Sono passate in sordina le recenti notizie che riguardano agitazioni e aggressioni avvenute nel distretto tessile di Prato, uno dei più grandi centri produttivi di abbigliamento e pelletteria presenti in Italia. Eppure merita una riflessione, perché quello che spesso vediamo accadere dall’altra parte del mondo non è poi così differente da ciò che ci circonda giornalmente: il tracollo del settore moda è sistemico, non geografico.
Lo scorso 8 ottobre, davanti alla ditta Lin Weidong di Seano, un gruppo di operai pachistani in sciopero sono stati attaccati, con mazze e spranghe, da alcuni italiani. Gli operai stavano protestando contro le condizioni di lavoro inumane e gli orari insostenibili. A seguito dell’evento ci sono state due manifestazioni e la procura, al momento, sta indagando su quanto accaduto, ma pochissime sono state le parole spese dalle autorità su una situazione che non è un caso isolato. Il giorno 17 dello stesso mese, infatti, due imprenditori cinesi sono stati arrestati dopo la denuncia di un loro dipendente, il quale ha testimoniato turni di lavoro di 13 ore al giorno per 7 giorni, a fronte di una paga di 13 centesimi al pezzo (il tutto in nero e senza uno straccio di contratto). Quello che sta venendo fuori, tra Prato e dintorni, è sintomatico della crisi che sta colpendo l’intero settore.
Prato, ai tempi, è stata una delle storiche capitali del settore manifatturiero italiano; il comparto tessile era uno dei più prolifici, capace di generare prodotti di altissima qualità e manifattura, noti in tutto il mondo. Dell’ascesa (e del successivo declino) ne ha scritto Edoardo Nesi nel suo Storie della mia gente, uno spaccato dell’industria pratese dai tempi d’oro fino alla crisi, identificata con la nascita del distretto parallelo cinese.
Ditte asiatiche hanno iniziato ad insediarsi in zona inserendo sul mercato il pronto moda, il fratello nostrano del fast fashion, venduto prevalentemente nei mercatini e successivamente esportato nell’Europa dell’Est. Un prodotto facile con molta richiesta, aziende impostate su ritmi di lavoro quasi a ciclo continuo, un discreto giro di soldi per gli imprenditori cinesi (e anche per i proprietari delle mura dei capannoni). Per qualche anno i produttori di tessuti italiani ed il pronto moda cinese hanno convissuto in maniera quasi civile e senza pestarsi i piedi; qualche visionario pensò addirittura di poter collaborare: da una parte tessuti, dall’altra confezioni di abbigliamento e magari qualche grande gruppo internazionale (Zara, H&M, ecc) a cui vendere un sistema produttivo completo e relativamente vicino.
I sogni sono rimasti chiusi dentro qualche magazzino ma, se fino a qualche anno fa le cose andavano più o meno bene per tutti, oggi la filiera tessile pratese è in sofferenza, con un calo degli ordini senza precedenti. Tempi bui all’orizzonte, clima pesante, poca interazione ed un nuovo “soggetto” apparso a dare del filo da torcere: la manodopera pachistana. Negli anni, infatti, i connazionali cinesi sfruttati (spesso in difficoltà o con necessità di lavorare a qualsiasi costo) sono stati lentamente sostituiti da asiatici in cerca di opportunità. Con i pro ed i contro del caso. Mentre prima si parlava la stessa lingua, con il risultato che i panni sporchi si lavavano in casa (e casi di denuncia se ne vedevano pochi o nessuno), adesso i conflitti esplodono e vengono alla luce. Da qui le proteste, gli scioperi, gli interventi dei sindacati…e le mazzate!
Il pronto moda forse non garantisce gli introiti di un tempo, vuoi per l’incremento dei costi di logistica, vuoi per l’aumento del prezzo delle materie prime. Di tessuti se ne vendono pochi e sulle innovazioni gli investimenti scarseggiano. I settori della pelle, concia, tessile, accessori e minuterie metalliche subiscono consistenti cali annui, con aziende storiche costrette a chiudere e moltissime che ricorrono alla cassa integrazione. A tutto ciò si aggiungono le richieste dei brand del settore moda: sempre più esigenti e pressanti, ma che giocano al ribasso con i prezzi. Un circolo vizioso che rischia di far sparire un intero compartimento produttivo, compresa la ricchezza di maestranze e competenze. Il tavolo di crisi del distretto è stato convocato più volte, ma c’è bisogno di un intervento più massiccio e con aiuti concreti da parte del governo.
A questo scopo è stato indetto uno sciopero di 8 ore il prossimo martedì 12 novembre, a Firenze, che vedrà coinvolti i lavoratori del tessile/pelletteria della Toscana. Sotto la bandiera de «Il lavoro non è fuori moda – Per la qualificazione delle filiere e la tutela dell’occupazione», si chiederanno salvaguardia dei livelli occupazionali e aiuti per affrontare questo periodo di difficoltà, insieme a politiche in grado di valorizzare la filiera e tutelare il lavoro (basta sfruttamenti, di qualsiasi nazionalità siano i lavoratori).
Accendere i riflettori su quello che sta accadendo a Prato vuol dire rendersi conto della crisi di un intero settore, quello della moda (dal “pronto”- al – lusso), che era un fiore all’occhiello di quel Made in Italy che tutto il mondo ci ha sempre invidiato, ma per il quale nessuno, al momento, sembra intenzionato a fare niente per proteggerlo, ri-lanciarlo e valorizzarlo (che in mezzo a tanto delirio, ci sono ancora aziende virtuose e che operano in maniera responsabile). Ci vuole un ripensamento generale, dove tutti gli attori di questa frammentata industria inizino a lavorare insieme, progettando un nuovo sistema. In sinergia.
[di Marina Savarese]
Quello che sta succendendo nel settore tessile sta succedendo in tutti gli ambiti lavorativi: c’è sempre qualcuno disposto a lavorare ma con un salario inferiore … questo a sua volta crea maggior sfruttamento, contrazione dei salari e perdita del posto di lavoro …
Brava sig.ra Savarese, io non sono particolarmente interessato al settore della moda in quanto tale, ma percepisco lo stesso chiaramente la sua passione e la sua competenza. Perfetto esempio di un tema giornalistico affidato alla persona adatta a scriverne (ce ne fosse!). Complimenti a lei e all’Indipendente