Il mito in questione riguarda l’origine del fuoco e la connessione che esiste tra questo e l’origine della guerra. I miti arcaici parlano o di una contesa tra le forze naturali o degli obblighi imposti dalle divinità, principalmente il sole. Il fuoco – e di conseguenza la guerra – mettono in scena una obbedienza. «Per poter illuminare la terra, il sole deve nutrirsi di cuori umani e bere sangue. Per questo motivo dovette venir creata la guerra, la sola maniera con cui si potevano ottenere cuori e sangue. Poiché tutti gli dei lo volevano, essi crearono la guerra»: questo il racconto azteco ma non molto diverso il mito malgascio riportato da Frazer (Miti sull’origine del fuoco, 1930, trad.it. Xenia 1993, p. 149). Anche qui fuoco e guerra sono correlati: la guerra è quella tra Sole e Tuono, tra le fiamme che divampano e il rumore prodigioso del tuono che fa scaturire cascate d’acqua dalle nuvole spegnendo le fiamme. Ma le truppe del Sole si nascosero per sopravvivere tra le rocce e anche in elementi naturali come il legno e le pietre dure da cui possono scaturire, come vulcani o come semplici scintille.
Lo statuto mitologico della guerra risiede dunque in uno scontro di forze naturali per un irragionevole primato, un primato che spetta agli esseri umani razionalizzare nella opposizione e complementarità logica di ‘cotto’ e ‘crudo’. Una leggenda etiopica, infatti, narra che “una volta gli uomini non avevano fuoco, e dovevano mangiare tutto crudo. In quel tempo, però, gli uomini non morivano, e quando diventavano vecchi Dio li faceva ritornare giovani. Ma un giorno pensarono di chiedere a Dio un po’ del suo fuoco. All’uomo che gli rivolse questa preghiera Dio disse: «Ti darò del fuoco se sei disposto a morire». L’uomo accettò ed ebbe da Dio il fuoco, ma da allora tutti dobbiamo morire”. (Favole etiopiche, Xenia 1993, p. 147).
Il grande antropologo francese, Claude Lévi-Strauss, nel suo capolavoro Il crudo e il cotto dimostrò efficacemente come gli attributi delle cose indichino proprietà logiche, e che c’è una stretta correlazione tra le esperienze sensibili e le categorie intellegibili. I segni consistono appunto nell’esprimere e organizzare dati naturali in forme logiche. Così nella lotta tra acqua e fuoco il pensiero mitico sudamericano dei Bororo distingue due tipi d’acqua: un’acqua creatrice, di origine celeste e un’acqua distruttrice di origine terrestre. Così pure per il fuoco, uno celeste distruttore, l’altro terrestre e creatore: quest’ultimo è il fuoco di cucina (p. 247). Da cui per semplificare due azioni ‘belliche’, una devastatrice e portatrice di morte e un’altra benefica, trasformatrice, a patto di conoscere determinate tecniche.
Se riconduciamo, grazie al mito, il concetto di guerra a due distinti versanti, uno per ottenere energia, l’altro per ottenere distruzione, capiamo perché i miti parlano di una vita abbreviata, che in termini di una logica moderna diremmo contrassegnata dalla violenza e dalla morte, a fronte di una vita prolungata, dove la resurrezione consiste nel mantenere in vita gli antenati, nel dare cioè, nei nostri termini, continuità al tempo, in qualche modo ‘cucinandolo’, sfruttando le sue potenzialità. Nello stesso tempo, nel pensiero mitologico le risorse vengono presentate come non illimitate e ad esempio la siccità si alterna consapevolmente alla stagione delle piogge, grazie a una rappresentazione simbolica delle costellazioni celesti e delle stagioni.
L’idea di guerra originaria non è dunque da correlare principalmente a uno scontro tra forze umane, tra fronti bellici in lotta per la supremazia ma farebbe parte di quella «impresa collettiva di significazione» di cui parla Lévi- Strauss, dal momento che «il pensiero mitico non accetta la natura se non a condizione di poterla ripetere» (p. 447). Dall’inevitabile esprimersi contraddittorio, potente delle forze naturali, spetta all’uomo trovare una via d’uscita per preservare «una immagine del mondo inscritta nell’architettura dello spirito» (p. 446). Trascurare dunque questo orizzonte significa inevitabilmente precipitare nella vera e propria guerra tra opposte fazioni, dove l’uso legittimo della forza non riesce più a essere disciplinato dagli stati e l’idea di guerra viene unicamente declinata in quella di conflitti armati.
Conflitti che nei nostri anni indicano la perdita di forme di controllo, l’emergere di insurrezioni su media e vasta scala e che giustamente uno studioso come Giovanni Carbone individua, ad esempio in Africa, come «il frutto di una competizione per risorse sempre più scarse»(L’Africa, Il Mulino 2021, p. 95). A dimostrare che le stesse competizioni per la terra e per l’acqua tra popolazioni nomadi e popolazioni stanziali mostrano ancora una volta la genesi remota dell’idea di guerra.
Un’idea di guerra che nel mondo occidentale e nella coscienza comune si è fatta sempre risalire alla espansione territoriale, al prevalere di interessi economici e di potere per il dominio ad esempio nei traffici, nei commerci, nella espansione coloniale, nelle risorse energetiche, nei bacini naturali da sfruttare. L’evoluzione industriale e tecnologica ha poi trasformato l’idea stessa di guerra da scontro su fronti a un distruttivo coinvolgimento globale, facendo dilagare il concetto di insicurezza (anche nella popolazione civile, pensiamo ai bombardamenti aerei nei conflitti mondiali del secolo scorso) a tal punto da produrre forme di controllo assoluto.
Mi pare di poter dire che nel migliore dei casi attualmente l’orizzonte è quello di creare una permanente atmosfera bellica, e questo, ancora una volta, grazie al mancato controllo e assennato sfruttamento e gestione delle risorse naturali.
Abbiamo inventato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso una idea di convivenza in Europa centrata prima sulla crescita ma poi sulla competizione e sulla supremazia. Troppo rare e inconsistenti le iniziative per acquisire coscienza comune, per fare dell’Europa un centro di proposte e di visioni anche soltanto culturali. Un’Europa che non dimenticasse quanto è avvenuto nel Novecento, lasciando conseguenze devastanti, ma anche esprimesse una forte capacità di ricostruzione, tentando una armonia purtroppo precaria perché indifferente al mondo naturale, alle esigenze di tutti i viventi, prigioniera di una idea di sviluppo a tutti i costi.
I passi che seguono mostrano – due esempi presi davvero a caso – come fin dai tempi di Omero si ritenesse che i potenti – gli dèi – se ne stessero tranquilli nel loro Olimpo, disinteressandosi dei conflitti che avevano provocato o sostenuto. E come la guerra militare, non quella simbolica, con i suoi scontri sanguinari sia stata una fonte di angoscia e di orrore. Ciò insomma che non vorremmo mai, che nessuno dovrebbe volere realmente, soprattutto coloro che hanno il compito di governare.
«L’Aurora dal letto, lasciando Titone glorioso,/ sorse a portare la luce agli immortali e ai mortali;/ e Zeus verso le navi snelle degli Achei lanciò la Lotta/ tremenda, che in mano aveva il segno di guerra./ …/ Qui ritta la dea gettò un grido forte, pauroso,/ acuto; e ispirò gran furia agli Achei, a tutti/ nel cuore, per lottare e combattere senza riposo:/ e la guerra divenne per loro più dolce del ritornare/ sopra le concave navi alla terra paterna./…/ Gli altri dèi non eran fra essi: quieti/ sedevano nei loro palazzi, dove a ciascuno/ è costruita la bella dimora, tra le gole d’Olimpo» (Omero, Iliade, trad. R. Calzecchi Onesti, XI, 1-4, 10-14, 75-77).
«Silenzio rotto da un’agitazione ansimante, senza posa, nel fango. Ad est il cielo schiariva inavvertitamente, come per la morte più che per la nascita di qualcosa ed essi scrutavano davanti a loro senza vedere nulla. Sembrava che lì la guerra non ci fosse, benché alla loro destra si levasse e cadesse denso e pesante sull’alba stanca un rumore gutturale di fucili. Powers, l’ufficiale, era passato dall’uno all’altro. Nessuno doveva sparare; c’era una pattuglia là fuori in qualche posto nell’oscurità. L’alba cresceva grigia e lenta; dopo un po’ la terra prese una forma vaga e qualcuno, vedendo una minore oscurità, gridò: ‘I gas!’. Powers e Madden balzarono in mezzo ad essi che lottavano ciecamente cercando a tastoni e strappandosi le maschere antigas, calpestandosi a vicenda, ma furono impotenti. Il tenente dava pugni a destra e a sinistra, cercando di imporsi, e l’uomo che aveva dato l’allarme si voltò improvvisamente sulla linea del fuoco, la testa e le spalle stagliate contro l’alba dolorosa. ‘Ci ha accoppati,’ urlò, sparando a bruciapelo in viso all’ufficiale» (W. Faulkner, La paga del soldato, trad.it. Garzanti 1965, pp. 165-66).
[di Gian Paolo Caprettini]