domenica 30 Giugno 2024

Viaggio tra le poesie

«Dovremmo capire i versi dei poeti, i segnali dei satelliti, le voci degli animali»: ricordo queste parole di Jurij Michailovic Lotman, un celebre collega semiologo che incantava il pubblico con queste sue uscite visionarie e sentimentali che prefiguravano il bisogno di comprendere il vasto oceano del senso, nelle sue manifestazioni più disparate, più lontane tra di loro ma tutte attinenti alla sfera del nostro stare consapevoli nel mondo, con le nostre antenne che tracciano in continuazione sorprendenti percorsi di significato.

Abbiamo l’esigenza di sfidare l’incomprensione, siamo circondati da luoghi comuni, da stereotipi, da convenzioni anche soffocanti. Ma possiamo crearci margini di libertà, tutta nostra. Leggiamo ad esempio una poesia di Jacques Prévert, Fiesta: «E i bicchieri erano vuoti/ la bottiglia spaccata/ il letto spalancato/ e la porta sbarrata / E tutte le stelle di vetro/ della felicità e della bellezza/ scintillavano nella polvere/ della stanza mal ripulita/ Ero ubriaco morto/ ero un gioioso falò/ e tu ubriaca viva/ nuda fra le mie braccia».

Siamo in una sequenza cinematografica, facciamo parte di una scena immaginaria, decidiamo se essere uno dei due personaggi o nessuno, diventando spettatori. Abbiamo attribuito immagini a queste parole e questo è già il lavoro, il dono della poesia: aprire orizzonti multisensoriali, partecipare a sogni che non sono i nostri ma a cui non siamo totalmente estranei. A me per esempio salta agli occhi la scena iniziale del film Marylin ha gli occhi neri con Accorsi che dà di matto tra le vettovaglie e fa volare per aria qualsiasi cosa con una energia, un eros senza freni.

Pablo Neruda, ne L’oceano chiama soffre per la lontananza del mare e la poesia questa volta è sintomo di mancanza, passano tra i versi immagini di una stazione lontana dalle onde, di un tunnel che lo tiene prigioniero – nella realtà dell’esilio ma anche nell’impotenza di reagire. Io non voglio, dice il poeta, un mare qualsiasi, mi rifiuto. «Voglio il mio mare, l’artiglieria/ dell’oceano che batte sulle rive,/ quel precipizio insigne di turchesi,/ la schiuma dove muore la potenza». L’oceano è il suo liberatore.

Là dove non esiste la storia ma soltanto il mito, cioè il tempo illimitato risuonano altre parole marine. Siamo nell’Odissea, libro sesto, Ulisse, lo straniero, è arrivato tra i Feaci che dicono: «Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti,/ lontani, e nessuno viene tra noi degli altri mortali./ Ma questo è un misero naufrago che ci è capitato…/ Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,/ e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento».

Noi lettori, a nostra volta, diventiamo ospiti di quel che leggiamo, confrontiamo, come in una fotografia virtuale, ciò che viviamo con quanto dicono i poeti, e il risultato è uno spiazzamento, uno straniamento che moltiplica la nostra realtà, che agisce come un benevolo proiettile che cambia sempre percorso.

Apro un libro di Fernanda Romagnoli e trovo quel che stavo cercando, l’inevitabile, contradittorio approccio al tempo che soltanto la poesia ci permette di esorcizzare: «Fu pura diserzione./ Silenziosa vedetta mi scortava/ all’estuario del tempo./ Lo spazio si sfilava dai miei piedi,/ mal cucito sudario./ Non v’era qui altro metro che l’eterno». 

Mai dimenticare che il poema di Omero, l’Odissea, finisce con Atena, la dèa della guerra, che si rivolge a Ulisse invitandolo potentemente a sospendere ‘’il massacro della guerra crudele”. E questo perché? Perché la poesia, il mito hanno vinto

[di Gian Paolo Caprettini]

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