivale a una annessione de facto della Cisgiordania. Nell’ambito della riforma amministrativa, saranno stanziati 225 milioni di shekel per istituire un’unità speciale di “catasto” per la Cisgiordania, trasferendo la registrazione dei terreni dall’“Amministrazione civile” a tale unità. Ciò interesserà circa mezzo milione di coloni, e intede regolamentare circa 60.000 dunam (6mila ettari) di terreno entro il 2030. Il quotidiano Yediot Aharonot ha riferito inoltre che il piano prevede il trasferimento di tre basi militari nel nord della Cisgiordania, in particolare il trasferimento del quartier generale della brigata “Menashe” nell’area dell’ex colonia “Shanur”, una mossa descritta come drammatica e volta a rafforzare il controllo militare e coloniale sulla regione.

Parallelamente, sempre nella giornata di ieri, la polizia israeliana ha fatto irruzione nel complesso dell’UNRWA a Gerusalemme e ha sostituito la bandiera dell’ONU con quella d’Israele, oltre ad aver sequestrato arredi, apparecchiature informatiche e altri beni, calpestando ulteriormente le istituzioni e il diritto internazionale. Intanto, soprattutto nei territori intorno a Gerusalemme, nella Valle del Giordano e nella provincia di Masafer Yatta, le autorità israeliane hanno intensificato una campagna sistematica su più fronti che comprende demolizioni, restrizioni alla libertà di movimento e appropriazione di terreni. Sono almeno 60 gli avvisi e gli ordini di demolizione emessi dalle autorità israeliane verso strutture residenziali e agricole su tutto il territorio da inizio novembre a oggi, e almeno 27 le operazioni di demolizione e abbattimento solo nel mese di novembre. Contemporaneamente, le violenze dei coloni – spesso in complicità con le IDF – continuano a martoriare comunità e villaggi palestinesi, con lo stesso obbiettivo di forzare la popolazione locale a lasciare le proprie terre.

Italia: nel 2025 ci sono state quasi 100 inchieste e mille indagati per corruzione

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Nel corso del 2025 la mappa giudiziaria italiana è stata attraversata da un’intensa sequenza di inchieste per corruzione, che tocca numeri da record. Tra il 1° gennaio e il 1° dicembre sono state registrate 96 nuove indagini per corruzione e concussione – in media otto al mese – con un totale di 1.028 persone indagate. Un dato che quasi raddoppia quello dell’anno precedente, quando le indagini erano 48 e gli indagati 588. A fotografare questa crescita è Italia sotto mazzetta, il dossier diffuso da Libera in occasione della Giornata internazionale per la lotta alla corruzione del 9 dicembre. L’analisi delinea una corruzione ormai sistemica e strutturata, inserita in meccanismi stabili, che finisce per minare la fiducia nelle istituzioni, degradare la qualità della democrazia e dei servizi pubblici e favorire una pericolosa assuefazione sociale al fenomeno.

L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha censito le inchieste sulla corruzione dal primo gennaio al primo dicembre 2025, basandosi sulle notizie di stampa. Il quadro restituisce l’estensione e la pervasività della corruzione in Italia, un fenomeno che nel 2025 emerge con continuità su tutto il territorio nazionale. Da Torino a Milano, da Bari a Palermo, da Genova a Roma, passando per numerosi centri di provincia come Latina, Prato e Avellino, fino ad aree del Salernitano, l’anno è stato segnato da un susseguirsi di inchieste per mazzette che hanno coinvolto circa mille tra amministratori, politici, funzionari pubblici, manager, imprenditori, professionisti e soggetti legati alla criminalità organizzata. Sono ben 53 i politici indagati (sindaci, consiglieri regionali, comunale, assessori) pari al 5,5% del totale delle persone indagate. Di questi 24 sono sindaci, quasi la metà. Il maggior numero di politici indagati riguarda la Campania e Puglia con 13 politici, seguita da Sicilia con 8 e Lombardia con 6. Il report evidenzia una distribuzione geografica non omogenea: il Sud e le isole risultano le aree più coinvolte. Di tutte le inchieste del 2025, 48 riguardano regioni meridionali o insulari, contro 25 del Centro e 23 del Nord. La “maglia nera” spetta alla Campania, con ben 219 indagati, seguita da Calabria (141) e Puglia (110). Tra le regioni del Nord, la prima per numero di indagati è la Liguria con 82, seguita dal Piemonte con 80. Si tratta di una istantanea che smentisce la narrazione di una corruzione confinata a poche “zone calde”: la mappa coinvolge l’intero Paese, dalle periferie del Sud ai borghi del Nord, con una forte presenza di territori del Mezzogiorno in cima alla classifica.

Nel commentare i dati, Libera sottolinea come le inchieste di quest’anno fotografino una corruzione che non è più soltanto episodica o marginale, ma sembra animata da logiche consolidate. Ne emerge una “corruzione regolata”, spesso sistemica, organizzata in rete, con ruoli riconoscibili: dirigenti pubblici, imprenditori, faccendieri, talvolta con collegamenti alla criminalità organizzata. Le aree di intervento suggeriscono quanto il fenomeno tocchi la qualità della vita quotidiana: le mazzette servono a ottenere appalti sanitari, licenze, concessioni edilizie, servizi pubblici o vantaggi per la cittadinanza. Da segnalare anche la presenza del reato di voto di scambio politico-mafioso, concorsi pubblici e universitari truccati, tangenti per certificati di morte o residenze false: segni di un sistema che normalizza l’illegalità come strada per accedere a risorse, diritti o servizi.

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si sofferma Libera: «Oggi il ricorso alla corruzione sembra diventare sempre più una componente “normale” e accettabile della carriera politica e imprenditoriale». Il processo di progressiva normalizzazione finisce per rendere la corruzione socialmente tollerata, percepita come un elemento ordinario e quasi inevitabile, alimentando rassegnazione e indifferenza. Questo terreno culturale, avverte l’associazione, rischia di consolidarsi in un sistema di potere sempre più irresponsabile, fondato su relazioni opache, conflitti di interesse tollerati e regole piegate agli interessi di pochi. La risposta non può limitarsi all’azione giudiziaria o all’inasprimento delle pene, ma deve puntare su un rafforzamento reale dei presidi anticorruzione, oggi indeboliti, e su un rinnovato patto tra istituzioni e cittadinanza. Il percorso è «lungo» osserva Francesca Rispoli, copresidente nazionale di Libera, «ma necessario» per riaffermare integrità, trasparenza e giustizia sociale come basi dell’interesse pubblico.

Lituania: stato di emergenza per presunto contrabbando bielorusso

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La Lituania ha dichiarato lo stato di emergenza per fare fronte ai presunti sconfinamenti di palloni aerostatici dalla Bielorussia. Il Paese dispiegherà i militari al confine con Minsk, e aumenterà i controlli in entrata. La Lituania accusa la Bielorussia di permettere lo sconfinamento di palloni aerostatici simili a quelli utilizzati per le rilevazioni meteorologiche, sostenendo che trasportino sigarette da contrabbando. La dichiarazione dello stato di emergenza è solo l’ultima misura presa dalla Lituania nell’ambito di tale faccenda; Vilnius aveva già chiuso i confini accusando il presidente bielorusso Lukashenko di portare avanti una forma di guerra ibrida contro il Paese. Minsk ha sempre rigettato le accuse.