domenica 6 Luglio 2025
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Il G7 ai piedi di Trump: la global tax varrà per tutti, tranne le multinazionali USA

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Il vertice dei leader del G7 si è risolto in una resa incondizionata di fronte alle richieste di Washington: l’imposta minima globale sui profitti delle grandi multinazionali, varata nel 2021 per limitare l’elusione fiscale, verrà applicata a tutti gli Stati membri, ma non alle aziende statunitensi. L’accordo nasce al fine di scongiurare le “revenge tax” promesse da Donald Trump, ovvero le “tasse di vendetta” nei confronti delle aziende che fanno affari con gli USA e che provengono dai Pesi che applicano la global minimum tax. Sebbene l’OCSE abbia evidenziato che, affinché sia effettiva, la scelta dovrà essere ratificata dai 147 Stati che lo compongono, la strada sembra ormai spianata, con i Paesi componenti o partner dell’Alleanza Atlantica sempre più genuflessi ai diktat nordamericani.

I Paesi del G7 — Stati Uniti, Canada, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia — hanno concordato di escludere le aziende statunitensi dal pagamento della global minimum tax, l’imposta minima del 15 % sui profitti delle grandi multinazionali entrata in vigore lo scorso anno. Questo “side-by-side system” è stato introdotto per evitare l’entrata in vigore della Sezione 899 del disegno di legge fiscale Usa One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), la cosiddetta “tassa sulla vendetta” che avrebbe colpito le imprese straniere attive negli Stati Uniti. L’intesa è stata salutata da Scott Bessent, Segretario al Tesoro Usa, come un modo per «garantire maggiore stabilità e certezza al sistema fiscale internazionale in futuro», e riceve il supporto ufficiale del Dipartimento del Tesoro: «Non vediamo l’ora di discutere e sviluppare questa intesa all’interno del Quadro inclusivo», recita un comunicato.

La global minimum tax, frutto di una negoziazione globale sotto l’egida dell’OCSE, mirava in particolare ad arginare lo strapotere fiscale delle grandi aziende multinazionali – soprattutto statunitensi -, l’elusione fiscale e il fenomeno dell’offshoring. Il cancelliere del Regno Unito Rachel Reeves ha affermato sabato che il G7 ha concordato che «c’è ancora molto lavoro da fare per contrastare la pianificazione fiscale aggressiva e l’elusione fiscale e garantire condizioni di parità», aggiungendo che «il contesto più adatto affinché questo lavoro possa svolgersi è senza la prospettiva di una tassazione di ritorsione che incombe su questi colloqui, quindi la rimozione della Sezione 899 è benvenuta».

Ora però, benché il G7 affermi che il nuovo sistema «riconosce le attuali leggi statunitensi in materia di imposta minima», resta da chiarire se e in che modalità questa deroga potrà estendersi al di là dei sette. Il prossimo passaggio spetterà infatti all’OCSE, dove l’intesa dovrà essere ratificata dai 147 Paesi partecipanti all’Inclusive Framework. Mathias Cormann, Segretario Generale dell’organizzazione, ha indicato che la deroga USA rappresenta «un’importante pietra miliare nella cooperazione fiscale internazionale», ma ha avvertito che il successo finale dipenderà dall’adesione dei governi che finora non hanno preso una posizione definitiva. Più cauto Manal Corwin, responsabile della divisione fiscale dell’OCSE, il quale ha evidenziato come la dichiarazione non sia vincolante e che «il G7 da solo non può prendere questa decisione».

La rivendicazione di Trump, che a gennaio aveva escluso unilateralmente gli Stati Uniti dall’intesa del 2021, ha dunque avuto la meglio: le grandi multinazionali Usa continueranno a godere di un trattamento di favore, accentuando lo squilibrio tra Nord e Sud del pianeta e indebolendo la lotta globale contro l’elusione e la concorrenza fiscale sleale. Si tratta, in fin dei conti, dell’ennesima iniziativa con la quale i Paesi alleati si sono dimostrati proni agli Stati Uniti. Ciò è stato plasticamente visibile negli ultimi tempi con gli attacchi all’Iran, mascherati dal punto di vista politico-mediatico come operazioni di «guerra difensiva», così come con l’innalzamento delle spese militari al 5% nei Paesi NATO. Il cui segretario generale Rutte, commentando l’approccio comunicativo del presidente USA in relazione al conflitto in Medio Oriente, si è addirittura spinto a chiamarlo in pubblico «paparino».

Serbia, migliaia in piazza a Belgrado chiedono elezioni anticipate

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Decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Belgrado ieri sera per chiedere elezioni anticipate, dopo mesi di proteste innescate dal crollo della stazione ferroviaria a Novi Sad che ha provocato la morte di 16 persone nel novembre 2024. Le mobilitazioni, guidate soprattutto da studenti, denunciano corruzione e negligenza nei progetti pubblici. Secondo un gruppo indipendente, i manifestanti erano circa 140mila. Ci sono stati scontri con la polizia, alcuni arresti e almeno un agente ferito. Il presidente serbo Vučić ha respinto le richieste di elezioni, accusando i manifestanti di fomentare disordini su influenza straniera, senza però fornire prove.

Ungheria, migliaia al Pride vietato da Orban

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Migliaia di persone (50 mila, secondo i media locali) si sono ritrovate oggi in piazza a in Ungheria per sfilare al Budapest Pride, vietato da Orban, al quale hanno preso parte anche personalità come Marco Cappato, Greta Thunberg e numerosi eurodeputati. Militanti di estrema destra e polizia hanno cercato di bloccare il corteo, che si è per questo diviso. “La situazione è caotica” riferiscono le forze dell’ordine, aggiungendo che gli organizzatori della manifestazione “non collaborano” con le autorità. Nel marzo di quest’anno, il governo ungherese aveva vietato lo svolgersi della manifestazione “per proteggere i bambini” e garantire loro “un corretto sviluppo fisico, intellettuale e morale”.

Il fondatore di Spotify punta sul finanziare le armi e non è il solo

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Lo scorso 17 giugno, Daniel Ek, CEO e fondatore della piattaforma musicale Spotify, si è messo a capo di un investimento da 600 milioni di euro in Helsing, azienda tedesca specializzata in tecnologie per la Difesa — in particolare in droni militari e strumenti di intelligenza artificiale per agevolare la presa di decisioni sul campo di battaglia. Le nuove risorse finanziarie hanno fatto lievitare il valore dell’azienda a 12 miliardi di euro, garantendo a Ek la poltrona di presidente del consiglio di amministrazione di Helsing. La diversificazione degli investimenti in direzioni belligeranti non è però un’esclusiva del magnate svedese, tutt’altro: sempre più aziende e imprenditori stanno puntando sullo sviluppo militare e sulla sorveglianza per cavalcare il boom del settore.

Complice la natura “pop” di Spotify, il round di finanziamenti ha scatenato l’attenzione di testate, associazioni e celebrità, offrendo massima visibilità al fenomeno. In Italia, la voce di dissenso più forte e visibile è giunta dal musicista Piero Pelù, il quale ha espresso senza mezzi termini su Instagram tutta la sua delusione: “purtroppo i master di tutti i miei dischi non mi appartengono più, altrimenti li avrei ritirati immediatamente dalla fottuta piattaforma di questo schifo di individuo”, ha scritto il cantautore. “Magari se molti artisti facessero pressione su questo padrone insensibile della nostra arte potrebbero farlo ragionare e spingerlo a investire i suoi/nostri soldi in qualcosa di molto più civile e in controtendenza con la merda che i nuovi dittatori ci stanno portando a vivere ogni giorno”.

“Mi concentro su quello che penso sia giusto e sono convinto al 100% che questa sia la direzione corretta per l’Europa“, ha dichiarato Ek al Financial Times. Per perseguire questo suo sogno di giustizia formalmente disinteressata, l’imprenditore avrebbe liquidato una parte considerevole delle sue azioni in Spotify, mantenendo solamente il 14,3% del capitale — quota che è comunque sufficiente a garantirgli il controllo del portale musicale. Che Ek fosse interessato a concentrare le proprie risorse in contesti più profittevoli era chiaro già dal novembre 2021, quando la sua società di investimento Prima Materia si era originariamente avvicinata a Helsing. All’epoca, la cosa aveva scatenato reazioni forti da parte dei musicisti, le quali non hanno però evidentemente contribuito a far cambiare idea al manager.

Il patron di Spotify non è però un’eccezione, tutt’altro. La cosiddetta “Paypal Mafia”, sotto l’influenza dell’investitore Peter Thiel e del suo venture capital Founders Fund, si è concentrata sul dar vita a tutta una serie di start-up dai nomi ispirati alla mitologia de Il Signore degli Anelli che si sono focalizzate su attività militari e di spionaggio. Thiel è alle radici di Palantir — azienda che analizza i Big Data per polizie ed esercito — e di Anduril, realtà specializzata nella creazione di mezzi militari autonomi. Kevin Hartz, ex partner del Founders Fund, ha invece lanciato Sauron, impresa che punta a militarizzare la sicurezza domestica. Thiel ha inoltre avuto un ruolo essenziale anche nel lancio di Neuralink e SpaceX e, attraverso Palantir, ha supportato DOGE, il “Dipartimento dell’Efficienza Governativa” che ha messo a soqquadro gli Stati Uniti.

Shyam Sankar (CTO di Palantir), Andrew “Boz” Bosworth (CTO di Meta), Kevin Weil (Chief Product Officer di OpenAI) e Bob McGrew (ex capo ricercatore di OpenAI) sono stati tutti arruolati come tenenti colonnelli part‐time nell’esercito statunitense, con l’obiettivo di portare i loro talenti tecnici all’interno del Pentagono. Sam Altman, CEO di OpenAI, ha diversificato i suoi investimenti co-fondando World, un servizio di scansione oculare che si presta naturalmente alla sorveglianza, ma che è pensato formalmente per compensare l’esplosione dei profili gestiti da IA, verificando l’“umanità” dell’utente. Un obiettivo ironico, se si considera che la crescita esponenziale di questi falsi profili sia in parte attribuibile proprio a OpenAI — azienda che, peraltro, ha siglato a inizio mese un contratto da 200 milioni di dollari per concedere al Dipartimento della Difesa statunitense i suoi strumenti di intelligenza artificiale.

Complice la corsa al riarmo che sta investendo le nazioni di tutto il mondo, il settore bellico e della sicurezza rappresenta per il mondo imprenditoriale una risorsa su cui investire fortemente, un obiettivo finanziariamente molto più interessante di quella “green economy” che è ormai finita in secondo piano. Se oggi i grandi capitali si orientano verso guerra e sorveglianza, però, chi potrà ancora permettersi di investire nella pace?

 

Spagna: il doppio gioco di Sanchez tra spese NATO, Palestina e scandali interni

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Durante i giorni del vertice della NATO celebrato all’Aia, momento in cui tutti i Paesi membri hanno aderito all’aumento delle spese militari fino al 5% del proprio PIL annuo, a godere di un certo clamore mediatico e a ricevere il plauso di varie frange della politica europea e italiana, è stato il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez. Il socialista, difatti, è stato l’unico, almeno a parole, a replicare all’obbligo imposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, esprimendo un netto rifiuto e assicurando al popolo che rappresenta che la Spagna avrebbe agito diversamente dagli altri stati membri.

Domenica 22 giugno, a due giorni dal vertice, Pedro Sánchez ha rilasciato una conferenza stampa a sorpresa e senza la presenza di giornalisti, per annunciare che, grazie ad un accordo stipulato con il Segretario generale della NATO Mark Rutte, la Spagna avrebbe ottenuto la possibilità di esimersi dall’aumento al 5% del PIL, pur garantendo in ogni caso il raggiungimento dei capability targets, ovvero gli obiettivi fissati dall’alleanza che ciascuno stato deve raggiungere per contribuire. Secondo Pedro Sánchez, attraverso le stime di un comitato tecnico non ben specificato, per raggiungere gli obiettivi NATO sarebbe sufficiente il solo 2,1% del PIL, percentuale che non convince Rutte che ha smentito rilanciando con un impegno minimo del 3,5%.

L’impegno con la NATO

Nonostante il presunto accordo tra NATO e Spagna, non ancora reso pubblico, il 25 giugno Pedro Sánchez si è visto obbligato a firmare l’aumento del 5%, al pari degli altri Paesi e confermare così l’impegno spagnolo nel raggiungere la percentuale annuale entro il 2035. Restano quindi da vedere i parametri politici dentro i quali Sánchez si muoverà: intanto, mentre Donald Trump ha dato inizio al consueto teatro di minacce nei confronti di coloro che provano a rispondere alle imposizioni statunitensi, il primo ministro socialista ha reiterato l’intenzione di non superare il 2,1% e ha smentito le ipotesi di un ripensamento dell’impegno spagnolo in Europa e nella NATO: «essere europeista e atlantista non implica un’adesione cieca che altri nel nostro paese propongono» ha dichiarato Sánchez in conferenza stampa.

Se in una gran parte della sinistra europea Sánchez ha rapidamente interpretato il ruolo dello strenuo avversario politico di Trump, in patria le reazioni sono state senza dubbio più variegate. Dall’opposizione, il Partido Popular e il partito di estrema destra VOX, arroccati in una condizione di perpetua campagna elettorale, hanno accusato Sánchez di aver destabilizzato l’Europa con il fine ultimo di distogliere l’attenzione dai casi di corruzione all’interno del Partito socialista; da sinistra, invece, Ernest Urtasun, ministro della cultura e portavoce del partito Sumar (secondo socio maggioritario al governo) ha esaltato la dignità della Spagna, contro le «pretese assolutamente inaccettabili» avanzate dal presidente statunitense. Anche gli indipendentisti baschi di Euskal Herria Bildu hanno apprezzato la «posizione corretta» di Sánchez, mentre Gabriel Rufián, portavoce degli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana, ha valutato negativamente l’aumento delle spese militari imposto dalla NATO e in merito alle minacce del tycoon ha affermato che «è sempre una cosa buona far arrabbiare Trump».

Ernest Urtasun, ministro della cultura e portavoce del partito Sumar (secondo socio maggioritario al governo)

Resta il fatto che questo nuovo accordo ha paradossalmente assuefatto le proteste provenienti dalla sinistra parlamentare, che solo ad aprile denunciavano i gravi colpi che il welfare sociale avrebbe subito con l’aumento del PIL destinato alla difesa allora al 2%. In quell’occasione Sánchez assicurò la possibilità da parte del paese di gestire la spesa, escludendo alcun tipo di taglio.

In un’ottica diametralmente opposta si è situata l’opinione di Podemos. Dal partito, infatti, denunciano il presunto inganno che Sánchez avrebbe pronunciato nel presentare un accordo privato, che in ogni caso ha portato alla firma e, secondo loro, al conseguente impegno della Spagna con la NATO. Difatti, Sánchez, appellandosi a mere questioni linguistiche, avrebbe specificato che nel trattato dell’alleanza atlantica non figurerebbe l’obbligo da parte di «tutti» i paesi membri di raggiungere il 5%, bensì da parte de «gli alleati», voce che aprirebbe ad un’estromissione della Spagna dall’obbligo. Davanti all’impossibilità di tirarsi fuori dall’accordo atlantico, i viola prevedono come unica soluzione l’interruzione degli accordi e l’uscita dalla NATO.

I rapporti con Israele

Sánchez sembra rappresentare un faro per la sinistra europea anche sul genocidio a Gaza. Il governo spagnolo, infatti, nonostante il grande ritardo istituzionale sulla questione, è stato tra i primi a spendersi a sostegno del popolo palestinese, riconoscendo lo stato di Palestina e, successivamente, dichiarando di aver interrotto alcuni contratti di compravendita d’armi stipulati con lo stato israeliano. Se da questo punto di vista Sánchez si è schierato, specialmente negli ultimi mesi, con fermezza contro Netanyahu, tanto da scatenare le ire dell’ambasciatrice israeliana a Madrid, un’inchiesta svolta dalla giornalista Olga Rodríguez ha svelato che dal 7 ottobre 2023 il governo spagnolo ha stipulato più di quaranta contratti con aziende militari israeliane, arrivando ad almeno 134 operazioni di compravendita dall’inizio del genocidio. Nonostante questi dati siano pubblici, Sánchez e la ministra della Difesa Margarita Robles hanno sempre negato queste relazioni commerciali. A questo si aggiungono i transiti per i porti spagnoli di navi cariche di armi o materiali di approvvigionamento militare diretti verso Israele: l’ultimo è previsto per l’1 luglio attraverso il porto di Barcellona. Anche in merito all’aggressione israeliana ai danni dell’Iran e ai seguenti giorni di conflitto, Sánchez ha scelto di rimanere in silenzio, per poi intervenire solo dopo l’attacco statunitense e condannare la presunta corsa al nucleare iraniana, senza mai menzionare le responsabilità statunitensi e israeliane.

Gli scandali interni

È sul fronte interno, però, che Sánchez si trova in un equilibrio specialmente precario. Difatti, dopo lo scoppio del “caso Koldo”, il caso di corruzione interno al partito scoppiato nel corso del primo anno della legislatura, che ha portato alle dimissioni dell’ex ministro dei trasporti José Luis Ábalos, nel mese di maggio la Unidad Central Operativa (UCO) della polizia giudiziaria della Guardia Civil ha scoperto che il Segretario d’organizzazione del PSOE e numero tre del partito Santos Cerdán ha influenzato l’acquisizione di appalti pubblici a favore di imprese costruttrici come Acciona.

L’ex ministro dei trasporti José Luis Ábalos

In seguito alle dimissioni da segretario e da deputato di Cerdán, Sánchez ha rilasciato una conferenza stampa durante la quale ha pubblicamente chiesto «perdono», senza però rinunciare alla propria carica istituzionale. Il futuro della legislatura sembra quindi appeso a un filo, ma nonostante tutto Sánchez resta tranquillo sulla fiducia dei suoi alleati di governo. L’approvazione definitiva pronunciata il 26 giugno da parte del Tribunal Constitucional sulla controversa Ley de Amnistía, può sicuramente far tirare un sospiro di sollievo ai socialisti, specialmente nelle relazioni con il partito indipendentista catalano di destra Junts, che fino ad ora si è dimostrato l’alleato più scomodo. Ci si chiede, però, quanto questa pace sociale possa durare: i casi di corruzione hanno già incontrato il malcontento degli alleati a sinistra, specialmente da Sumar, che negli ultimi giorni ha perso l’appoggio del partito Més, socio maggioritario della coalizione, passato ufficialmente al gruppo misto. Sánchez sembra così avere particolare favore in ambito europeo, dove probabilmente non riescono ad emergere le inchieste giornalistiche sulle relazioni con Israele o i casi di corruzione da gestire in casa. Il presidente non ha dubbi: «sì, sono deciso a ripresentarmi alle prossime elezioni generali nel 2027» ha affermato nella conferenza stampa celebrata dopo il vertice della NATO.

Europa, alte temperature provocano roghi e allarmi in diverse zone

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Un’intensa ondata di calore sta colpendo l’Europa, causando incendi e allarmi in vari Paesi. In Turchia, roghi alimentati dal caldo hanno colpito diverse città, e ad Adana un aereo antincendio è precipitato, con le operazioni di ricerca e salvataggio che sono attualmente in corso. In Grecia, già colpita nelle scorse settimane dai roghi, le temperature hanno toccato i 41°C, spingendo molti cittadini verso le spiagge. Nella Penisola Iberica, il Portogallo attende picchi di 44°C e ha diramato allerte per il rischio incendi a causa di siccità e vento. In Italia, il fine settimana si chiuderà con temperature fino a 40°C in varie regioni.

Guardare ai classici per rifondare la scuola e l’Italia: la lezione di Dionigi

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Ivano Dionigi, uno dei più noti latinisti italiani e già rettore dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, ha pubblicato per Laterza un pamphlet dal titolo evocativo, Magister. La scuola la fanno i maestri non i ministri. Nelle premesse del saggio l’Autore tiene a precisare che non ha nessuna intenzione di entrare a gamba tesa in merito alle ennesime polemiche sulle riforme  della scuola. Dalla sua forma mentis di studioso dei testi classici, Dionigi intende «fare un elogio della scuola, a partire dal significato originario di scholé; elevare un’ode civile all’educazione, paidé ai, come la chiamavano i classici» (pag. 9). Partendo da questo assunto e premettendo che in questo preciso contesto storico la famiglia e la Chiesa hanno perso la prerogativa dell’educazione, la scuola ha l’onere di essere l’istituzione che deve perseguire lo scopo di formare il cittadino dal punto di vista etico e il luogo in cui gli studenti si identificano per la prima volta come una comunità di uguali, senza nessuna barriera sociale, economica e culturale.

Sulla scorta di Nietzsche e di Montaigne, la scuola deve perseguire l’obiettivo di formare dei cittadini pensanti, contraddistinti da una personalità non gregaria e non ridursi a creare dei futuri dipendenti di società che operano nei mercati commerciali e finanziari. Per fare ciò la scuola si deve fondare su tre parole-principi: interrogare, intelligere, invenire, che secondo Dionigi «devono essere scritte all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni formative» (pag. 54). L’interrogare non è altro che l’attività che faceva Socrate nel domandare al proprio interlocutore «Tu chi sei?» e che confluiva nella massima del “conosci te stesso”, ovvero far elevare l’uomo come individuo alla sua massima espansione intellettuale

L’intelligere sta nel saper leggere e contestualizzare fatti e accadimenti contingenti, il che comporta una cognizione approfondita ad ampio raggio, quindi una conoscenza non specialistica che è solamente sterile e fine a se stessa. Infatti, se si guarda fin dai tempi dell’antichità la poesia, il pensiero scientifico e quello umanistico erano tutt’uno e lo stesso Cicerone nel De oratore sosteneva che l’unità del sapere era fondamentale per chiunque avesse l’ambizione di guidare la propria patria. La stessa separazione delle discipline, scrive Dionigi, ha avuto il demerito di creare discipline come l’economia e le materie tecniche che esistono solamente per creare un’utile materiale fine a se stesso, ma che non riescono a soddisfare la domanda sul perché del loro scopo. A chi è demandata la parte di porsi delle domande e stabilire l’eticità del progresso sono le materie umanistiche, discipline da cui non si può prescindere per il bene comune dell’intera società.
L’ultimo termine utilizzato da Dionigi è invenire, che nell’etimologia latina ha un doppio significato: in una prima accezione vuol dire «scoprire»e in una seconda «riscoprire di nuovo». Attribuire al termine il primo significato, il secondo o entrambi i significati, vi si racchiude comunque l’antica lezione che ha fornito i testi classici alla civiltà, ma che di fatto sono stati letteralmente cancellati dal presente codice culturale italiano. La causa, secondo l’Autore, è da imputare a una sorta di cattiva interpretazione di carattere storico e politico che è stata alla base del pregiudizio riguardo i classici, ritenuti testi ad uso esclusivo di una classe sociale elitaria e non popolare, che andava a discapito delle classi sociali basse.

A questo fraintendimento ha dato il suo contributo fondamentale l’appropriazione superficiale e qualunquista che ne fece il fascismo «che cercò ossessivamente di attualizzare la cultura e la civiltà latina in tutti i campi del sapere, dell’architettura alla lingua, fino a individuare nei maggiori poeti di Roma i cantori profetici del Ventennio fascista […]» (pp. 90-91).A questo retaggio, il successivo dibattito parlamentare, avvenuto tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta, in merito alla discussione dell’abolizione dell’insegnamento del latino nella scuola dell’obbligo in cui le compagini di sinistra vedevano il latino come una lingua passatista e di destra. A questo, aggiunge Dionigi, andando contro anche la sua stessa corporazione, ha dato adito l’insegnamento di alcuni docenti classicisti i quali  hanno fondato l’insegnamento della loro disciplina concentrandosi, in maniera esasperata, sulla struttura grammaticale e nella ricerca filologica, lasciando da una parte il messaggio intellettuale del testo. Il risultato della somma di questi fattori è stato quello che nell’opinione pubblica italiana si è diffusa la malsana idea che il latino e tutta la cultura classica non servono a nulla per le attività quotidiane della vita a differenza delle discipline scientifiche, mettendo in contrapposizione i due distinti saperi.

Oltre a quanto asserisce giustamente Dionigi, tale stereotipo ha causato un vistoso  abbassamento del livello culturale degli italiani, come ha dimostrato il rapporto Censis del 2024 intitolato Sindrome italiana, in cui viene evidenziato che è in corso una vera e propria emergenza educazionale. Nel rapporto si attesta che il 43,55 % degli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori non raggiunge gli obiettivi minimi di apprendimento dell’italiano. Inoltre,  per quanto concerne la conoscenza di eventi e personaggi storici, il rapporto da risultati dal sapore tragicomico. A livello esemplificativo si possono citare i seguenti casi: il 49,7% degli intervistati non sa indicare quando è avvenuta la Rivoluzione francese, oppure il 35,9% crede che Giuseppe Verdi sia stato il compositore dell’inno di Mameli. Questo rapporto mostra che il singolo individuo non ha gli strumenti intellettuali per decodificare le notizie vere da quelle false e quando queste ultime vengono appositamente fabbricate possono produrre il risultato di creare stereotipi e comportamenti irrazionali, andando a danneggiare tutta la comunità.

La nave di Emergency recupera 2 salme al largo della Libia

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La nave Life Support di Emergency ha recuperato due cadaveri in acque internazionali della zona Sar libica. L’allarme era stato lanciato da Sea-Watch dopo che l’aereo Seabird aveva avvistato diverse salme alla deriva. Non è chiaro cosa sia accaduto: Emergency ipotizza un naufragio ignorato, una mancata risposta a un SOS o un’intercettazione della Guardia costiera libica che ha spinto alcune persone a buttarsi in mare per non essere riportati in Libia. I corpi, in stato di decomposizione, sarebbero rimasti in mare almeno una settimana. Le salme arriveranno ad Augusta domenica 29 giugno.

La Cassazione boccia il decreto sicurezza: “Possibili profili di incostituzionalità”

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La Cassazione ha inferto un colpo durissimo al decreto Sicurezza del governo Meloni. In un report di 129 pagine – la Relazione n. 33, pubblicata il 23 giugno 2025 – l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte ha infatti formulato una lunga serie di rilievi sul metodo e sul merito del provvedimento, delineando possibili profili di incostituzionalità e disomogeneità nei suoi articoli, tanto dirimenti da poter costituire base per ricorsi alla Corte costituzionale. Sebbene non si tratti di un documento vincolante, l’autorevolezza della fonte lo rende certamente una pietra miliare nell’attuale dibattito giuridico e politico. Tra i passaggi finiti sotto la lente della Suprema Corte, le aggravanti territoriali e di status, le norme che puniscono le rivolte in carcere e le occupazioni abusive, lo scudo penale per i servizi segreti e il divieto alla commercializzazione della cannabis light.

Il pacchetto sicurezza – entrato in vigore il 12 aprile 2025 – è stato approvato dal governo in forma di decreto legge, dopo essere stato bloccato in Parlamento sotto forma di disegno di legge. Un passaggio che la Cassazione definisce senza precedenti nella materia penale: «La prassi parlamentare annovera due soli precedenti di trasposizione dei contenuti di un progetto di legge in discussione in Parlamento in un decreto-legge, a suo tempo in effetti censurati dalla dottrina costituzionalistica e, in ogni caso, nessuno dei due riguardava la materia penale». La Corte osserva che la decretazione d’urgenza è stata usata in modo arbitrario, esprimendo «severe perplessità anzitutto sulla (in)sussistenza dei presupposti giustificativi». E ancora: «A ciò si aggiunge l’estrema disomogeneità dei contenuti», che «avrebbe richiesto un esame ed un voto separato sulle singole questioni». Invece, «la conversione in legge li riunisce “a bordo” di un unico articolo», in violazione della Costituzione (art. 72). Sul piano formale, inoltre, la Cassazione rileva che il decreto non è stato presentato alle Camere per la conversione il giorno stesso della sua adozione, come impone l’art. 77 della Costituzione. Ne deriva un possibile vizio insanabile: mancando «i presupposti costituzionali della decretazione d’urgenza», potrebbe determinarsi «l’invalidità della legge di conversione».

I rilievi più significativi si concentrano però sul merito. Il provvedimento, evidenzia la Corte, presenta un «rischio di colpire eccessivamente gruppi specifici, come minoranze etniche, migranti e rifugiati», e può produrre «discriminazioni e violazioni di diritti umani». La formulazione di molte nuove fattispecie penali e aggravanti è così vaga e generica da violare i principi costituzionali di «materialità», «precisione e determinatezza», «offensività», «uguaglianza», «autodeterminazione», «ragionevolezza» e «libertà di manifestazione del pensiero». Un esempio eloquente è rappresentato dalle aggravanti collegate al luogo o allo status dell’autore del reato, come nel caso del «danneggiamento in occasione di manifestazioni», dove il rischio è quello di criminalizzare «la contestazione e il dissenso». O ancora, la previsione di pena detentiva differenziata per le madri detenute con figli minori di un anno: basta un solo giorno in più nella data di nascita per cambiare radicalmente la sorte giudiziaria. Per quanto concerne i nuovi reati di resistenza passiva nelle carceri, la Corte sottolinea il rischio di incriminare «ogni atto di ribellione, non connotato da violenza o minaccia, quali, ad esempio, il rifiuto del cibo o dell’ora d’aria», parlando di una scelta «senza precedenti nell’ordinamento penale».

Particolarmente controversa è anche l’estensione dello scudo penale agli agenti dei servizi segreti che creano o dirigono gruppi eversivi o terroristici «a fini preventivi», che la Corte inquadra come «l’intervento più significativo e, per certi aspetti, più controverso» del decreto. La scelta di consentire agli 007 di fondare gruppi terroristici è, secondo gli ermellini, «un assoluto inedito nel panorama penalistico». Dirigere un’associazione terroristica è infatti «fenomeno ben diverso, più grave e più pericoloso rispetto alla già sperimentata possibilità di “infiltrazione”», trattandosi di una misura «sproporzionata, se non addirittura disfunzionale» rispetto alle finalità dell’antiterrorismo.

Preoccupa, inoltre, la norma che punisce le occupazioni abusive, che secondo la Corte presenta «eccessiva indeterminatezza», è «di difficile configurabilità» e non prevede nessuna «forma di impugnazione». I giudici si focalizzano anche sul divieto di commercializzare la cannabis light (art. 18), che «sembra impedire la libera circolazione di una merce all’interno dell’Ue in spregio al principio del mutuo riconoscimento e in rilevato difetto di esigenze imperative», mancando «evidenze scientifiche che provino che le infiorescenze di canapa e i derivati di varietà di canapa con un contenuto di Thc inferiore allo 0,3% siano una minaccia per la sicurezza e la salute pubblica».

Congo e Ruanda firmano accordo di pace mediato dagli USA

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La Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda hanno firmato a Washington un trattato di pace, mediato da Stati Uniti e Qatar, per porre fine al conflitto nell’est della RDC. Alla cerimonia erano presenti i ministri degli Esteri dei due Paesi e il segretario di Stato americano Marco Rubio. L’accordo prevede il rispetto dell’integrità territoriale, il disarmo dei gruppi armati, il ritorno di rifugiati e una cooperazione economica rafforzata. Il conflitto, concentrato nelle province del Nord e Sud Kivu, ha causato centinaia di migliaia di vittime e milioni di sfollati negli ultimi decenni.